I Liguri. o Insubres

Quando si parla dell’epoca preromana si tende a generalizzare, attribuendo ai galli il territorio padano, una tendenza iniziata dai romani, i quali chiamavano Gallia Cisalpina la pianura Padana.

In realtà nella pianura Padana oltre alle incisioni rupestri della val Camonica risalenti all’8000 a.C., si sono trovate tracce della prima cultura di coltivatori affacciatasi sul Mediterraneo, detta “Cultura della Ceramica Cardiale”, risalente al 6500 a.C., e della contemporanea cultura dei “Vasi a Bocca Quadrata”, diffusa esclusivamente nella pianura Padana e in alcune enclave trans Alpine, quindi tracce di una evoluzione culturale superiore.

Mentre i galli erano solo gli ultimi arrivati prima della romanizzazione, i quali però pur essendo barbari, al contrario degli arabi semiti avevano l’umiltà di volersi adeguare alle culture più evolute.

Tra i popoli che a partire dal cultura della Ceramica Cardiale, tutti originari del Caucaso, che si sono insediati nella Padania, costituendo così una continuità culturale, possiamo citare i veneti allora chiamati “Wenedi” o “Windi”, = “I Bianchi”(Noi Celti e longobardi, Gualtiero Ciola), popolo di origine caucasica stanziato nell’attuale pianura veneta, l’Istria e le isole della Dalmazia, nelle quali sono sbarcati provenienti dalla Grecia, Albania e dall’Italia centrale, dove venti generazioni prima della nascita di Romolo, hanno fondato Albalonga, da ciò anche la tacita alleanza dei veneti con Roma, che non è mai stata messa in discussione.

In seguito colonizzarono le rive del mar Baltico, dalle quali a causa delle spinte generate da correnti migratorie provenienti dal Nord o dall’area del Volga e Don (i galli), gli anatolici si sono espansi verso il Nord Ovest della Francia, insediandosi nell’attuale Bretagna francese. 

Sull’origine troiana dei veneti pesa molto il dio Windos, (sinonimo di bianco) una divinità solare adorata in Anatolia dal cui teonimo avrebbe avuto origine sia il nome di Ilio, il fondatore di Troia (Wilusa) che quello di “Vinitia”, Venezia e Vienna la città Bianca.

Windos era una divinità solare e della salute, al quale in epoca romana era dedicato un tempio in nome di “Apollo Vindonnus”, situato sopra a una sorgente, nei pressi di Châtillon-sur-Senne in Borgogna; nelle fondazioni del tempio sono state ritrovate tre iscrizioni che lodavano il dio e la fonte. 

A Windo si può attribuire la sacralità su Vienna, in quanto il nome celtico della città era: “Windobona”; il significato della radice “bona” è incerto tra città, oppidum, o porto e sarebbe all’origine anche del toponimo “Bonomia”, oggi Bologna.

Windos è anche all’origine del nome della città di Lindo, sull’isola di Rodi, in quanto Helios la divinità alla quale era sacra l’isola e il suo colosso, era il teonimo ellenico corrispondente a Windos.

Il resto della pianura Padana con le Alpi, Prealpi ed Appennini, era occupata dai liguri, popolo di montanari e minatori, dediti prevalentemente all’estrazione di minerali (I Liguri E la Liguria, B. M. Giannattasio).

Popolo di incerta origine (secondo gli studiosi), ma il loro territorio i estendeva anche oltre le Alpi, nella Francia meridionale e si contraddistingue oltre che dalle tracce archeologiche, anche dalla presenza nei toponimi del prefisso “Var”, che li accomuna al culto di Varuna e alla cultura di Varna IV millennio a.C., terra situata in Romania e Bulgaria abitata dai potentissimi e ricchissimi, traci, un popolo dell’età del rame, forse mischiato con gli slavi (ceppo genetico I2)arrivati sulle Alpi in cerca di oro

In proposito, la conferma di ciò la possiamo trovare in una contraddizione, infatti tra gli studiosi di genetica, è diffusa la convinzione che la variante “U152” dell’aplogruppo “Y R1b”, sia dovuta all’arrivo dei galli, nella pianura Padana, quando invece questa variante è presente anche in Sardegna e Corsica dove storicamente i galli non sono mai arrivati,.

Nelle isole sono invece presenti le miniere di argento, alle quali erano fortemente interessati gli appartenenti alla potente cultura di Varna, quindi a mio parere la variante “U152”, farebbe riferimento ai minatori liguri di origine tracia, i quali oltre che nel territorio padano provenzale, erano insediati anche nelle due isole, dove appunto si riscontra la presenza di questa variante.

Geneticamente ed etimologicamente i liguri ci possono ricondurre a una popolazione primitiva originaria della valle dell’Indo, in quanto è attestata la presenza della cultura della ceramica cardiale, sviluppatasi nel Mediterraneo tra il VII e il VI millennio a.C., della quale si sono ritrovate tracce anche sulle Prealpi lombarde.  

Presumo che l’aplogruppo cromosomico patrilineare degli appartenenti a questa cultura corrispondeva al ceppo “G”, come risulta appartenere il coevo “Uomo di Similaun”, ritrovato sulle alpi, si tratta del ceppo genetico più antico, dopo gli aplogruppi africani e al ceppo “F”, e che ritroviamo ancora oggi presente in India, con alcune vere e proprie isole genetiche esistenti in Portogallo Spagna, Francia, Boemia, Sardegna, sulla catena alpina e appenninica, ma sicuramente in questa cultura erano presenti anche appartenenti al ceppo “R1b”. ed era stata preceduta da una cultura di cacciatori appartenenti ai ceppi genetici I1 e I2 vale a dire scandinavi e slavi.

Anzi, bisogna considerare che la cultura della Ceramica Cardiale, in Africa si è sovrapposta alla precedente cultura capsiana, la quale essendo di origine caucasica era sicuramente portatrice del cromosoma patrilineare “G”.

Pertanto possiamo associare alla cultura della Ceramica Cardiale anche i liguri, e gli Iberi portatori del cromosoma “R1b”,

I capsiani erano un popolo di pastori caucasici che aveva colonizzato la costa mediterranea dell’Africa a partire dal 10000 a.C., sovrapponendosi alla precedente cultura di “Mechta.Afalou”, e presumo che siano penetrati anche nei Balcani e in Italia.

Tracce genetico-linguistiche dei capsiani le possiamo identificare in Portogallo, nella regione della Lusitania, dove il 40% della popolazione discende dalla linea patrilineare “G”, e soprattutto parla una lingua che ha conservato spiccate caratteristiche pre indoeuropee, o pre iberiche.

La presenza dell’aplogruppo G è rilevante anche in Turchia, dove anche nei pressi del golfo di Smirne arriva al 40% mentre nel resto del paese si attesta al 20%. ed è ancora predominante nelle due Ossezie (Caucaso), e Pakistan, luogo d’origine del ceppo. L’aplogruppo “G” originatosi della valle dell’Indo si è poi diffuso a raggiera, anche nel sud della Cina e le isole del Pacifico, ma avrebbe avuto maggior successo in Europa, forse grazie ai cromagnoidi di tipo caucasico.

Da rilevare che in Sardegna, terra ligure, a fronte di un 15% della popolazione discendente dall’aplogruppo patrilineare “G”, se ne affianca un 37% appartenente al ceppo “I2a” caratteristico delle popolazioni slave, quasi assente nel resto d’Italia.

Questo dato è sicuramente dovuto al fatto che la Sardegna assieme alla Tunisia è stata l’ultima roccaforte del regno dei vandali, sulla quale si sono rifugiati dopo le sconfitte subite in Italia ad opera dei bizantini, determinando sull’isola un sovrappopolamento di gente slava, che come nelle precedenti invasioni si è insediata lungo le coste, mentre i primitivi hanno mantenuto il possesso dei monti, dove si trovano ancora oggi.

Il ceppo genetico “G” rimarrà dominante in Europa fino alla seconda metà del II millennio a.C., quando arriveranno altri popoli di origine caucasica iberi e albanesi appartenenti al ceppo “R1b”, ma meglio conosciuti come albani, pelasgi, greci, lidi, lici, ai quali seguiranno popolazioni di origine semita e africana, vale a dire i fenici e gli schiavi importati dai romani, i quali ridurranno la presenza del ceppo “G” a isole genetiche.

Contemporaneamente agli Iberi il cromosoma patrilineare “R1b” si diffonde nei Balcani con i danai, e gli Albani in Italia.

Si trattava di una penetrazione che aveva come punto di forza la cultura bulgara di Varna 4400 a.C., la cui necropoli, come testimonianza della potenza e ricchezza di quel popolo, ci ha restituito 297 tombe ricche di oggetti preziosi in oro e rame.

Nella lingua sanscrita Varna avrebbe il significato di “casta”, per alcuni indicherebbe la differenza di colore tra gli invasori Aryani e gli indigeni Hindi, ma bisogna considerare che il termine è più antico dell’arrivo dei bianchi in India e della introduzione delle caste.

