Bibbia e Archeologia

A partire del secolo scorso l’uomo si è affidato all’archeologia nella speranza di trovare delle conferme ai racconti biblici, purtroppo, quel poco che l’archeologia è riuscita a dimostrare sconfessa la Bibbia, in quanto le Sue tradizioni sono solo il frutto di eventi avvenuti in tempi arcaici tramandati in documenti compilati con scritture geroglifiche o cuneiformi, conservati nella biblioteca di Assurbanipal, alla quale i sacerdoti di Gerusalemme ebbero accesso all’epoca dell’esilio a Babilonia, durante il quale vennero anche a contatto con religioni monoteiste persiane di origine vedica, dalle quali furono influenzate.

Per esempio la creazione dell’uomo dal fango non fa altro che ricalcare il mito della Grande Madre Terra, creatrice del mondo, infatti già nella tradizione sumera, il primo uomo, chiamato  “ada-mu” che significava: “padre mio” è creato da un gruppo di dei chiamati Anunnaki, i figli del cielo e della terra, An il cielo e Ki la terra, la prima generazione di dei sumeri paragonabile ai  danava della cultura persiana figli di Danu la terra e Varuna figlio partogenetico di Danu e signore del cielo e delle acque, e agli elleni Gea la terra e Urano il cielo.

Infatti Enki il creatore, postosi alla guida degli Anunnaki, fa apparire il Sigen e il Sigsar (le ovaie), sui quali allunga un braccio e fa crescere un feto, al quale impone parte della propria intelligenza, poi si rivolse alla madre “nam-ma”, (Inanna) e la incarica di mescolare la fertile creta dell’Abisso, aiutata da Sigen e Sigsar, mentre gli altri dei l’avrebbero aiutata a partorire.

Quindi la tradizione sumera ripropone il tema iniziale vedico, con il figlio, re degli dei, che si accoppia con la sottomessa Grande Madre Terra.

Nella lingua ebraica per assonanza il nome Adamo è considerato il maschile di adàmà, sinonimo di terra, quindi appare evidente il sincretismo tra le due leggende sulla creazione dell’uomo.

Anche la cacciata dal Paradiso dell’angelo ribelle Satana, non fa altro che riprendere una delle più antiche tradizioni vediche, che vede la Grande Madre scaraventare sulla terra il serpente Ofione (la costellazione del Serpentario) affinché tutti potessero calpestarlo, perchè aveva osato proclamarsi re del mondo, e non a caso il diavolo biblico si presenta a Eva nella forma di serpente.

Infatti il mito del serpente quale personificazione del demonio, si trasmette in tutte le religioni.

Satana entra nella tradizione ebraica durante l’esilio babilonese a causa dell’influenza sui sacerdoti ebrei delle religioni monoteiste di origine persiana, praticate dai caldei e dai cananei, come il Mitraismo e il Mazdeismo, il quale per esempio indicava “Angra Mainyu”, come uno spirito del male, cacciato dal paradiso da Mazdà per essersi ribellato.

Angra Mainyu era identificato dai caldei e dalle altre religioni persiane anche con il nome di Ahreman, ed entrambi erano considerati re dei Daèva, (danava) che l’induismo aveva declassato a una schiera di demoni ribelli. Appare evidente il passaggio per difetto di pronuncia da daèva a diavolo.

Il teonimo Ahreman richiama la cultura ariana e il loro dio Varuna, figlio della Grande Madre Danu (o Ariana), i cui figli costituivano la prima casta divina, chiamata danava. E Varuna dopo essersi proclamato re al posto della madre, venne destituito dal fratello Indra, che lo declassò a demone, re dei naga, spiriti malvagi, metà uomo e metà serpente.

L’induismo era una casta di guerrieri cacciatori e pastori proveniente dalla steppa, della quale facevano parte sia gli ariani che i semiti come anche gli zingari gli slavi e gli altri popoli del continente euroasiatico, i quali per natura non si insediavano in un posto fisso, e conoscevano solo la legge del più forte, quindi non avevano regole civili e consideravano legittimo depredare i più deboli, cioè i pacifici agricoltori, i quali si difendevano fondando città fortificate nelle quali era più facile proteggere il raccolto e le famiglie.

Da qui la nascita di regole che sovraintendevano alla civile convivenza nelle prime società di uomini, che erano costretti ad interagire per il comune interesse.

Quindi tutta l’umanità era coinvolta in una situazione di continua agitazione che sembra essere esemplificata dal monito bibblico: “Nessuno tocchi Caino”.

Infatti nella metafora di Caino e Abele la bibbia ci rimanda all’ostilità dei pastori verso i contadini, e viceversa invertendo però il  ruolo di preda e predatore, affermando cioè che il ricco Abele era un allevatore quindi pastore mentre il primogenito Caino faceva il coltivatore, e per questo era più povero e quindi non in grado di offrire doni pregiati a Dio.

Nessuno tocchi Caino è la frase che la bibbia, scritta dai semiti, mette in bocca a Dio quando hanno volute darsi leggi proprie approvate dal loro Dio, che li liberava dall’odiosa cultura indoeuropea, e non a caso i giudei concedono la grazia a Barabba, il profanatore di templi pagani, che però faceva “offerte votive” al tempio di Gerusalemme, mentre non ha nessuna pietà per Gesù, che predicava la pace e l’uguaglianza tra gli uomini.

A parte la considerazione moderna, secondo la quale la benevolenza divina non dipende dalla generosità dei fedeli, la metafora di Caino e Abele entra in contrasto con le risultanze storiche ed archeologiche, in quanto è attestato che l’uomo iniziò ad allevare gli animali prima del 10.000 a.C., mentre l’agricoltura si diffuse a partire dal 7.000 a.C., con la civiltà di Harappa (valle dell’Indo) e si espanse attraverso la mezzaluna fertile in direzione del Mediterraneo e della Mesopotamia, quindi il primogenito Caino avrebbe dovuto essere il pastore, mentre Abele il contadino, il quale avrebbe potuto barattare i frutti dei campi con doni pregiati da offrire in sacrificio.

La contraddizione con il racconto biblico nasce dal fatto che queste città fondate sull’agricoltura producevano ricchezza, mentre la bibbia afferma che Caino era povero proprio perché contadino.

Ovviamente la ricchezza degli agricoltori attirava l’attenzione dei cacciatori e degli allevatori con i quali i contadini scambiavano le granaglie con il latte e la carne, e pertanto i pastori e i cacciatori iniziarono a introdursi in queste società, per godere anche loro del benessere che producevano, ma accettando di malincuore le loro leggi, creavano di conseguenza un certo scompiglio, proprio per via della loro natura, che conosceva solo la legge del più forte.

Quindi anche Caino se avesse voluto, poteva barattare i suoi prodotti con un animale da offrire in sacrificio a Dio, pertanto risulta innegabile il suo egoismo e la faziosità connivente degli estensori della bibbia, nei confronti dei prepotenti.