In realtà Varna è una palese corruzione del teonimo Varuna e a questa divinità si deve il nome della Valacchia, la grande pianura Rumena che caratterizza il corso finale del Danubio, il fiume sacro a Danu madre di Varuna, e anche in Transilvania, troviamo la città di Oradea Mare, anticamente chiamata Gran Varadino, Magnovaradinum dai romani, Nagyvàrad dagli ungheresi e Großvardein in tedesco.

E sempre a Varuna e alla cultura di Varna si deve la diffusione nella pianura padana e nella Francia meridionale di toponimi che come Varese hanno il prefisso “Var”.

Quindi possiamo essere certi che la cultura di Varna è arrivata anche nella pianura Padana soprattutto se consideriamo che l’oro del monte Rosa e del Ticino, costituiva, una forte attrattiva per questo popolo di origine caucasica, non a caso i toponimi Alagna farebbero riferimento all’antica Alania, che in sanscrito significa “Casa della Neve”, una regione del Caucaso oggi chiamata Ossezia; attualmente lo stemma della regione, raffigura ancora le alte cime innevate del Caucaso.

Pertanto la fondazione delle due Alagna presenti in Italia, sarebbe avvenuta ad opera di cercatori d’oro, provenienti da quella regione, non a caso ad Alagna Valsesia, sono ancora presenti antiche miniere d’oro, mentre Alagna Lomellina è situata nelle vicinanze del Ticino, un fiume che anticamente veniva preso d’assalto dai cercatori d’oro.

Una traccia dell’antica presenza di popoli caucasici è la radice etimologica “gana” si tratta di un sostantivo che ritroviamo nella scrittura sillabica di sumeri e persiani con il significato di demanio, e la ritroviamo anche a Varese, terra ligure per eccellenza, nel toponimo “val Ganna”, valle dove i liguri hanno estratto grandi quantità di argento, rame e piombo.

La radice Gana è presente anche in vari toponimi alpini, come Susegana e Sugana, ma in modo inequivocabile nell’etimo longobardo “Vigano”, il quale indicava il demanio di un villaggio, quindi “vigano” significava:” Demanio del Villaggio”, in quanto etimologicamente, alla radice “gana” era stato anteposto il prefisso “Vi” derivante dal latino “Vicus”.

Nel XIII secolo a.C., tra i liguri emerse la cultura di Canegrate, situata in riva all’Olona, ma vicinissima all’aureo Ticino, e a testimonianza dei legami commerciali e culturali con la civiltà Egea, è di quel periodo, XIII secolo a.C., “il ripostiglio della Malpensa”, un ritrovamento nel quale tra i vari rottami, sono stati rinvenuti degli schinieri in bronzo, uno dei quali era identico nella forma e nel disegno a una copia di schinieri ritrovati ad Atene, in una tomba micenea della stessa epoca. Tramontata la cultura di Canegrate, sorse la civiltà di Golasecca, continuazione della prima.

In particolare Golasecca acquisiva un’importanza geografica molto rilevante in quanto essendo posta all’estremità sud del Verbanus nelle ore calde della giornata si poteva sfruttare il vento da sud che permetteva di navigare contro corrente con facilità fino ai piedi dei valichi alpini.

Nel contempo tra i liguri emergeva la tribù degli insubri, forse una federazione, della quale facevano parte i leponti, i camuni e i reti, si trattava di liguri insediati sull’arco Alpino e Prealpino tra il Sempione e il Brennero, i quali occupando gli altipiani tra l’Italia, Svizzera e Austria, potevano controllare gli scambi commerciali tra il Nord e il Sud delle Alpi, attraverso le quali transitavano minerali che estraevano anche dalle nostre montagne e l’ambra, diretti verso il sud, mentre manufatti cereali, vino e olio, provenienti dalla Grecia Medio Oriente e dall’Etruria, erano diretti verso il nord.

Il fatto di occupare una posizione in prossimità di due valli importanti come quelle del Reno e del Danubio, favoriva l’interazione degli insubri con i popoli del nord e dell’est Europeo, sui quali, grazie alla frequentazione di civiltà superiori come quelle etrusche, greche e fenicie, potevano vantare una superiorità culturale ed economica, quindi gli insubri rivestivano un ruolo dominante nei confronti dei celti, i quali si mettevano al loro servizio, sia come lavoratori che come guerrieri, ed il fatto che nel VII secolo a.C., i leponti disponessero già di un loro alfabeto, mi sembra indicativo di un livello culturale molto elevato che avevano raggiunto.

La lingua dei leponzi è stata riconosciuta come appartenente al ceppo gaelico, vale a dire il gruppo di lingue anticamente parlato nell’Europa nord occidentale, il che collega questo popolo al grande flusso migratorio iniziato dalla cultura della ceramica Cardiale (VI millennio a.C.) che ha dato inizio alla colonizzazione dell’’Europa da parte di popoli originari dell’area caucasica-persiana, e portatori della cultura Vedica.

L’unica testimonianza culturale di quella presenza la possiamo trovare nella toponomastica della Francia meridionale, e della Padania occidentale, dove spicca il prefisso “Var”, originato dal teonimo Varuna  signore delle acque e creatore dell’universo,  al quale era sacro il Piz Varuna, facente parte del gruppo del Bernina, e dall’aggettivo sanscrito “Varahi”, sinonimo di centro spirituale; pertanto si può dedurre con certezza che gli insubri o leponzi, erano sicuramente di cultura vedica, perciò assimilabili alla coeva cultura di Varna, 4400 a.C., la quale apparteneva alla civiltà dell’ascia da combattimento, una cultura di origine persiana, molto potente e diffusa soprattutto nei Balcani e nell’Est Europa, e che come testimonia la ricca necropoli bulgara, accumulava immense quantità di oro e metalli preziosi.

È da notare che l’ascia da combattimento dei persiani era chiamata sagura, un nome che ancora oggi in Lombardia è presernte nella forma diminutiva di Sigῡrìi.

E per gli insubri l’attività principale era costituita proprio dall’estrazione dei metalli, in particolare l’oro del monte Rosa e del Ticino, ma anche l’argento e il rame della val Ganna, attività alla quale associavano il dominio dei passi alpini e il conseguente controllo dei traffici commerciali tra il Nord e il sud delle Alpi.

Una testimonianza di quella cultura, potrebbe essere anche l’ipogeo presente sul monte Chiusarella, nome postumo di una montagna chiamata ancora oggi Motta Rossa; si tratta di un lungo cunicolo scavato dall’uomo, la cui esistenza era conosciuta già in epoca tardo romana, il quale penetra nella montagna apparentemente senza una ragione, anche perché secoli di frequentazioni hanno cancellato ogni traccia del passato.

Ma l’ipogeo potrebbe rientrare nella tradizione arcaica legata al culto della Grande Madre Terra, per adorare la quale i primitivi scavavano i loro templi nelle rocce, mentre il toponimo Motta Rossa è il sinonimo del vedico Aruna Chala, la montagna sacra a Danu, la Grande Madre, della quale Varuna era figlio.

Non trovando conferme nelle traduzioni del sanscrito e del avestico, devo concludere che “Chala” è una radice preindoeuropea dalla quale si è originato il celtico “Sala”, sinonimo di tempio o capanna, quindi a  mio parere nella lingua primitiva Aruna Chala avrebbe avuto il significato di “Casa Rossa”, oppure “Casa di Aruna”, intesa come casa della Rossa, pseudonimo dovuto alla caratteristica somatica dei persiani primitivi, probabilmente attribuita anche a Danu, una tradizione portata avanti dai celti con la Morrigan soprannominata “La Rossa”, la quale era la regina della palude, dotata di doppia entità, Rossa, come Grande Madre o Nera nelle vesti di Annunciatrice di Morte.

La tradizione della Motta Rossa si può associare alle Mutere del Veneto e alle Moot Hill della Scozia, colline artificiali sacre realizzate con l’argilla rossa a scopo religioso.

Tutto ciò potrebbe essere la continuazione di una cultura risalente al 9000 a.C., testimoniata dal sito archeologico di “Gobekli Tepe” (Collina Panciuta), dove un centro spirituale formato da megaliti sovrapposti a formare una T, e adornati da incisioni raffiguranti gli animali, è stato ricoperto con argilla rossa, fino a formare una collina artificiale alta più di 16 metri.

In oltre al passo della Rasa (Regina in sanscrito, ma si potrebbe sott’intendere: la dea rossa), che divide la Motta Rossa dal monte Velate appartenente al gruppo del Campo dei Fiori, sorge il fiume Olona, che in epoca medioevale era chiamato Urona, una palese corruzione di Aruna, considerato sacro alla Grande Madre, e nelle acque del quale gli insubri si immergevano per purificarsi durante la festa dell’Imbolc (purificazione).quindi il monte Velate ai piedi del quale sorge il fiume sacro, in origine doveva chiamarsi “Elate”, il nome greco antico dell’abete, albero sacro alla Grande Madre, la quale veniva identificata anche con il nome del suo albero sacro, o del fiume.

Essendo la sorgente dell’Urona situata al passo della Rasa, vale a dire ai piedi della montagna sacra alla dea, e considerando che nel dialetto lombardo con rasa si indica l’acqua regia, si può supporre che con il toponimo Rasa gli antichi indicavano il luogo dove sgorga l’acqua della regina, e con l’idronimo Urona, oppure Orona, si poteva intendere l’orina della dea, come sembra confermare la località di Orino, posta sull’altro versante della montagna, e situata nei pressi di un’altra sorgente, chiamata: Fontana della Rossa”.

Durante il secondo millennio a.C. l’Europa diventa meta di altri popoli di origine caucasica, portatori di una cultura vedica più evoluta, frutto del sincretismo religioso; una fase che avrà il suo apice con la diffusione della cultura del ferro, periodo Hallstattiano, conseguentemente ai toponimi primitivi che si conserveranno, se ne aggiungeranno altri originati dai teonimi di nuove divinità frutto del sincretismo teologico.

In particolare per gli insubri la divinità più importante era diventato Bel o Beleno, il Sole, (una forma sincretica di Mitra, figlio e fratello di Varuna), dal quale derivano molti toponimi con il prefisso Bel, ma molti altri toponimi facevano riferimento anche alle sorgenti, tra le quali possiamo trovare tracce di teonimi come Bormanus, Kephisos e Gramnos, tre alter ego di Varuna che hanno continuato la sua signoria sulle acque, ma erano considerati anche guaritori; un esempio di questi toponimi possono essere: Bormio, Borgaro, Barlam, oppure Ceppino o Cepina, in quanto l’acqua sgorga da una pietra chiamata Ceppo, che nella tradizione anatolica era la manifestazione del dio Kephisos, adorato anche in Grecia.

Esistevano anche tre divinità femminili dell’acqua che si chiamavano “Epona”, la dea che fa galleggiare le cose e protegge i cavalli a lei si deve il toponimo “Eporedia”, l’antica Ivrea, “Sulevia”, la dea che cura e disseta, e  “Artios”, l’Orsa che domina la frana e l’alluvione, Monte Orsera.

Particolarmente adorata da tutti, era Rethia Phora, la regina dei passaggi, e del popolo retico, identificata con la luna, e per questo considerata la guardiana della porta del cielo.

Il suo culto è stato sostituito dai cristiani con l’adorazione della “Madonna della Guardia”, con la costruzione di templi in suo onore, proprio sulle alture dove si celebravano i riti in onore di Rethia.

Un altro toponimo che può offrire indicazioni sull’origine degli insubri è Cassano, molto diffuso in Lombardia e in tutta Italia; trae origine dal culto della quercia, come è già attestato nel Caso di Cassano Magnago (Liber Notitiae Sanctorum Mediolani XIII d.C.).

Questi toponimi potrebbero anche trarre origine dalla presenza di comunità o empori cassiti, i quali erano adoratori di Cassio, il loro Giove, e che sarebbero giunti in Italia nella seconda metà del II millennio a.C., dove, dopo aver stipulato un trattato di alleanza con i latini (Foedus Cassianum) fondarono Ardea, erano i rutuli di Virgilio, Infatti i cassiti erano un popolo di origine persiana, i quali si distinguevano per i capelli rossi, da ciò la definizione latina di rutuli.

Come testimonianza dell’espansione commerciale in Italia dei cassiti è da considerare la via Cassia, la quale fu sovrapposta a una strada primitiva attribuita agli etruschi chiamata Veientana, la quale raggiungeva la località di “Forum Cassi”, situata ai piedi di una collina sulla quale sorge la città di Vetralla, e prosegue verso nord raggiungendo San Casciano dei Bagni, una chiara sovrapposizione cristiana a un toponimo che faceva riferimento a sorgenti sacre a Cassio.

Ovviamente a causa delle paludi e delle colline, la strada più agevole per raggiungere Forum Cassi da Ardea, passava dal territorio dove poi sarebbe sorta Roma, evento che ha cancellato le tracce della preistoria.

I cassiti conquistarono la Mesopotamia dopo aver sconfitto gli akkadi, in seguito furono a loro volta sconfitti dagli elamiti, (o susiani), e la loro casta si rifugiò in Italia e Grecia. A questa vicenda sono legate le leggende di Cassiope, Andromeda, Danae e Perseo (il Persiano).

Nel 6500 a.C., sull’atipiano iranico esisteva la città di Casian (oggi Kashan), situata ai piedi dei monti “Karkas”, terra di origine dei cassiti.

Occupando una posizione geograficamente dominante, tra le vallate del Reno e dell’Inn, gli insubri controllavano il traffico delle merci tra il nord e il sul delle Alpi, facendo così da tramite tra i popoli del nord Europa e le grandi civiltà del Mediterraneo.

Culturalmente, gli insubri erano affini ai carni che popolavano le Alpi Orientali e ai coti che dominavano le Alpi Occidentali con il territorio francese, e come tutti i popoli di origine caucasica adoravano le divinità del pantheon vedico, nelle loro manifestazioni materiali, come: alberi, montagne, pietre, sorgenti o stelle.

Nel corso del VI secolo a.C., in seguito alle pressioni esercitate dalle prime popolazioni galliche che scendevano dal Belgio, ci furono delle migrazioni verso la pianura Padana da parte dei coti francesi, i quali nel VI secolo a.C., fondarono Milano ed entrarono a far parte della confederazione insubrica.

In merito alla leggenda del principe Belloveso che condusse i galli in Italia e fondò Milano, bisogna precisare che: l’arrivo dei galli in Italia è attestato solo con la diffusione della cultura di La Tène, IV secolo a.C., e che: Belloveso non era un nome di persona, ma una locuzione che indicava un centro spirituale, che nel caso specifico significava “Dimora di Bell”, dal sanscrito “Vasu”, equivalente di dimora, da cui gli “Arta Vasu”, che nella tradizione vedica sono le dimore delle otto divinità principali: “Aria, Acqua, Cielo, Fuoco, Luna, Sole, Stelle, Terra, quindi Belloveso non era un gallico ma un discendente dei danai che durante l’età del bronzo avevano colonizzato il nord della Francia.

I galli arriveranno solo nel IV secolo a.C., con la cultura di La Tène e si inseriranno pacificamente nel contesto ligure, dando però inizio a un periodo di turbolente scorrerie nell’Italia appenninica, che si concluderà solo dopo due secoli, con la romanizzazione della Padania.

Il territorio insubre si ridurrà drasticamente dopo la sconfitta di “Clastidium”, (Casteggio Pavia), 222 a.C.ad opera del console romano Marco Claudio Marcello, il quale dopo la conquista di Milano stipulò un patto di alleanza con le popolazioni padane ad esclusione degli insubri e dei boi più irriducibili, i quali si erano arroccati sugli altopiani morenici del Varesotto del Comasco e sulle Alpi Elvetiche.

L’altopiano del varesotto si estende dalla riva del Ticino alla riva dell’Olona dove inizia il territorio comasc, il quale si estende fino alla riva del fiume Seveso, dove inizia la Brianza, che storicamente dopo la battaglia di Clastidium, ha sempre costituito una regione a se stante, in quanto i suoi abitanti si erano alleati con  gli orumbovi i e i veneti, diventando quindi clienti dei romani.

I liguri sono presenti anche nella grande storia, in quanto come mercenari parteciparono a molte guerre, in particolare si ricorda l’anno 480 a.C., quando presero parte al fianco del persiano Serse alla battaglia di Platea, nel tentativo fallito di conquistare la Grecia, in particolare Serse conquistò Atene grazie ad alcuni valorosi che approfittando della scarsa sorveglianza della rocca, durante la notte la scalarono e riuscirono a spalancare le porte della città, al grosso dell’esercito persiano, mi viene spontaneo pensare che quegli eroici scalatori, fossero i montanari liguri.

Contemporaneamente erano anche al servizio di Cartagine durante l’invasione della Sicilia orientale, dove nella battaglia di Imera furono sconfitti dall’esercito comandato da Gelone tiranno di Siracusa, aiutato da Terone tiranno di Agrigento (Le Storie Polibio).

L’espansionismo etrusco manifestatosi con la fondazione di “Felsina”, la futura Bonomia”, dei galli Boi (Bologna), e di altre colonie, come “Melpum” (Melzo), spostò i traffici commerciali dal Verbano a Como, dove sorse un’altra fiorente civiltà.

L’avvicinarsi delle colonie etrusche alle Prealpi, per gli Insubri dev’essere suonato come un campanello d’allarme, i quali sicuramente sospettavano la volontà etrusca di impadronirsi degli altipiani alpini, quindi hanno sicuramente usato il loro potere economico e l’influenza politica, per portare in Italia schiere di mercenari composte da guerrieri galli, tutti animati da una forte idiosincrasia verso gli etruschi.

La mia può sembrare una congettura, ma la coincidenza delle invasioni galliche con la fondazione di colonie etrusche nella trans Padania, ed il fatto che mossero guerra solo contro gli etruschi, rispettando l’Insubria, non può essere un caso, anzi, con l’arrivo dei galli, il confine dell’Insubria si spostò dalle Prealpi alla riva del Po.