Nonostante che lo sviluppo dell’agricoltura sia iniziata nella valle dell’Indo la prima regione a beneficiarne intensamente è la Mesopotamia, grazie all’insediamento dei Sumeri, una popolazione peoveniente proprio dalla valle dell’Indo, la quale essendo di indole pacifica si serviva dei pastori semiti, molto abili nel maneggiare le armi, per la difesa del territorio, ma anhe come servi e operai.  

La ricchezza della società sumera ha richiamato dal deserto arabico molti nomadi hapiru, come li chiamavano gli egizi, che alla fine hanno portato i semiti a diventare una larga maggioranza tra la popolazione, e quindi ad impadronirsi della ricca Mesopotamia con gli akkadi, la tribù semita più antica presente in Siria e alla nascita delle prime leggi della tradizione semita.

Infatti la società civile non è figlia della bibbia, e i Dieci Comandamenti non sono altro che delle semplici regolette già in uso nel mondo civile, ma che evidentemente il popolo rifiutava perché facevano riferimento a divinità che loro non riconoscevano.

Ne è un esempio la stele di Hammurabi risalente al 1800 a.C., oggi esposta al Louvre di Parigi, un monolite in diorite nera alto 2,25 metri sul quale è sovrapposto un rilievo nel quale appare Hammurabi che rende omaggio al dio del sole e della giustizia Samash, il quale, seduto sul trono gli porge il codice delle leggi, mentre nella parte sottostante sono incise in lingua accadica (quindi semita), ma ancora fortemente derivata dal sumero, tutte le leggi che regolavano la vita sociale del popolo.

Nella stele sono riportate 282 clausole legali che riguardano il diritto costituzionale, immobiliare, matrimoniale, obbligazioni tra creditore e debitore, successione a causa di morte, le locazioni, l’allevamento del bestiame, la schiavitù e il diritto penale, compresa la fatidica legge del taglione.

Si tratta di leggi di origine sumera riprese da una tavola (spezzata in due parti) ancora più antica, 2100 a.C. detta codice di Ur Nammu, il cui stato di conservazione non ha permesso una lettura completa del contenuto, ma grazie ai frammenti di altre tavolette, è stato possibile il riconoscimento di almeno 40 leggi sulle 57 individuate.

Anche il nome del primogenito di Mosè è in contrasto con la tradizione biblica, infatti Gherson, che secondo il ricordo biblico significa straniero, è un tipico nome indoeuropeo, che fa riferimento a una divinità taurina chiamata Cernunnos adorato dai celti e nel Chersoneso, ed anche il figlio di Gherson aveva un nome indoeuropeo, infatti si chiamava Shebuel il nome del sebuino, il bue sacro per eccellenza della cultura vedica, il Bos indicus primigenius, oggi estinto, chiamato anche Zebù; si tratta di nomi oggi utilizzati anche per i bovini e i bufali).

Questo dimostra che Ietro e i madianiti, dei quali il suocero di Mosè era sacerdote, non erano semiti ma una tribù nomade di cultura Indoeuropea, che si aggirava tra il deserto arabico e le montagne del Sinai, ciò spiegherebbe l’avversità del popolo d’Israele verso Sefora, moglie di Mosè, e chiarirebbe anche la vicenda dell’adorazione del vitello d’oro.

Infatti prima di salire sul Sinai a chiedere la Legge, Mosè incontra il suocero Ietro che gli riporta la moglie e i figli, i quali erano rimasti al sicuro con il nonno, quindi si presume che la tribù dei madianiti si sia unita al popolo dell’esodo.

Da ciò l’adorazione del vitello d’oro e l’ira di Mosè nel constatare che i suoi figli cresciuti nella casa del suocero adoravano un altro dio; infatti non saranno loro a continuare l’opera del padre, ma il più fidato Giosuè.

In particolare il nome del secondogenito di Mosè può sembrare in contraddizione con il mio ragionamento, infatti Eliezer è un nome elohista e si riferisce a El una divinità solare adorata dai semiti, ma bisogna considerare che il giovane è nato e cresciuto nella casa di un sacerdote di Gherson, con il padre impegnato a liberare il suo popolo, quindi anche se portava il nome di El, nella sua formazione culturale è stato influenzato dall’ambiente in cui è cresciuto.

Le contraddizioni sui nomi ci dimostrano che comunque Mosè adorava una divinità solare, mentre lo Yahweh degli ebrei è un’entità spirituale adorata da una piccola comunità israelita che pascolava le sue greggi sul monte Casio, la Montagna del Vecchio, Giove Cassio o Zeus, figli di El.

Anche la salita sul monte Sinai per ottenere la legge da dio è un atto, puramente formale per attribuire agli occhi del popolo una volontà divina al rispetto delle leggi.

Anche il tema della mela proibita sembra ispirato da quello che gli studiosi di tutto il mondo hanno definito: “Il Sigillo della Tentazione”, si tratta di un cilindro matrice di stampa risalente al 3500 a.C., ritrovato tra i ruderi della biblioteca di Assurbanipal, e attualmente esposto al British museum di Londra.      Il cilindro imprime un’immagine che agli occhi di un cristiano potrebbe sembrare una rappresentazione del peccato originale, in realtà nella tradizione sumera quel sigillo era il simbolo della fecondazione, e rappresentava l’incontro tra la dea sumera dell’amore “Inanna”, (nam-ma) e il dio della fertilità “Dumuzi”, ricorrenza che veniva celebrata ogni primo giorno di primavera.

 Nell’immagine, tra le due divinità è presente un albero con i frutti, il quale rappresenta la vita che scaturisce dal loro incontro, mentre alle spalle della dea appare un serpente, il quale non era altro che il simbolo che identificava Inanna come la “Grande Madre”, un retaggio paleolitico, di quando la dea si trasformò in serpente per accoppiarsi con il figlio partogenetico Ofione, identificato con la costellazione del sepentario, poi sostituito dal toro, che per i sumeri era Dumuzi.

La tradizione del serpente e del toro fu continuata tra i celti con Cernunnos, il dio della fertilità dalle sembianze di toro e le corna da cervo (simbolo della rigenerazione), il quale veniva raffigurato con un serpente tatuato sul braccio. È probabile che quel tatuaggio simboleggiasse proprio l’aver calpestato il serpente.

Due serpenti attorcigliati a un bastone formavano anche il simbolo della protezione divina sugli ambasciatori, riconosciuto da tutti, i romani lo chiamavano caduceo ed era anche il simbolo del dio Mercurio, e pure i re primitivi lo usavano come scettro, in quanto più il sepente era grosso e pericoloso, maggiore era la forza e la protezione divina del re.