Voglio ricordare che i senoni conobbero l’esistenza di Roma solo quando gli ambasciatori romani appartenenti alla famiglia dei Fabi, si intromisero in modo arbitrario in difesa degli Etruschi, violando l’obbligo di neutralità degli ambasciatori, uccidendo un principe dei senoni.

Chiaramente i Galli si integrarono con gli Insubri entrando a far parte della federazione insediandosi in pianura, dove fondarono i loro villaggi, e influirono soprattutto sull’accento della parlata. Gli archeologi sono restii ad ammettere che i nostri antenati liguri fossero indoeuropei, mentre la toponomastica e l’etimologia trovano scarsa considerazione, però rimane il culto della quercia, l’adorazione del dio solare Beleno e il culto delle cime a testimoniare l’opposto.

Pertanto sulla base delle leggende greche che vedono gli umbri come gli unici sopravvissuti al grande dilavamento, del quale archeologi e geologi, attribuiscono la causa all’esplosione dell’isola Santorino, un evento catastrofico che verso la metà del II millennio a.C., ha investito, direttamente l’isola di Creta, tutto il Mar Egeo il mediterraneo Orientale ed il sud Italia, mai testimoniato dagli storici antichi, ma comprovato da geologi ed archeologi, possiamo supporre che gli umbri come gli ariani erano coevi e a diretto contatto con i minoici quindi affratellati dalla stessa cultura tanto che lungo il Danubio sono state ritrovate iscrizioni sillabiche attribuite agli umbri, ma quasi identiche al “lineare a”, dei minoici, pertanto si può pensare agli umbri come a una popolazione di montanari egei migrati verso nord, per sfuggire alle calamità naturali come alluvioni e terremoti, eventi catastrofici che durante l’età del bronzo avevano reso difficile la vita nell’Egeo.

L’unica testimonianza dell’esplosione del vulcano Santorino, che con ogni provabilità ha ucciso tutti i testimoni oculari, ci viene dalla bibbia, dove tra le piaghe d’Egitto si citano anche: “la pioggia di ceneri ed il sole oscurato per tre giorni”, fenomeni caratteristici collegabili all’esplosione di un vulcano, documentati anche archeologicamente dalla presenza sul monte Sinai, nei sedimenti dell’epoca, di ceneri compatibili con quelle del vulcano Santorino, a ciò possiamo aggiungere anche il mito di Atlantide, le cui ricchezze sono state enfatizzate dal tempo e dal sensazionalismo moderno.

Anche se in modo poco chiaro Erodoto (Storie), colloca gli umbri sulle Prealpi, in quanto afferma: “dalla regione sopra gli umbri, si gettano nell’Istro (Danubio), il fiume Carpi (forse l’Isar) e un altro fiume l’Alpi, che scorrono entrambi verso nord”. A parte la confusione tra le Alpi e il fiume “Inn”, affluente del Danubio, errore forse generato dalla vicinanza dell’Alpenrhein (Reno Alpino), uno dei nomi del Reno, Erodoto si riferisce al fiume Inn, il quale attraversa il territorio degli Insubri, quindi è possibile che consideri gli insubri, come appartenenti alla stessa stirpe degli umbri.

A conferma di ciò, sulle Alpi retiche va segnalato il “Piz Umbrail”, e l’omonima: “Val Umbrail” (Giogo di Santa Maria), i quali dominano la val Müstair (valle Monastero), toponimi in lingua romancia, che continuano la cultura umbro ligure arrivata da queste parti nell’ultimo periodo dell’età del Bronzo. Una traccia del passaggio degli umbri la troviamo anche nel Cantone dei Grigioni, (Alpi Retiche), si tratta del fiume Albula, con l’omonimo gruppo montuoso dove sorge il fiume, la valle e il passo, si tratta di un affluente del Reno, che anticamente, prima della latinizzazione, condivideva il proprio nome con il Tevere, poi latinizzato con Tibrys.

L’Idronimo Albula trae origine da “Albus”, “L’Altissimo”, forse una forma maschilizzata dal teonimo caucasico “El”, una delle prime divinità materne alla quale era sacro il monte “El Brus”; Albus era meglio conosciuto come “Summano”, “Penninus”, o “Albiorix”, il re delle cime. Da Albus prendono il nome anche Albalonga e i colli Albani, i quali essendo composti da roccia vulcanica, non hanno niente in comune con il bianco e l’alba teorizzati dagli storici anzi, era tradizione dei caucasici fondare città su terreni di natura vulcanica, perchè li ritenevano creati appositamente dalla Grande Madre Terra “El”.

Altri idronimi Albula li troviamo a Tusculum e nelle Marche, luoghi un tempo frequentati dai reti, gli antenati dei reatini moderni, pertanto possiamo pensare che gli insubri erano umbri transpadani, il cui nome etimologicamente significa: “sono sopra i monti”, dal verbo dialettale lombardo “in” =”sono”, dalla preposizione lombarda “sù” = “sopra” e dal celtico “bri”, = “monti”, lo stesso suffisso “bri” lo troviamo nell’etimologia del nome degli umbri, dove il prefisso “um” è una particella indoeuropea che preceduta da un “h”, poi caduta con l’italianizzazione, significava “uomo”, da confrontare anche con il dialettale lombardo “om”, = “uomo”, quindi “uomini di montagna”, oppure con insubri si voleva anche indicare quelli che saliti sulle Alpi erano più in alto.

Ancora più significativa è l’etimologia del nome con il quale i greci chiamavano gli umbri:” hombrìkoi”, un nome composto dalla radice “hombrì”, = “uomini”, (hombre in spagnolo, hommes in francese), e da “koi” = “colli”, un sostantivo rimasto immutato nel dialetto veneto, mentre per gli storici, hombrìkoi sarebbe un riferimento alla pioggia e all’ombrello.

Sull’altipiano di Asiago troviamo una traccia degli umbri nel monte Summano, toponimo originato dal nome del loro dio delle vette, si tratta di una montagna dalla forma conica con due vette che si affacciano sulla pianura vicentina, uno splendido omphalos (centro spirituale) naturale, sul quale oltre a resti di origine tardo neolitica, nei pressi della cima più alta è stato ritrovato un luogo di culto datato al V secolo a. C.

Da citare in Toscana nella val di Nievole, anche il monte Sommano, collina di 340 m s.l.m., dove è sorta l’antica Monsummano Terme. Un altro riferimento a Summano lo troviamo in provincia di Lecco, sopra uno sperone roccioso dalla sommità pianeggiante, dominata dalla rocca dell’Innominato si trova Somasco, (nome antico Sumasca), frazione di Vercurago, nei pressi della rocca sono avvenuti ritrovamenti archeologici risalenti alla cultura di Golasecca, interessante anche il toponimo di Vercurago, originato dall’antico Vercuriaco, da cui il prefisso “Ver” a indicare un ontano sacro, mentre “riaco” indicherebbe il lago di Garlate o il fiume Adda, oppure indicherebbe un villaggio di Vertemocori situato sulla riva del lago.

Un’altra traccia dell’affinità culturale tra umbri e lombardi è il monte Somazzo,”Sumaz” in dialetto, una collina che segna il confine tra la provincia di Como e il Canton Ticino, ed ancora sul versante opposto della valle, di fronte al monte Somazzo e sopra a un altipiano sulle falde del monte Generoso, troviamo anche un paese chiamato Somazzo, si tratta di una frazione di Mendrisio, “Mendrìs” in dialetto, un toponimo nel quale troviamo la radice “dris” dal greco “drys” = “quercia”, ma anche il prefisso “Men”, il quale mi suggerisce il bretone “menhir”, “pietra grande, il che rispecchia il fatto che Somazzo si erge sopra a un lungo altipiano roccioso che domina la sottostante Mendrisio, quindi considerando anche la vorticosa sorgente che sorga ai piedi dell’altipiano, con “Mendrìs” si intendeva un menhir sacro, sul quale era posta una quercia sacra a Summano, una divinità delle cime, come potevano essere i liguri “Albiorix” o ”Penninus”

. All’abbondante sorgente che sgorga ai piedi del monte Generoso, si deve l’epiteto “Generoso”, dovuto al dio delle vette, ed è rimasto come nome della montagna, anticamente preceduto da un ipotetico “Summano Generoso”.

Penninus era anche il nome ligure del “Gran San Bernardo”, che in epoca romana fu rinominato in onore di Giove Pennino, e sul passo sarà costruito un tempio e diventerà Col de Mont Jupiter (Monte di Giove), e in seguito a causa delle differenziazioni linguistiche: “Col de Mons Joux. Qui è importante sottolineare l’affinità etimologica tra i toponimi Alpe e Appennino, mi sembra evidente che Appennino sia stato preceduto dalla forma “Alpennino”, un diminutivo di Alpe.

A testimonianza dell’importanza storica della piccolissima Somazzo c’è da segnalare il ritrovamento di una necropoli romana sotto la chiesa di San Giuseppe e un sentiero che raggiunge Somazzo, chiamato “Strada Cassana”, Cassano è il nome primitivo della quercia, quindi una testimonianza diretta, dell’antica presenza di un albero sacro.

La strada Cassana parte da un paesino posto prima di Somazzo chiamato “Salorino”, un toponimo originato dall’aggettivo antico: “sala”, sinonimo di capanna o casa, quindi “la casa del rio”, riferendosi a una grotta carsica, dove il rio scompare all’interno della montagna.

Da Salorino parte un altro sentiero chiamato “giro di Campora”, il quale risale la montagna, compiendo un lungo giro attorno a una valle, utilizzata come pascolo, per poi ridiscendere a Somazzo. Nella lingua dei celti Campora aveva il significato di “Campo di Phora”, in quanto la radice “pora”, sarebbe un riferimento a “Rethia Phora”, la principale divinità dei reti, il cui nome significava: “Regina dei Passaggi”, derivato dal greco pre ellenico “Phoros“, sinonimo di passaggio, e veniva identificata con la luna, e per questo considerata la guardiana della porta del cielo e quindi protettrice delle porte e dei passaggi, con il cristianesimo il suo culto è stato sostituito con la devozione alla “Madonna della Guardia”, i cui santuari sorgono proprio sulle colline dove si celebrava il culto di Rhetia Phora, ancora oggi chiamati Colle della Guardia.

Il prefisso “Camp” indica invece il campo, un etimo continuato dal dialetto lombardo e dalla lingua inglese, quindi Campora indicava un campo sacro alla dea dei passaggi.

A conferma del legame cultuale tra i liguri e gli umbri, nel comasco alle spalle del monte Somazzo troviamo anche Albiolo, un villaggio che ha preso il nome da “Albios”, l’altissimo, meglio conosciuto come “Albiorix”, il dio delle cime dei celto liguri alpini, corrispondente dell’umbro Summano, mentre sempre nei pressi del confine c’è la collina sulla quale sorge Drezzo (Drez in dialetto), un toponimo originato sempre dalla radice greca “drys”, forse ellenica, sinonimo di quercia.

Asiago è un toponimo che come Asia deriverebbe dalla radice sanscrita usbas”,= “aurora”, nella lingua greca “Asia”, significava: “il Paese del Sol Levante”, ed Asiago occupa una posizione geografica che la vede stretta tra due catene montuose, le quali, nel periodo invernale lasciano passare i raggi solari solo da est e da qui il giusto paragone con il paese del sol levante, a conferma dell’assenza di sole ad Asiago, la cittadina detiene il record della città più fredda “ – 31° ” stabilito più volte nell’inverno del 1942, un record da paragonare al freddo siberiano. Da considerare anche il finale in “ago” del nome italiano, il quale dovrebbe derivare dal ligure lak, quindi il nome antico potrebbe essere “Asiach”, ed indicherebbe un lago a oriente.

L’altipiano di Asiago è aggirato e diviso dalle Alpi dalla Valsugana, una valle che mette in comunicazione la pianura Padana con la piana di Trento Il toponimo Valsugana è originato direttamente dal nome della divinità fluviale Sequana, la personificazione del fiume Senna, quindi in epoca primitiva “Gana” aveva il significato di demanio, è da ritenere che Sugana indicava il demanio sacro alla dea Sequana.

Il Brenta, il cui idronimo in lingua celtica era il sinonimo del latino medioevale “Borgo”, vale a dire: “città fortificata”, il che farebbe riferimento all’attuale Borgo Valsugana, la quale in epoca medioevale era proprio una città fortificata; la fortificazione del luogo è una vocazione dell’ambiente circostante, causata dal naturale restringimento della valle; un’altra Brenta (Colle), la troviamo nei pressi del lago di Caldonazzo, dove il fiume nasce come emissario dei laghi di Caldonazzo e Levico, anche questa Brenta ha una posizione dominante sulla valle.

Dall’epoca romana sono attestati due idronomi, “Medoacus Major”, e  “Medoacus Minor”, che gli studiosi attribuiscono a due rami del Brenta, ma con ogni provabilità Medoacus era una forma latina che aveva sostituito un idronimo ligure indicante un “lago sacro”, un idronimo che seguendo il modello “Mediolanum”, si potrebbe ricostruire in “Mediolak”.

Sempre in provincia di Vicenza ci sono i monti Berici, citati da Plinio il vecchio come roccaforte dei liguri reti il cui nome deriverebbe dai “beruenses”, che assieme ai “feltrini” e ai “tridentini, occupavano le Alpi retiche orientali ma non si può escludere che i beruenses fosse il nome latinizzato di una tribù di iberi. In particolare l’origine dell’idronimo del fiume Agno e l’omonima valle collinare sono da attribuire al dio del fuoco vedico “Agni”, figlio del dio della guerra Indra.

Nei pressi di Padova i colli Euganei trarrebbero il nome dai liguri “ingauni” o “albingauni”, i quali in un secondo momento si sarebbero ritirati sulle Prealpi, mischiandosi con i reti. La presenza sui colli Euganei degli Ingauni, tribù di navigatori, originaria del territorio di Albenga, con ogni provabilità è dovuta alla loro attività di pirateria, a causa della quale sarebbero stati costretti a fuggire, per evitare ritorsioni da parte degli etruschi e dei cartaginesi, i quali allora dominavano il mar Ligure, e per lo stesso motivo, poi sarebbero entrati in contrasto con i veneti, fino a dover abbandonare anche i Colli Euganei.

Da ricordare anche i monti Lessini, nella cui toponomastica locale sono evidenti le tracce del culto degli alberi in località come: “Boscochiesanuova”, “Campodalbero”, “Campofontana”, “Camposilvano”; “Selva di Progno”, “Cerro Veronese”, “Velo Veronese”, “Rovere Veronese”.

Anche Rovereto, città trentina che ha conservato la quercia nel suo stemma, in quanto trae il suo nome dai boschi di rovere che la circondavano. La città è situata nel basso corso dell’Adige, chiamato Valgarina, un toponimo la cui radice “garina”, dovrebbe indicare una quercia ibrida che cresce nei querceti disboscati.

La presenza degli umbri sulle Prealpi venete, fa pensare che siano penetrati in Italia attraverso i valichi alpini e non dall’Istria, come sarebbe logico pensare, infatti attraverso il san Gottardo arriveranno anche in Francia, per poi scendere lungo la valle del Rodano (Rhône), da confrontare con il nome tedesco del Reno (Rhein), ma soprattutto con il nome antico del Po: “Eridano”, “Eridàa” in lombardo, in quanto nella forma italiana Rodano ed Eridano sono costruiti entrambi sulle consonanti “rdn”, il che mi farebbe pensare a un idronomo primitivo con il significato nella forma di “Rhein Danu”, vale a dire “Fiume di Danu”.

Il nome di Danu lo ritroviamo anche negli idronomi dei fiumi Danubio e Don, in particolare il suffisso “bio” che compone l’idronimo Danubio, sarebbe originato dal greco “Byos” sinonimo di vita, pertanto il nome del fiume era un chiaro riferimento a colei che con le sue acque era fonte di vita. Pertanto possiamo ritenere che all’inizio del neolitico, comunque già prima del VII millennio a.C., Danu era la massima divinità indoeuropea.

Danu era una divinità primordiale della mitologia indiana, e l’influenza del suo nome sull’idronomia europea mi fa pensare che sia stata la Grande Madre alle origini della cultura indoeuropea. Nella lingua sanscrita Danu è intesa come liquido, mentre nell’avestico (antica lingua iranica) indica il fiume, sia in forma maschile che femminile.

Teniamo presente che il culto di Danu si praticava già nel paleolitico, quindi migliaia di anni prima della formazione di lingue come il sanscrito e l’avestico, e nella sua forma originale Danu, era considerata la Grande Madre Terra che si trsformava in serpente (il fiume) per accoppiarsi con il serpentario e generare la pioggia, la quale cadendo dal cielo aveva indotto gli umani a credere che il Serpentario (Ofione) fosse un fiume cosmico.

Pertanto si può ipotizzare che con iltempo il nome di Danu sia stato associatoall’acqua o al fiume

Nel Rigveda Danu è la personificazione delle acque primordiali e la madre dei “Danava”, indicati anche come “Asura”, il panteon divino primordiale, che con l’avvento degli ariani fu sostituito dai “Deva” (induismo) e declassato a demoni. Tra gli asura possiamo citare Varuna, la divinità maschile che ha superato per importanza la Grande dea Madre Danu, e che lascerà molte tracce del suo nome nella toponomastica ligure, “Mitra”, il dio del sole, che con Varuna creatore del mondo e signore delle acque, e Indra dio del fulmine, del tuono, della pioggia e della magia, formava la prima Sacra Trimurti.

In seguito Indra diventerà il “Monarca Universale”, mentre Varuna sarà declassato a demone, re dei “Naga”, demoni dalle sembianze di uomini serpente, e Mitra perderà molta della sua importanza.