Anche la tradizione ebraica sulla mitica torre di Babele per esempio, è un’invenzione biblica, in quanto è tuttora esistente anche se già diroccata al tempo dell’esilio; infatti, la sua costruzione rientrava nella tradizione sumera delle ziqqurat, torri sacre che dovevano attirare la protezione divina sulla città, di conseguenza Babele che era la città più ricca poté permettersi si costruire la ziqqurat più alta.

Lo stesso si può dire della diversificazione delle lingue, Babele era la città più ricca perché era al centro dei commerci, pertanto era frequentata e abitata da mercanti provenienti da ogni parte del mondo e conseguentemente parlavano lingue diverse.

Anche il tema della mela proibita sembra ispirato da quello che gli studiosi di tutto il mondo hanno definito: “Il Sigillo della Tentazione”, si tratta di un cilindro matrice di stampa, risalente al 3500 a.C., ritrovato tra i ruderi della biblioteca di Assurbanipal, e attualmente esposto al British museum di Londra.            

Il cilindro imprime un’immagine che agli occhi di un semita potrebbe sembrare una rappresentazione del peccato originale, in realtà nella tradizione sumera quel sigillo era il simbolo della fecondazione, e rappresentava l’incontro tra la dea sumera dell’amore “Inanna”, (nam-ma) e il dio della fertilità “Dumuzi”, ricorrenza che veniva celebrata ogni primo giorno di primavera.

 Nell’immagine, tra le due divinità è presente un albero con i frutti, il quale rappresenta la vita che scaturisce dal loro incontro, mentre alle spalle della dea appare un serpente, il quale non era altro che il simbolo che identificava Inanna come la “Grande Madre”, un retaggio paleolitico, di quando la dea si trasformò in serpente per accoppiarsi con il figlio partogenetico Ofione, identificato con la costellazione del sepentario, poi sostituito dal toro, che per i sumeri era Dumuzi.

La tradizione del serpente e del toro fu continuata tra i celti con Cernunnos, il dio della fertilità dalle sembianze di toro e le corna da cervo (simbolo della rigenerazione), il quale veniva raffigurato con un serpente tatuato sul braccio. È probabile che quel tatuaggio simboleggiasse proprio l’aver calpestato il serpente.

Anche se il serpente era diventato l’incarnazione del demone, la sua immagine divenne il simbolo della protezione divina simbolo di potenza.

Due serpenti attorcigliati a un bastone formavano anche il simbolo della protezione divina sugli ambasciatori, riconosciuto da tutti, i romani lo chiamavano caduceo ed era anche il simbolo del dio Mercurio, e pure i re primitivi lo usavano come scettro, in quanto più il sepente era grosso e pericoloso, maggiore era la forza e la protezione divina sul re.

Al caduceo si può collegare anche la leggenda di Mosè secondo la quale il Liberatore ritorna in Egitto nonostante la condanna a morte e il suo bastone si trasforma in un serpente che divora i sepenti di Amon.

La spartizione delle acque è un fenomeno naturale causato dall’associazione degli effetti del vento, con l’abbassarsi del livello del mare durante la bassa la bassa marea, che si manifesta quotidianamente in Normandia e alle foci dei fiumi nell’alto Adriatico, dove emergono cumuli di sabbia abitualmente sommersi, che possono essere utilizzati come ponte da chi lconosce la loro esistenza, ma provocano il rischi di annegamento a chi prova ad attraversarli quano cessa il vento o ritorna l’alta marea.

Anche la distruzione di Gerico trova elementi archeologici contrastanti, infatti risulta che la città sarebbe stata distrutta nel XIV secolo e rimase disabitata fino al IX secolo a.C. quando il suo territorio venne inglobato nel regno d’Israele.

Prima della sua distruzione Gerico era una città molto florida, ed era governata da una casta guerriera che aveva adottato i primi carri da guerra trainati da cavalli, il che mi fa supporre che fossero Mitanni una popolazione indoeuropea proveniente dalla steppa trans caucasica.

Infatti l’addomesticamento del cavallo avvenuto, nell’area caucasica all’inizio del secondo millennio a.C., aveva cambiato i rapporti di forza tra i vari eserciti, e di questo ne trassero grande giovamento i mitanni, e gli ittiiti i quali erano riusciti a conquistare l’alta Mesopotamia, e l’Egitto.

Pertanto osservando che anche gli Hiksos, nome con il quale gli egizi chiamavano i conquistatori del Delta nilotico, usavanoi carri da guerra trainati dai cavalli, nello stesso periodo di massimo splendore di Gerico, mi fa considerare l’ipotesi che provenissero proprio dalla città cananea, o che Gerico fosse una loro alleata quindi la sua distruzione rientrerebbe negli eventi che portarono alla cacciata degli Hyksos, ad opera del faraone Ahmose I, il quale fondò la XVIII dinastia.

Quindi al tempo dell’esodo Gerico era già stata distrutta e pertanto attorno al personaggio Giosuè si apre un vuoto storico incolmabile, che i protagonisti successivi a Mosè hanno riempito di millanterie o equivoci, generati forse dall’affinità etimologica tra il nome di Mosè e quello del faraone Ahmose, ma anche con quello del fratello maggiore Kamose, il faraone che iniziò la guerra contro gli Hiksos e che morì in battaglia  dopo solo cinque anni di regno, prima della vittoria finale ottenuta da Ahmose.

In oltre l’età di 110 anni e la mancanza di figli e di successori testimoniano il vuoto storico che divide il popolo dell’esodo dallo stato storico di Israele, e il tentativo di avvicinare il personaggio Giosuè all’epoca storica.

Ovviamente un territorio fertile come la terra di Canaan non è rimasto disabitato per oltre 3 secoli, certamente il sito era frequentato da pastori e nomadi, ma sicuramente come ritorsione verso gli hyksos è probabile che Ahmose  abbia posto il divieto di ricostruire la città, ragion per cui il popolo dell’esodo, quando arrivò nella terra di Canaan trovò le mura delle città già abbattute; quindi da ciò sarebbe nato il mito delle mura abbattute dagli angeli, e dal racconto tramandato per generazioni tra i pastori indigeni, sarebbe emerso il nome di Kamose, il faraone morto prima della conquista egiziana di Gerico, che gli israeliti avrebbero confuso con quello di Mosè.

Quindi gli israeliti si sarebbero insediati in un territorio sottoposto al potere del faraone, e la prova di ciò ce la fornisce proprio il faraone Merenptah, quando nel 1221 a.C., nel terzo anno del Suo regno fu costretto a portare le armi nel Retenu, una regione al confine dell’impero, composta dagli attuali Libano, Palestina e parte della Giordania e della Siria, dove esistevano solo città stato, tributarie del faraone, che periodicamente si ribellavano.

Al ritorno della spedizione punitiva Merenptah fece incidere una stele celebrativa, esposta nel tempio di Luxor, nella quale tra l’altro elencava le città e le tribù punite, dove tra l’altro si legge: “Israel è desolata e non esiste più il Suo seme”.

Si tratta della prima testimonianza storica dell’esistenza dello stato di Israele e ci dimostra anche la totale sottomissione di quel territorio al regno d’Egitto.

Da notare che la presunta data di morte di Giosuè 1245 a.C., precede di 24 anni la stele di Merenptah e succede di 29 anni (1274 a.C.) al passaggio del faraone Ramsete II, che si recava a Quadesh, dove avrebbe combattuto contro gli ittiti, i quali nel frattempo avevano sostituito i mitanni nell’opposizione all’espansionismo egiziano.

Quindi dalle date degli eventi storici ufficialmente accertati possiamo avere la certezza che nel XIII secolo a.C., la cananea era sottoposta al potere del faraone, come anche nel XIV secolo, nel corso del quale non si verificarono eventi che potessero giustificare la distruzione di Gerico, quindi mi sembra più logico pensare al XV secolo e al regno di Amenophis II, quando gli egiziani dovettero combattere continuamente contro città ribelli istigate e aiutate dai mitanni, i quali alla fine furono sconfitti definitivamente.

Da notare che il padre e il figlio di Amenophis si chiamavano Thutmose un nome dove si ripete la radice “mose”, la quale nella lingua egizia avrebbe avuto il significato di “nato”, si trattava di una radice usatissima nella formazione dei nomi durante la XVIII dinastia.

Gerico verrà ricostruita nel IX secolo a. C., nel corso della XXI dinastia, periodo durante il quale il regno d’Egitto era in pieno declino e le ribellioni nel Retenu rimanevano spesso impunite.

La stele di Merenptah, per quanto possa essere frutto dell’enfatizzazione degli eventi, tipica dei regnanti, oltre ad essere la prima testimonianza storica dell’esistenza di una città o tribù israelita, ci dice anche che gli israeliti, pur avendo fondato una città stato, erano tributari del faraone, e quindi la vicenda dell’esodo va rivista completamente, perché a questo punto si può ipotizzare che l’esodo non fu una fuga ma un trasferimento di liberi cittadini in una terra promessa dal faraone, il quale essendo la reincarnazione del Dio, giustifica il concetto della “Terra Promessa da dio”.

In realtà la bibbia e il concetto di “ebreo” nascono durante l’esilio babilonese, tra il VII, e il VI secolo a.C., quando gli abitanti di Gerusalemme, su istigazione dei profeti, in particolare di Ezechiele, si rifiutano di arrendersi a Nabucodonosor, come avevano fatto il faraone e le altre città palestinesi, convinti che dio come era già accaduto in un precedente assedio, avrebbe salvato la città dalla distruzione.

Pertanto Ezechiele bisognoso di giustificare la mancata realizzazione della sua profezia, e di confermare il mito della razza prediletta, sostenne che dio aveva voluto punire la città perché all’interno delle sue mura si celebravano riti pagani.

Infatti al ritorno dall’esilio, il monte Sion venne dichiarato sacro e inviolabile, e furono vietate tutte le celebrazioni religiose che non fossero in onore di Yahweh, come ad esempio l’Eucarestia celebrata da Gesù.

Per chiarezza bisogna precisare che prima dell’esilio gli abitanti di Gerusalemme erano Elohisti, vale a dire adoravano il dio del sole nel nome di El (Elohim), come appare anche all’inizio della bibbia, e come suggeriscono anche i nomi del profeti Elia ed Eliseo,  e anche dello stesso Ezechiele, Y’khzqel in ebraico, che significa “Forza di El”, ma nella biblioteca di Assurbanipal scoprono che si tratta di un dio adorato dai pagani, omonimo del greco Elios e del l’anatolico Ilios da ciò il concetto di culti ellenizzati, che si scontra con il desiderio biblico di un dio dei Giudei che protegga solo loro, da ciò il passaggio all’adorazione di Yahweh, una divinità fino ad allora sconosciuta, adorata da una piccola tribù di pastori semiti chiamata Shasu di Yahweh, quindi una divinità locale sicuramente non corrotta dai culti pagani.

Voglio comunque sottolineare che il teonimo Yahweh presenta una certa affinità etimologica con Giove e con Geova, il quale non è altro che la traslitterazione del tetragramma biblico: “YHWH”, che indica Dio.

Gli shasu erano un gruppo di pastori nomadi che probabilmente iniziarono a penetrare nella piana di Jezreel dopo la distruzione di gerico, i quali erano famosi per essere particolarmente inclini al brigantaggio, per questo anche lo stesso Ramsete II fu costretto a compiere diverse spedizioni per punirli assieme ai vassalli che si ribellavano al faraone.

            Il territorio dove operavano si estendeva dalla Siria alla valle di Jezreel Ashkelon e il Sinai, ragion per cui, oggi molti studiosi sono propensi a credere che gli shasu si siano insediati nella piana di Jezreel, fondando quello che diventerà lo stato di Israele.

Nel’elaborare le loro assurdità, i profeti si servirono delle testimonianze storiche raccolte in una biblioteca da Assurbanipal, re degli assiri e padre di Nabucodonosor, attraverso le quali stabilirono una linea genealogica che collegava tra loro personaggi della mitologia mesopotamica vissuti in epoche diverse, e che i profeti hanno imparentato attribuendo ai patriarchi un età plurisecolare, un escamotage già utilizzato dai sumeri per riempire le carenze storiche nella continuità delle loro dinastie.

La biblioteca con i suoi reperti archeologici è ancora oggi fonte di numerose informazioni per gli studiosi moderni.

In realtà la Palestina deve il suo nome al fatto che era abitata dai “Filistei” o meglio chiamati dalla bibbia “Philistei”, mentre gli egizi li chiamavano “Peleset”, da cui il toponimo Palestina, mentre per i greci classici erano i “Pelasgi, in quanto imparentati con le popolazioni primitive che hanno colonizzato la Grecia.

Anche il nome del fiume Giordano è di origine indoeuropea in quanto contiene la radice “Danu”, che lo inserisce nel gruppo dei fiumi le cui rive erano abitate dai danai, come l’Eridano, il Rodano, il Danubio, e il Don.

Un’altra dimostrazione che gli abitanti primitivi della Palestina erano una popolazione di origine caucasica, portatrice del cromosoma “Y R1b” che secondo gli studi, compiuti dal professor Sforza Cavalli, sulla diffusione dei cromosomi maschili durante le migrazioni, viene collocata anche in Palestina già 9 mila anni fa.

Questi caucasici che la bibbia chiama “Camiti” in seguito raggiungeranno la valle del Nilo e la risaliranno fino a diffondersi nell’africa subequatoriale, che allora era ancora una savana abitabile, popolata da gente appartenente ai ceppi primordiali: “A, B, C, D, E “.