Anche nel territorio ligure il culto della Madre Terra fu sostituito da quello di Varuna, e a lui si devono i toponimi con il prefisso “Var”, mentre sulle Alpi Retiche c’è il “Piz Varuna” una montagna che gli era sacra.

In seguito il culto di Varuna sarà sostituito da quello di Indra, le cui tracce in provincia di Varese, sono costituite dal monte Monarca, titolo riservato a Indra, ai piedi del quale troviamo la località di “Induno”, un toponimo costruito sul nome di Indra e la radice celtica “Duno”, sinonimo di “Forte”, quindi “Forte di Indra”.

In particolare è molto allusivo il nome della località elvetica di “Indemini” situata in valle Veddasca nei pressi del passo del Neggia, dove inizia il sentiero che porta sulla cima del monte Tamaro, la montagna sacra a Zeus e alle divinità del toro come Indra.

Un altro indizio sulla parentela tra umbri e liguri, potrebbe essere il nome della città di Rieti, un toponimo che alcuni attribuiscono al greco “Rheino”, sinonimo di acqua che scorre, ma considerando che la città di Rieti sorge sull’antico fondale del lago Velino, poi prosciugato dai romani, trovo più convincente ed interessante il fatto che nella parte bassa del suo stemma, c’è una rete che sbarra il passaggio ai pesci, mentre il campo superiore è rosso e vi appare una dama che porge una bandiera a un cavaliere antico, il quale è dotato di uno scudo rotondo, come quelli in uso dai veliti dell’esercito romano e dei celti, e non a caso lo scudo ci riporta al lago Velino prosciugato dai romani, quindi lo stemma di Rieti è un simbolo di passaggio, e la città sarebbe stata sacra a Rhetia Phora la dea dei passaggi adorata dai reti.

Da notare che il reatino era la terra dei sabini, i quali sono considerati appartenenti alla stirpe degli umbri, coi quali però erano frequentemente in guerra, quindi non si può escludere la loro provenienza dalla Rhetia, in quanto etnonimo sabini potrebbe indicare un popolo arrivato dalle rive del lago Sebino, infatti si tratta di un idronomo e un etnonimo che avrebbero avuto origine dal nome del sebuino (Bos Indicus), meglio conosciuto come Zebù, il bue sacro per antonomasia, che da il nome al Gran Zebrù (nome celtico), una delle cime più alte delle Alpi Retiche..

Il nome del lago Velino potrebbe invece essere originato dal fatto che nell’esercito romano i veliti erano soldati armati alla leggera, utilizzati per portare il primo assalto, e per questo scopo erano reparti costituiti da reclute e da indigeni romanizzati, ma non ancora sufficientemente addestrati, pertanto il compito di bonificare il lago velino sarebbe toccato ai sabini arruolati tra i veliti, e da ciò il nome del lago e del luogo sacro a Rhetia Phora.

Il lago di Piediluco è ciò che rimane dell’antico Velino, e come il villaggio situato sulle sue rive, prende il nome dal fatto di essere situato ai piedi di un monte chiamato Luco, un toponimo derivato dal latino Lucus, sinonimo di bosco o luogo sacro, sulla cima del quale troviamo i resti di una rocca chiamata Albornoz.

La sacralità di questo monte potrebbe essere collegata alla leggenda del drago Tyrus, per placare le ire del quale si tenevano riti propriziatori, diventato poi simbolo della città di Terni, e forse anche il toponimo sarebbe derivato dal nome del drago.

Il mito di Tyrus potrebbe essere collegato a Thybris, l’antica divinità fluviale del Tevere, in quanto il fiume Nera che attraversa Terni è un suo affluente, anche la vicina Narni ha il drago nello stemma, quindi suppongo si trattava di due divinità delle acque alter ego di Varuna, il serpente figlio e amante della Grande Madre e Signore delle acque, poi ripudiato perché ritenuto responsabile dei periodi di siccità o delle alluvioni, per cui identificato come un demone dalle sembianze di drago.

Secondo la leggenda Tyrus sarebbe stato ucciso dopo essere rimasto abbagliato da un raggio di sole riflesso dall’armatura di un giovane guerriero.

Nel guerriero si può riconoscere: Lug il Lucente, che nella tradizione irlandese è nipote di Balor il Sole, e che con il cristianesimo diventerà san Giorgio uccisore dei draghi.

Voglio sottolineare il nome del cardinale spagnolo Albornoz che fece costruire la rocca, in quanto evidenzia l’antica parentela esistente tra gli iberi e gli albani, due popoli provenienti dal territorio della catena montuosa degli Alburz, che si estende tra l’Azerbaijan e la Persia.

Un altro legame tra le culture italiche con la Grecia e il mondo persiano le troviamo al confine tra la Lombardia e la provincia di Bolzano, dove nel gruppo del Cevedale troviamo L’Ortles, “Ortler” in tedesco e, “Ortèl” in lombardo, nomi di origine greca con il significato di “Monte Lontano” da oros = monte e, “tèle” = lontano, forse un riferimento a un monte ai piedi del quale vivevano gli antenati dei reti. In particolare è da citare il Gran “Zebrù”, un riferimento al bue Himalaiano zebù, quindi si tratta di una montagna che anticamente era sacra al bue, confermato soprattutto dal nome tedesco, “Kònigsspitzze”, vale a dire: “Pizzo del Re, questo significa che i reti, avevano radici almeno persiane o pakistane, mentre, l’origine Himalaiana del nome Gran Zebrù, è suggerita anche dalla forma piramidale della montagna, la quale assomiglia all’Everest, mentre il nome Himalaia è originato dal sanscrito “hima” corrispondente di “neve”, con “àlaya”, che indica dimora o casa, dal quale si origina anche il toponimo Alagna, non a caso situata ai piedi del “Sass Gross”, quindi Alagna era la casa della neve.

Sempre in merito all’origine dei liguri si possono considerare le tracce sulla provenienza dei taurini, i mitici fondatori della città di Torino, il cui etnonimo sembra originato da Tauride, uno dei toponimi utilizzati dai greci per indicare la Crimea, terra dove si adorava il Toro, ma interessata anche dalla cultura di Varna.

In realtà il nome primitivo della Crimea era Chersoneso e si divideva in Chersoneso Taurico abitato dai tauri e Chersoneso Scitico, abitato dai cimmeri, dai quali discenderebbero i cimbri.

Considerando che i greci fondarono una colonia sui resti di una città pre esistente chiamandola Cherson (Oggi Sebastopoli), etimologicamente il suffisso di Kersoneso (eso), mi fa pensare al sanscrito “Vasu” o “Vasus”, il quale significa “dimora”, da cui il celtico “Weso”, continuato ancora oggi dal francese “maison”, quindi Chersoneso significa: “Dimora di Cherson”, e chi poteva essere questo Cherson se non una divinità taurina come Cernunnos? In oltre il nome di Sebastopoli ha il suffisso “poli”, che nei toponimi assume il significato di “polis”, sinonimo di città, quindi con il prefisso Seba sinonimo di sebuino Sebastopoli indicherebbe la città dei taurini.

Da ciò possiamo dedurre che nel Chersoneso Scitico si adorava Cherson nella forma di cervo, mentre nel Taurico era rappresentato dal toro.

Chersoneso è un toponimo diffuso in tutta l’area egea, anche in Sicilia, si tratta di una città perduta, anticamente situata nei pressi di Siracusa, e in Piemonte con Cherasco in provincia di Cuneo, un toponimo che significa: “Cherson Nascosto”, vale a dire un luogo dove: per sfuggire alla “Santa Inquisizione”, si celebravano riti segreti in onore di Cernunnos”, che il cristianesimo aveva indicato come “demone”.

Ancora più convincente è il Chersoneso Cimbrico, vale a dire la penisola dello Jutland, cioè la Danimarca, la terra dove migrarono liguri e danai, dai quali ha preso il nome. Il toponimo Danimarca contiene la radice franca “Marca”, che nel Medio Evo sarà il marchesato, vale a dire una regione di confine, quindi era la regione dei “Dani o Danai”.

Tra le città italiane fondate da gente proveniente dal Chersoneso, possiamo citare anche Olbia e Neapolis (Napoli), la cui fondazione viene attribuita ai greci durante l’età del ferro, ma sicuramente è avvenuta su insediamenti pre esistenti fin dall’età del bronzo.

Tra i siti archeologici della Olbia sarda, spicca il “Pozzo sacro di Sa Testa”, uno dei tanti templi sardi che accomunano la cultura sarda ai golasecchiani, che a Como realizzarono il pozzo sacro della “Mojenca”. In particolare bisogna citare il pozzo sacro di Gàrlo in Bulgaria che accomuna la cultura dei Traci con la Sardegna e la cultura ligure.

Da aggiungere che il Chersoneso era compreso tra due fiumi, anticamente chiamati “Hypania”, oggi “Boug Meridional”, proveniente dalla Podolia (centro Ucraina), e il “Kouban”,il quale sorge sul monte El’Brus, la montagna sacra degli iberi caucasici, quindi Hypania è un idronimo da mettere in relazione a una divinità fluviale appartenente alla cultura ibera, dal quale si sarebbe originato anche il nome della Spagna.