Possiamo supporre chei camiti provenivano dalla “Iberia”, una regione caucasica oggi chiamata Georgia, e che i greci chiamavano “Colchide”, la terra dove Giasone rubò il “Vello D’Oro”, e facevano parte del flusso migratorio primitivo conseguente all’aumento della salinità del Mar Nero che avrebbe allontanato le mandrie dal luogo.

            Certo usare il termine flusso migratorio per un evento avvenuto 9000 anni fa è un po esagerato, in quanto si trattava di un clan familiare, composto da poche centinaia di persone, le quali occupavano un territorio fino a quando le risorse naturali del luogo, erano in grado sostentarli, dopo di che i secondogeniti e i figli successivi partivano per colonizzare altre terre lasciando i beni di famiglia ai genitori e ai primogeniti, che dovevano averne cura.

Quindi di generazione in generazione nella loro migrazione verso la valle del Nilo e successivamente la Spagna, gli iberi lasciano dietro di sé le loro radici, che in seguito presero il nome di Filistei.

Nel frattempo in India, aveva avuto inizio un altro flusso flusso migratorio verso il mar Nero, di una popolazione appartenente ai gruppi “H e K” che poi si dividerà come gli indoeuropei formando due gruppi genetici diversi, il gruppo I1 gli scandinavi e il gruppo I2 gli slavi, si dirigeranno verso il Nord Europa,  mentre il gruppo “J1 con il gruppo J2”, che secondo la bibbia erano i semiti si dirige verso la penisola Araba, attraversando la Siria e la Palestina con e come i camiti, lasciando indietro le loro radici, che continueranno a convivere in modo burrascoso fino ai giorni nostri.

A quei tempi la penisola Araba, come il Sahara, era ancora una savana abitabile.

            In seguito con la progressiva desertificazione della penisola i semiti inizieranno un progressivo ritorno verso l’area mediterranea, dove diventeranno protagonisti della grande storia

Da notare che: Sahara è un sostantivo antico che con ogni provabilità aveva proprio il significato di savana.

Come ho già detto la Palestina la Giordania il Libano e parte della Siria erano sottomesse al faraone d’Egitto, ed archeologicamente non esistono tracce dei regni di Giuda, e di Israele indipendenti, ma esistevano confederazioni di città stato, aventi una propria identità religiosa e militare.

Un esempio di ciò sono le lotte contro i Peleset, gli abitanti primitivi della Palestina, e poi durante l’età del ferro come alleati dell’Egitto contro l’invasione degli Assiri.

Da ricordare anche la battaglia di Quadesh combattuta nel 1274 a.C., tra l’esercito egiziano e quello Ittita per il possesso della città che si era ribellata al faraone, durante la quale Ramsete II evitò una disastrosa sconfitta, grazie all’arrivo provvidenziale di un gruppo di mercenari palestinesi.

Questo gruppo di mercenari palestinesi sarebbero all’origine della leggenda legata alla spartizione delle acque, in quanto i palestinesi avrebbero guadato il fiume Oronte, prima dell’arrivo degli ittiti, i quali tesero un’imboscata alla seconda armata egiziana, mentre guadava il fiume, la quale stava accorrendo di rinforzo al faraone, che a sua volta era caduto in un agguato.

Ogni città aveva un propria divinità suprema alla quale ubbidivano gli altri dei, in pratica si trattava di eresie della religione sumera i quali se pur di origine hindi, erano gli abitanti primitivi del territorio infatti il loro etnico “Sumer”, non significava “signori” come ritengono gli studiosi, ma porterebbe all’indoeuropeo “Suma”, = “Sopra”, vale a dire i signori dell’altipiano, in pratica si trattava di gente proveniente dagli altipiani Himalayani, la quale è scesa in Mesopotamia, abitando prima il Caucaso la Persia e la Siria, influenzando con la loro cultura più avanzata quella europea.

Testimonianza di ciò è il monte Libano che i sumeri chiamavano “Monte dei Cedri”, la montagna della Grande Madre “Inanna”, alla quale erano sacri i cedri del Libano, con l’espansione della società semita I teonimi sumeri furono sostituiti con nomi semiti.

I dati antropologici forniti dai resti umani rinvenuti in Mesopotamia attribuiscono ai sumeri una presenza pari a tre individui su dieci, mentre gli altri sette sono da dividere tra siriani e persiani

Abramo il capostipite della stirpe ebraica nasce a Ur, città sulla quale secondo la tradizione sumera si era posata la regalità di “Nanna” il dio lunare che i semiti chiamavano “Hubal, oppure “Sin”, poi Abramo va a vivere a “Carre”, l’odierna Harran, un’altra città sottoposta alla regalità di Nanna.

Da ricordare che secondo alcune ipotesi, Abramo nasce quando Ur è sottomessa al regno semita degli Akkadi, quindi la divinità lunare era chiamata “Hubal”, o “Sin”.

Prima dell’islamizzazione, anche la massima divinità degli arabi era “Hubal”, quindi: se come dice la bibbia, Ismaele era il patriarca del popolo arabo, a Lui e ad Abramo si deve la diffusione del culto di Hubal in Arabia, infatti a La Mecca, nella Ka’ba (Cubo Nero) è ancora custodita la “Pietra Nera”, un idolo che era adorato nella Ka’ba pre diluviana, che secondo la tradizione araba, Noè mise al sicuro prima del diluvio, e in seguito recuperata da Ismaele per conto di Abramo.

Da ciò possiamo affermare che il dio di Abramo non era Yahweh, ma Hubal, in oltre nella bibbia ebraica inizialmente Yahweh è chiamato “El” come la divinità solare dei fenici e degli altri semiti, tanto che il profeta Elia arriverà a uno scontro con i profeti fenici per affermare la propria superiorità nei rapporti con El.

Sempre su Abramo, considerando i vantaggi economici e di potere che ne ricavavano i fratelli della sposa del faraone, trovo molto sospetta la decisione del patriarca di presentare Sara al faraone come sorella; un capo tribù capace di liberare il nipote e i suoi servi, prigionieri dell’esercito elamita, aveva proprio paura che il faraone gli rapisse la moglie sessantacinquenne?

Da ricordare che a parte il culto persiano di Mitra, la massima divinità dei semiti era Ba’al, chiamato anche El o Helios, che in origine significava “Dio”, mentre per i popoli di stirpe Iberica e Albanese (Azerbaijan) (i futuri europei), sarà “Be’el” chiamato anche Beleno o Windo.

Sulla scorta delle scoperte archeologiche si sono fatte molte supposizioni sull’esodo, si è anche arrivati a negare che sia mai avvenuto, in quanto è archeologicamente dimostrato che alla costruzione delle piramidi (avvenuta comunque nel 3000 a.C.) non lavoravano schiavi, ma operai, i quali dai dati antropologici ricavati dai loro scheletri, risultano ben nutriti e curati, anche le fratture erano ricomposte in modo soddisfacente, mentre lo schiavismo aveva dei contorni molto meno tenebrosi da quelli descritti dalla tradizione biblica, soprattutto in considerazione del fatto che gli schiavi bisognava comprarli, pertanto la loro vita era preziosa.

Gli eventi storici documentati, che possono aver provocato un esodo sono due: il primo risale al XXI secolo a.C., che coincide con il primo periodo intermedio del regno, durante il quale la rivolta dei governatori produrrà una crisi di potere che durerà almeno un secolo, durante il quale i faraoni non avranno più la disponibilità economica per costruire le piramidi, una tradizione che non sarà più ripresa; e senza piramidi da costruire decine di migliaia di persone rimasero senza lavoro, pertanto mi sembra evidente che allora ci fu un esodo verso nuovi territori da colonizzare.

In merito alle piramidi bisogna precisare che la loro tradizione non è altro che l’evoluzione della cultura “Kurgan”, dei mitici proto indoeuropei provenienti dal Caucaso, i quali costruivano tombe a tumolo con camera mortuaria al suo interno, che poi ricoprivano con lastre di pietra bianca come gli egizi.

L’altro evento storico sospetto e più documentabile è l’abbandono della città di Akhtaton, oggi conosciuta come “Amarna”, la città abbandonata.

La vicenda ha inizio nel 1351 a.C., quando sale al trono del regno d’Egitto Amenofi IV, figlio di Amenofi III.

L’Egitto sta vivendo il suo massimo splendore, ma le regalie e i privilegi concessi al clero e ai templi, dope le vittorie in guerra, privavano lo stato di una parte del bottino e delle entrate fiscali, necessarie a sostenere l’apparato burocratico e militare, delle quali clero e templi erano esenti.

Pertanto Amenofi tenta una mediazione con il clero, nella speranza di ottenere una contribuzione economica, ma davanti all’intransigente rifiuto del clero, Amenofi decide di procedere a una rigorosa riforma religiosa, istituendo il culto di stato, il quale imponeva Aton come unico dio e aboliva i privilegi delle altre religioni, e in onore di Aton, Amenofi cambia il proprio nome in “Ekhnaton”, e fonda la città di Aton, “Akhtaton”, dove trasferirà la capitale d’Egitto.

Il culto di Aton riprendeva le tradizioni di una religione molto più antica, proveniente dalla Persia, il culto di Mitra, il Dio Sole, il quale aveva una tradizione e una liturgia dalla quale deriverà il cristianesimo, fondata sulla pace e uguaglianza tra gli uomini, tanto che ancora oggi festeggiamo l’adorazione dei Magi, i quali non erano altro che i sacerdoti del Dio Sole Mitra.

Il culto del Sole Invicto, di origine Persiana, aveva molti proseliti tra i poveri, e si era diffuso in Anatolia, in Grecia, in Siria in Palestina, e quindi in seguito si diffonderà anche tra i soldati romani.

Alla morte di Ekhnaton i sacerdoti di Amon e i nobili loro alleati, diedero vita a una rappresaglia nei confronti dei fedeli al culto di Aton, i quali per porsi al sicuro, dovettero ripudiare il dio e abbandonare la città di Akhtaton pertanto questa situazione politica mi sembra molto aderente al contesto biblico.

I primi a pagarne le conseguenze furono i successori diretti di Ekhnaton, il primo fu “Neferneferuaton”, gli studiosi suppongono che si trattasse della sua vedova “Nefertiti” o della figlia “Meryaton” (Amata da Aton), alla quale successe immediatamente Smenekhkare che gli sopravvisse solo pochi mesi, non si sa se era un fratello o un genero di Ekhnaton, al quale subentra il giovanissimo Tutankhaton (1347 – 1339 ac), a lungo creduto un altro genero di Ekhnaton, ma recentemente la genetica ha dimostrato che era un figlio, il quale per la giovane età sale al trono sotto la tutela dei sacerdoti di Amon, i quali gli impongono di cambiare il proprio nome in Tutankhamon e di reintegrare nei propri privilegi i sacerdoti ed i templi di Amon.

Tutankhamon muore assassinato al raggiungimento della maggiore età, quando tenterà di rivendicare i pieni poteri.

La vedova e sorella del faraone, Ankhesenamon, chiede al re ittita Suppiliuiuma di sposare uno dei suoi figli, ma anche questo: “Zannanzas”, viene assassinato durante il viaggio verso l’Egitto, contemporaneamente scompare anche Ankhesenamon, forse accusata di tradimento, quindi diventa faraone il vecchio Eje, il gran visir fin dai tempi di Ekhnaton, il quale muore anche Lui dopo quattro anni

La mancanza di eredi legittimi e il disordine favorito dalla precedente inerzia militare di Ekhnaton portano alla ribalta un vecchio generale: Horembeb (1335 – 1308 ac) il quale era stato uno dei principali collaboratori di Akhnaton, e pertanto aveva fatto carriera nell’esercito, fino al punto da mettersi al riparo da eventuali vendette.

Horembeb non avendo eredi maschi stabilì un rapporto di parentela con il suo braccio destro, il formidabile e fedelissimo Ramsete, con il quale, favorendo il matrimonio della figlia Tuia, con Seti, figlio di Ramsete, forma un triangolo di potere inattaccabile da chiunque, che lo mette al sicuro da eventuali complotti.

Sceso a patti con i sacerdoti, rimette ordine nel paese e ai confini, e per compiacere i sacerdoti di Amon, maledice Ekhnaton, demolisce i templi di Aton, impedisce il Suo culto e proibisce persino che venga pronunciato il Suo nome, mentre nei documenti ufficiali il nome Aton viene cancellato e sostituito con l’appellativo: “Il criminale Ekhnaton”.

Ma di recente nei sotterranei del tempio di Luxor è stato ritrovato un magazzino segreto, nel quale era custodita anche una statua che raffigurava Horembeb in adorazione di Aton.

Chiaro che in un clima simile i fedeli di Aton siano stati perseguitati, ignorati e cancellati dalla storiografia ufficiale, e qui possiamo immaginare Mosè, il cui nome è il sinonimo ebraico di Ahmose (Amato da Dio), nome del primo faraone della decadente XVIII dinastia. Forse Mosè era un discendente di Ekhnaton, fuggito dalle persecuzioni, e poi ritornato in Egitto per rivendicare il trono, prima o dopo la morte di Horembeb, quando Ramsete I da inizio la XIX dinastia.

Dal punto di vista archeologico non risulta che Horembeb abbia avuto figli maschi, anche se la mummia della sua seconda moglie, Mutnodjemet fu rinvenuta con un feto al suo interno e tracce di altre gravidanze, quindi per la bibbia quel feto deceduto prematuramente con la madre, potrebbe essere l’amato figlio che dio fece morire per punire il faraone. Anche qui trovo raccapricciante il fatto che un dio del bene, faccia morire un bambino per punire il padre, e la bibbia è piena di dogmi sanguinari contrari alla morale cristiana e civile.