In particolare bisogna sottolineare l’etimologia del toponimo Podolia, in quanto il suo territorio era una vastissima palude oggi quasi completamente bonificata, dalla quale si alimenta il Boug, lo stesso vale anche per la confinante Polesia, ancora oggi la più grande palude d’Europa attraversata dal Pryp”jat’ (chiamato anche Pina), perchè tutto ciò ci riconduce al Po, al polesine e alla valle Padana, che a sua volta anticamente era una vasta palude, quindi abbiamo fiumi e pianure che traggono il proprio nome da radici etimologiche comuni.

Etimologicamente trovo molto indicativo il sanscrito “Apadana”, è un termine che indica una grande sala ipostila, vale a dire: chiusa su tre lati e completamente aperta sul lato frontale, praticamente un tempio o una sala del trono dove il popolo poteva adorare gli dei o ossequiare il sovrano dall’esterno. Quindi con apadana, sia dal punto di vista etimologico che figurativo, possiamo già individuare un padiglione, come potrebbe essere la pianura Padana, con le Alpi e gli Appennini a fare da colonne sui tre lati e il Monviso a fare da altare, trono o podio, come dimostra il suo nome Viso, originato dal sanscrito “Wasu” sinonimo di dimora del re, mentre il lato aperto si affaccia sul mare e la pianura veneta.

L’origine dell’aggettivo è indoeuropea e deriva dal sillabico elamita “ha-ha-da-na”, continuato dal sumero “ap-pa-da-an”, ma aveva anche il significato di: “arrivare a”, “magazzino”, “nascondiglio”, per poi diventare definitivamente palazzo. Considerando che Apadana contiene il teonimo Danu, il significato primordiale doveva essere palazzo di Danu, all’interno del quale scorreva il “Fiume di Danu” chiamato appunto “Rheino Danu”.

Allo stesso modo il nome moderno del Po è derivato dalla radice sanscrita “Pà” va inteso come il padre che nutre e protegge, per cui abbiamo il persiano “Pad”, sinonimo di protettore, da cui il latino Padus, e “Padshiah”, sinonimo di Pascià, vale a dire: “Padre e Monarca”, chiamato “Baal”, che gli akkadi chiamavano “Bèlu”, Beel o Beleno per i liguri, per i quali sostituito la Grande Madre Danu, per cui Beel sarebbe il monarca che dimora sul monte Viso

Originariamente Baal o Bèlu significava solo “Dio”, che divenne il nome del dio dei fulmini dei semiti, mentre per i liguri divenne una divinità solare chiamata Beel o Beleno.

I galli invece arrivano alla spicciolata a partire dal IV secolo a.C., forse in aiuto dei Liguri pressati dall’espansionismo etrusco.

Gli storici si limitano ad assimilarli alla cultura di “La Thene”, ma La Thene o Halstat, sono solamente siti archeologici dove miracolosamente si sono conservate tracce del passato, quindi punte di iceberg sommersi dal tempo, che rappresentano un fenomeno di vasta portata, del quale non possiamo conoscere la vera origine.

Anche la questione legata alla cultura celtica deve essere chiarita in modo definitivo, perché la si continua attribuire ai Galli, quando questi erano solo gli ultimi arrivati

In ogni caso la civiltà di “La Thene rappresenta un’epoca preistorica sicuramente coeva all’espansione dei galli, i quali però si distinguevano fortemente dai celti e dai liguri, per una cosa fondamentale, non sopportavano il sole, il caldo e la fatica, mentre i liguri erano famosi per essere guerrieri e lavoratori infaticabili, ancora peggio andava quando i galli bevevano il vino, del quale erano golosi all’inverosimile, ma su di loro la bevanda aveva un effetto opposto a quello della “pozione magica di Asterix”, e tranne qualche caso di escandescenze, li rendeva praticamente inoffensivi, da ciò le loro disastrose sconfitte dopo aver assaporato il … “calice” della vittoria”.

Tito Livio racconta (Storia Di Roma dalla Sua Fondazione) che il cartaginese Asdrubale, dopo aver sorpreso i componenti dell’intero corpo di guardia gallico, in preda ai fumi dell’alcol (avevano rubato il vino dalla dispensa), li fece trucidare direttamente sul posto.

I galli venivano descritti: alti, biondi, occhi azzurri e bellissimi, praticamente il prototipo del modello ariano, quindi considerando che la loro cultura era ariana, in quanto esistono tracce che legano la cultura gallica alla civiltà di Samara, una cultura molto antica VII millennio a.C., che trae il nome dalla città di Samara, situata alla confluenza dell’omonimo fiume nel Volga, e che l’archeologa e linguista lituana, Marija Gimbutas, indicò come la patria della lingua indoeuropea.

Pertanto devo ritenere che i galli facessero parte della IV° ondata kurgana, che come le precedenti, durante l’età del ferro partì dalle rive del Volga , ma che trovando l’area mediterranea ormai costellata da potenze in grado di ostacolare nuove intrusioni, costringerà le tribù nordiche, quindi non acclimatate alle temperature del Mediterraneo a  scendere verso Ovest e a mischiarsi con le tribù scandinave e slave, che allora popolavano l’area baltica, e il nord dei Balcani, da dove in seguito invaderanno le due britannie e l’Italia.

Ciò ci viene dimostrato anche dalla vicenda dei Boi, i quali pur essendo giunti in Boemia e in Baviera, per entrare in Italia, dovettero prima fare il giro delle Alpi.

Giro che fecero anche i senoni, i quali furono più fortunati, perché giunsero in Italia con la benevolenza dei liguri, forse in funzione preventiva, prima che la pianura Padana fosse romanizzata, ed operarono le loro scorrerie sempre a sud dell’Appennino.

La loro massima divinità era “Lug”, il Lucente, e come Varuna gli era sacra la quercia e si incarnava nel cinghiale, che era chiamato “Varaha”, (Mocco per i cristiani), ma molto probabilmente si trattava di un condottiero che i galli hanno divinizzato, in quanto: Lug, o “Lugal” era un titolo nobiliare che i sumeri attribuivano alla massima autorità, al quale erano attribuiti: sia le funzioni di capo temporale che spirituale.

Infatti non bisogna dimenticare che la cultura indoeuropea si è sviluppata dalla stessa radice dalla quale sono nate anche la cultura sumera e quella semita.

A ricordo della loro terra d’origine, i galli porteranno in Francia il nome Samara, attribuendolo a un fiume oggi chiamato Somme, e chiameranno Samarabriva (Ponte sulla Samara) la loro capitale, oggi Amiens.

Il toponimo Samara è arrivato anche in Italia portato sempre dai galli, i quali hanno fondato l’italiana Samarate, “Samarà” in dialetto, cittadina situata in riva all’Arno di Gallarate, il che rafforza la mia convinzione che Samara era il nome di una divinità fluviale.

Un altro legame tra i galli e il mondo ariano, è la leggenda sulla nascita del loro dio Lug, la quale fondamentalmente ricalca la vicenda di Perseo e della madre Danae.

A Lug verrà attribuito un figlio semidio chiamato Sètanta, ma soprannominato Cù Chulain il quale era un guerriero invincibile, dotato di una forza straordinaria, ma che come Ercole morirà giovane avvelenato.

Dopo la sconfitta di Clastidium gli insubri formarono una linea fortificata che si estendeva da Somma Lombardo, in riva al Ticino, dove il fiume scorre profondo, fino a Cermenate, nella valle del Seveso, altrettanto profonda, scavalcando la valle Olona, sfruttando  un ciglione naturale alto una trentina di metri, la cui fresatura nei luoghi fortificati permetteva di ricavare una parete verticale di almeno quattro metri, ai quali si aggiungevano le numerose paludi alimentate dai torrenti che scendevano dall’altipiano, rendendo così il territorio sottostante impraticabile.

Gli storici romani raccontano che gli insubri fondarono 28 cittadelle fortificate e chiamarono a presidiarle altri 50000 galli, ma non ci forniscono i nomi di queste città.

Una delle 28 cittadelle fortificate fu certamente Cardano al Campo, “Magus Cardunum”, nella lingua dei celti, il cui toponimo era un sinonimo di: “Campo Fortificato dai Carri”.

A Cardano al Campo gli insubri dovettero isolare un ronco che si estendeva verso sud, declinando nella pianura, il quale favoriva un eventuale attacco, e a questo scopo fu scavata un’ampia trincea, dove oggi passa la superstrada per la Malpensa, ed il materiale di risulta fu ammucchiato sul fianco destro della val d’Arno, con lo scopo di collocare il villaggio ancora più in alto.

Dopo qualche anno gli insubri tornarono ad occupare la pianura grazie all’arrivo di Annibale e del suo esercito, il quale fondò una base logistica nel territorio di Busto Arsizio, allo scopo di arruolare mercenari e acquistare ferro dal nord Europa, per fabbricare armi, utilizzando come merce di scambio i cereali della pianura Padana.