Nello stesso periodo in cui si svolge la vicenda di Horembeb, sarebbe avvenuta l’esplosione del vulcano Thera, oggi Santorino un evento catastrofico che potrebbe spiegare i tre giorni di buio e la pioggia di ceneri, un fenomeno non riscontrabile nella valle del Nilo a causa delle alluvioni, ma accertato sui monti del Sinai negli strati archeologici di quel periodo.

Anche l’arrossamento delle acque è stato un fenomeno naturale dovuto alla presenza di un’alga, la Trichodesmium erythraeum, che in particolari condizioni climatiche si diffonde in modo endemico, colorando le acque di rosso bruno, un fenomeno caratteristico che da il nome al Mar Rosso.

Il bastone di Mosè che si trasforma in serpente non era altro che, quello che i romani chiamavano “caduceo” un bastone di quercia attorno al quale era avvolto un serpente, come siimbolo della protezione divina, usato dagli ambasciatori come lasciapassare in terra straniera, grazie al quale Mosè può ritornare in egitto nonostante la condanna a morte

La tradizione del caduceo ha avuto origine in epoca primordiale, come scettro del re divino, con il quale, più il serpente era grosso e pericoloso, maggiore era la protezione divina di cui godeva il monarca.

Figuriamoci poi se una invasione di cavallette poteva affamare un paese granaio del Mediterraneo, dove il raccolto avveniva due volte l’anno.

Ramsete I, figlio di contadini, aveva fatto carriera nell’esercito fino a diventare il braccio destro di Horembeb e Suo consuocero; era nato ad Avari una città situata nel delta del Nilo, antica capitale del regno degli Hyksos, dove si adorava il Dio Seth, e quindi non era particolarmente compromesso con il clero di Amon, pertanto Mosè avrebbe potuto ritornare in Egitto per rivendicare i diritti del popolo che rappresentava, ed il faraone, forse con lo scopo di non far torti a nessuno e allontanare la fonte di eventuali disordini e complotti, salomonicamente potrebbe aver promesso a Mosè una terra favolosa dove scorrono fiumi di latte e miele.

Qui la bibbia suggerisce un rimedio contro il catastrofismo degli ecologisti, in quanto la valle dove latte i miele scorrono a fiumi è una terra semi desertica, dove crescono le acacie, alberi invasivi, resistenti al fuoco e alla siccità, i quali forniscono un grande nutrimento alle capre e alle api, e sono un ottimo rimedio per la bonifica dei deserti.

La Palestina, nei confronti dell’Egitto e Mesopotamia, non era per niente un paradiso fatto di latte e miele, ma certamente era la più fertile tra i territori del Retenu, ed i popoli che già l’abitavano non avrebbero accettato altre intrusioni, lì era terra di confine, lontana dalla capitale, e una volta pagati i tributi al faraone, promesse o non promesse ognuno faceva quel che voleva, e nessuno si sarebbe fatto da parte per favorire i nuovi arrivati, la terra promessa andava conquistata con la forza.

Ma il culto di Aton impediva la guerra, da qui i 40 anni di nomadismo nel deserto, terminati con la morte di Mosè, quando la seconda anima del popolo, quella dei nomadi pagani che adoravano il “Vitello D’Oro”, i quali si erano aggregati a Mosè durante l’esodo, prende il sopravvento sui seguaci di Aton e decide di combattere per conquistare la terra.

Secondo la Bibbia alla partenza dell’esodo, Mosè disponeva di 650000 uomini atti alle armi, un esercito formidabile, considerando che l’Egitto contava poco più di 4 o 5 milioni di abitanti, mentre in Palestina si arrivava più o meno verso il mezzo milione di persone, l’improvviso assentarsi di tutta questa forza lavoratrice avrebbe dovuto mettere in ginocchio l’economia del paese, ma ammesso che gli Hapiru, nomadi del deserto Arabico, che qualcuno identifica per gli ebrei, abbiano prontamente sostituito i partenti, nei cartigli egiziani non si fa nessun cenno all’evento, colpa dei sacerdoti di Amon che anno imposto il silenzio?

Esauriti gli argomenti attestati dai ritrovamenti archeologici provo a dibattere alcune tradizioni bibliche che sono in contrasto con le tradizioni e la cultura del loro tempo.

La storia di Giuseppe è palesemente solo un mito, in quanto è ampiamente risaputo che i sogni sono solo il frutto delle nostre ansie e dei desideri inconsci, mentre nell’antichità, le apparizioni degli dei in sogno, erano uno strumento per far accettare alla gente le decisioni più impopolari; tanto che anche Abramo collocava la propria tenda sotto a una quercia sacra, proprio per simboleggiare il suo dialogo con dio.

Nell’antichità, a scopo diplomatico, ma anche come forma di garanzia alla sottomissione per i popoli sconfitti, era in uso inviare giovani ostaggi alla corte dei re, ed è quello che sicuramente fece Giacobbe, con il figlio Giuseppe, infatti la stessa bibbia ammette che il patriarca aveva destinato Giuseppe ad essere istruito.

E dove poteva avvenire l’istruzione del figlio di un capo tribù nomade, se non alla corte del regno, culturalmente e tecnologicamente più evoluto del suo tempo?

Infatti con lo scopo di poter trattare con una controparte istruita, l’Egitto si era assunto l’onere di erudire i figli dei capi delle tribù sottomesse.

Ricordiamoci che Giacobbe come capo di una tribù nomade che viveva nel Retenu, era un vassallo del faraone, e come vuole la prassi nei rapporti tra un sovrano e un suo feudatario, non avendo figlie da dare in sposa al faraone, doveva mandare un figlio, e questo non esclude l’ipotesi che Giuseppe fosse destinato anche a sposarsi con una principessa egiziana.

La tradizione vuole che Giuseppe fosse particolarmente bello, e quindi è supponibile che abbia attirato l’attenzione di qualche principessa, suscitando l’invidia dei fratelli e dell’ambiente di corte, il che gli ha procurato le disavventure citate nella bibbia.

Comunque il matrimonio con una figlia del faraone spiega i privilegi e il potere politico raggiunti da Giuseppe, privilegi di cui comunque ne hanno tratto profitto sia la sua famiglia che la tribù.

Ma i privilegi come arrivano se ne vanno, e con il cambio delle generazioni cambiano anche gli equilibri politici, pertanto può succedere che chi prima spadroneggiava, ora deve subire le vendette di chi un tempo gli era sottomesso, e quindi diventa evidente il senso di persecuzione evocato dalla bibbia.