Non a caso gli archeologi, hanno riscontrato nel territorio bustese tracce di un’intensa attività metallurgica, che può essere confermata anche dal nome della vicina Busto Garolfo, il cui toponimo avrebbe il significato di “Bosco Garo”, oggi comunemente chiamato “Gariga”, un bosco formato da cespugli come la quercia garina,  un cespuglio che ricresce sui ceppi delle querce tagliate, un fenomeno che ha dato origine anche al toponimo “Vallagarina”, una valle del trentino anticamente ricca di querceti, dove come nel bustese si è svolta un’intensa attività di disboscamento, tanto che ancora oggi lo stemma della città di Rovereto è costituito da una quercia.

Un riscontro sulla presenza di una gariga lo troviamo nella vicina Villa Cortese, un villaggio fondato dai romani, in quanto lo stemma del paese ritrae un ceppo di quercia, sul quale sta ricrescendo un ramo.

Purtroppo non esistono notizie sull’origine dello stemma e nemmeno su eventuali nobili del luogo, se non i feudatari della Burgaria, gli stemmi dei quali non contenevano riferimenti alla quercia o ai suoi ceppi; quindi il ritrovamento di un sarcofago romano del I secolo d.C., con il toponimo Villa, caratteristico delle case coloniche romane, ci dice che il luogo era abitato da un latifondista Romano, i cui beni si estendevano sull’attuale Busto Garolfo, il quale avrebbe imposto al latifondo e al villaggio dove vivevano i suoi schiavi il nome di Bosco Garo.

Toponimi come Borsano e Sacconago, facenti parte del comune di Busto Arsizio, fanno riferimento alla città vecchia di Cartagine, che la regina Didone avrebbe chiamato “Bozra” sinonimo fenicio del greco “Byrsa”, il quale indicava una borsa a forma di sacco, in ricordo di un sacco pieno d’oro, con il quale la regina pagò la terra acquistata dagli indigeni.

Nel centro storico di Busto Arsizio sono state ritrovate tracce di armi romane e fondamenta di torri che gli archeologi hanno attribuito agli etruschi, un ipotesi che a mio parere andrebbe rivista, in quanto dopo il ritorno di Annibale a Cartagine ci fu un generale cartaginese di nome Amilcare, il quale guidò gli insubri alla conquista di Piacenza, uno dei granai romani, e subito dopo venne ucciso mentre tentava di conquistare anche Cremona, l’altro granaio, quindi dobbiamo supporre che le torri facessero parte di una città fortificata dei cartaginesi, i quali essendo fenici, le tracce della loro cultura potevano essere facilmente confuse con quelle degli etruschi, un popolo italico ma di cultura fenicia.

Sconfitta definitivamente Cartagine i romani tornarono a Milano e andarono alla conquista definitiva dell’”Ager Insubres”: la terra degli insubri, poi chiamata “Sibrium”, e italianizzato in “Seprio”.

Tito Livio racconta che dopo la conquista di Como le 28 cittadelle si arresero, ma in realtà la vicenda non può essersi svolta in questo modo, in quanto per arrivare a Como i romani dovettero prima superare la linea fortificata che vi ho appena descritto, per poi assediare una città posta sopra a un colle circondato da una grande palude e penetrabile solo dai monti posti alle sue spalle, un’impresa impossibile, per cui considerando le notevoli concessioni ottenute dagli insubri, nel trattato di pace, possiamo ritenere che in realtà si è trattato di un compromesso pacifico, che però ha visto degli scontenti tra gli insubri, i quali si sono ritirati ancora più in alto, nelle Alpi svizzere.

La stessa migrazione si ripeterà nel III secolo d.C., quando per sfuggire alle persecuzioni dei cristiani, molte persone di religione vedica fuggirono in Svizzera, mentre quelli che cercarono rifugio sul Campo dei Fiori, furono sterminati durante la battaglia di Velate, grazie alla compiacenza e ambiguità del governatore di Milano Aurelius Ambrogius, poi proclamato santo.

In realtà la strage degli ariani sarebbe stata compiuta da una legione cristiana di origine africana, come dimostra la Madonna Nera posta da sant’Ambrogio sul monte Velate, che fino ad allora era sacro alla Grande Madre Vedica.

Gli eventi di quel periodo sembrano dimostrare che si trattava della legione mauritana, allora comandata da: Magno Massimo, detto anche Massimiano, un generale di origine iberica, proclamato Imperatore delle Gallie, dalle legioni che si erano ribellate, perché i legionari ariani (alani e goti) arruolati nel caucaso dall’imperatore Teodosio erano pagati di più.

È attestato che i ribelli si misero in marcia verso Mediolanum, la città capitale e più ricca delle Gallie, per affermare il potere, di Magno Massimo, con il quale Sant’Ambrogio tentò di mediare la pace per conto dell’Imperatore Teodosio I, contro il quale i mauritani poi si mossero, incontrandolo ad Aquileia, dove furono sconfitti e Magno Massimo fu condannato a morte e giustiziato nel 388 a.C.

Quindi è ipotizzabile che la strage di Velate, della quale si ha  solo un ricordo verbale legato alla Madonna Nera posta nel sito dopo la strage, sia stata opera di un esercito in rivolta per questioni economiche, e inferocito anche dall’odio religioso, in quanto il monte Velate essendo un luogo di culto ariano da molti secoli, per non dire millenni, i suoi santuari dovevano essere tra i più ricchi di tutto il mondo vedico, pertanto è plausibile credere che i mauritani li avrebbero depredati proprio in segno di rivalsa economica.

Tutto ciò è plausibile anche in funzione del fatto che secondo le tradizioni delle religioni pagane, profanare i templi era un sacrilegio punito dalla vendetta degli dei, invece secondo le tradizioni cristiane ed ebraiche, chi profanava un tempio pagano e rubava il tesoro delle divinità vediche, doveva portare il bottino al tempio dove veniva purificato e tramite un’offerta a dio, questi li avrebbe protetti dalla vendetta degli dei.

(Una tradizione occulta ma ancora in uso nel mondo cattolico, che paralizza i tribunali della giustizia civile)

A tale ragione che san Calimero vescovo di Mediolanum, nel 280 d.C. venne condannato perché istigava i giovani a profanare i templi pagani.

La ragione per la quale in una città fondata sulla libertà di culto cristiani ed ebrei erano perseguitati; una dura verità che loro negheranno all’infinito.

In seguito alle vicende sopra descritte il Sibrium rimase una regione sovrappopolata da persone culturalmente affini tra loro, dove non fu possibile introdurre colonie romane fino all’arrivo dei cristiani, ciò permise la continuazione di una cultura che riemerse nel medio Evo durante le Guerre tra Milano e il Barbarossa, e in tutta Italia nelle lotte tra guelfi e ghibellini.

Infatti Carlo Magno, pur dichiarando il cristianesimo religione di stato e proibendo i culti pagani, nel proclamare il Sacro Romano Impero, reintrodusse il principio romano della sacralità dello stato e quindi dell’imperatore, ma il fondamento si perse dopo la sua morte a causa del figlio Ludovico il Pio, il quale come dice il soprannome, regnava con il sostegno della chiesa, a scapito dei fratelli deceduti anzitempo.

Sopravvisse però una forma di pensiero chiamata “Gallicanesimo”, che vagheggiava la laicità dello stato, il quale ispirò le lotte tra guelfi e ghibellini, e la nascita delle religioni protestanti, le quali riconoscevano l’imperatore come massima autorità.

Ed è in questo contesto che ha origine la guerra tra Milano e il Barbarossa, con il Sibrium, Como, Pavia, novara, Vercelli e i popolani milanesi, alleati dell’imperatore contro lo strapotere del patriarcato Ambrosiano, sostenuto dal papa e dalla repubblica Veneziana.

In ultimo voglio fare una considerazione in merito alle incisioni relative alla Rosa Camuna, le quali essendo state datate come appartenenti alla prima metà dell’età del ferro, possiamo escludere il loro legame con la cultura camuna, e considerarle il frutto del progresso intellettuale della gente, in quanto la loro forma sembra richiamare il triscele simbolo di Anna Perenna la dea della natura primitiva che divideva l’anno in tre stagioni: semina, raccolto e rigenerazione della terra.

Infatti durante l’età del ferro anche in Europa, come già succedeva in Egitto, venne introdotta la quarta stagione, cioè la semina in autunno e quindi la rosa camuna simboleggiava meglio la suddivisione stagionale dell’anno.

Ciò trova riscontro anche in alcune di queste incisioni, nelle quali due lobi non sono asimmetrici agli altri due, ma sono attaccati tra di loro, come a voler simboleggiare lo scorporo dell’autunno dalla stagione della rigenerazione.

Consideriamo che anche la semina in autunno rientra nel concetto di rigenerazionedella natura, in quanto il seme sepolto, a sua volta si rigenera in una nuova forma di vita.

In quanto alle nove coppelle incise con la rosa, potrebbero rappresentare i mesi fertili.

Rino Sommaruga

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29 risposte a “I Liguri. o Insubres”

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