Pertanto il mito di Giuseppe che interpreta i sogni e risolve i problemi del faraone è solamente il frutto della manipolazione della verità allo scopo di mitizzare un personaggio, e per non ammettere di aver ricevuto privilegi.

Una dimostrazione sul fatto che gli egizi non avessero bisogno di Giuseppe per risolvere i loro problemi, ce lo offre il capitolo della bibbia legato all’esodo, quando il popolo si lamenta con Mosè della mancanza di aglio per curare le malattie, che gli egiziani fornivano loro.

Lo stesso avviene con Gesù, il quale essendo stato educato dai Re Magi possedeva il sapere e quindi il potere di curare malattie che per i semiti allora erano gravi o mortali e da ciò il mito dei miracoli.

Anche il comportamento di Abramo nei confronti del faraone lascia spazio a sospetti.

Infatti Abramo viene accolto alla corte del faraone come il capo di un popolo  proveniente dalla lontana Carre (Harran), città posta in Turchia, che chiedeva di insediarsi nel Retenu (Palestina) quindi si trattava di una personalità con la quale bisognava stabilire un’alleanza, concedere di stabilirsi in una parte del regno, pertanto, era naturale che come era in uso allora tra i due personaggi si realizzasse una parentela.

Abramo non aveva figlie o sorelle da offrire in sposa al faraone da, qui l’idea di presentare Sara come sorella, in quanto lo scopo non era tanto quello di soddisfare il piacere del faraone, ma quello di stabilire rapporti di parentela con un capo tribù alleato, ma considerando la tarda età di Sara, non si può escludere che Abramo sperasse in una rinuncia del sovrano.

In pratica non si può nemmeno escludere che si trattava del classico piatto di minestra senza sale, offerto on l’intenzione di ottenere un rifiuto.

In ogni caso anche Abramo avrebbe ottenuto una sposa proveniente dalla famiglia del faraone, probabilmente quella che la bibbia definisce: la schiava “Agar”.

Infatti alcune tradizioni la vogliono figlia di una seconda moglie di “Thutmosis III” (1481 a.C./1425 a.C.), quindi era sicuramente una principessa, questo spiega l’atteggiamento irriverente di Agar nei confronti di Sara, e l’ostilità del popolo nei confronti della straniera.

Che il matrimonio di Sara con il faraone fosse puramente diplomatico ce lo dimostra anche il fatto che alla scoperta della verità, il sovrano non si è adirato, ma sembra aver apprezzato il fatto che Abramo abbia rinunciato alla moglie pur di allearsi con lui, e considerando la tarda età di Abramo, il faraone potrebbe aver creduto che comunque i figli di Agar avrebbero dato vita  a una stirpe di feudatari fedeli all’Egitto.

Mentre per contro bisogna considerare che per Abramo imparentarsi con il faraone, implicava notevoli privilegi, sia a livello politico e sociale, che economico, infatti si può dire che il regno d’Egitto navigasse nell’oro estratto nella Nubia, del quale i faraoni ne facevano sfoggio regalandone discrete quantità ai sovrani amici.

Quindi rimane qualche dubbio se la decisione di Abramo di presentare Sara al faraone come sua sorella sia stata presa come un atto diplomatico per ovviare alla carenza di figlie o perché attratto dalle ricchezze e dai privilegi che ne conseguivano.

Certamente mi pongo dei dubbi sulla maternità di Sara in età veneranda, dubbi supportati dal fatto che Agar fosse considerata una “Straniera”, e quindi non adatta ad essere la madre del futuro capo tribù; pertanto considerando la longevità attribuita dalla bibbia ai due personaggi, suppongo che Isacco sia stato un capo imposto dalla tribù, al quale si è voluto attribuire la discendenza da Abramo assegnando al patriarca e alla consorte, una data di morte postuma a quella effettiva.

Anche il mito della distruzione di Sodoma e Gomorra, è il frutto del terrorismo psicologico provocato dall’uso divinatorio dei fenomeni naturali, allo scopo di manipolare il pensiero della gente.

Infatti la distruzione di Sodoma e Gomorra è stato un evento naturale che trova ampie spiegazioni scientifiche, in quanto il mar Morto oltre ad avere le acque estremamente salate tanto che Sodoma e Gomorra prosperavano proprio grazie al commercio del sale, sul fondo aveva un deposito di catrame che periodicamente affiorava abbondante dalle sue acque.

Ovviamente la presenza di catrame implica anche la presenza di idrocarburi gassosi, pertanto la fuoriuscita imprevista di una grossa bolla gassosa ha sicuramente determinato una deflagrazione, la quale a causa della natura del luogo, ha avuto un effetto molto spettacolare e distruttivo.

Infatti il mar Morto è posto all’interno di una depressione, per cui il livello delle sue acque di aggira attorno ai 427 m sotto il livello del mare., quindi l’esplosione è avvenuta all’interno di una cassa di risonanza naturale, che ha diffuso il boato in modo abnorme.

Ovviamente i mercanti che trasportavano il sale, sono rimasti investiti dall’esplosione mentre risalivano il dirupo generando il mito delle persone trasformate in statue di sale.

Un’altra ipotesi sulla distruzione di Sodoma e Gomorra sarebbe l’esplosione di un meteorite sopra il mar Morto.

Il ritrovamento dei resti di Tell el-Hammam nei pressi della foce del Giordano, ha permesso di dimostrare l’antica esistenza di una città distrutta da una catastrofe naturale durante l’età media del Bronzo, in quanto la posizione delle macerie e la presenza di cenere, ha permesso di stabilire che le mura sono state abbattute in un ‘unica direzione da un’onda d’urto incandescente, proveniente dal mar Morto con direzione N.E. provocata da un’esplosione avvenuta sul mare.

All’esplosione è seguito anche un maremoto che ha ricoperto di sale il territorio rendendolo sterile per 700 anni.

L’ipotesi di un asteroide è supportata dal ritrovamento di trinitite, silicio vetrificato a temperature ottenibili solo da un’esplosione nucleare, e quindi eguagliabile solo da un asteroide che arriva sulla Terra a velocità siderale; La pietra ritrovata conteneva anche uno zircone.

In un’epoca in cui i profeti osservavano gli astri per capire la volontà degli dei, fu facile argomentare che l’evento era il frutto della volontà divina di infliggere un castigo.

Ovviamente non tutta la comunità scientifica condivide questa ipotesi, ma francamente, l’unico dubbio lo troverei sulla datazione dell’evento, In quanto  i pochissimi cocci di vasellame ritrovati potrebbero essere la traccia di accampamenti di banditi o mercanti, postumi alla tragedia, la quale potrebbe essere avvenuta in un’epoca più remota, in quanto, anche considerando il fatto che i nomi biblici non coincidono con quelli delle altre culture, trovo sospetto che la catastrofe del mar Morto, forse anche all’origine del toponimo, non abbia riscontro tra le iscrizioni egizie e mesopotamiche.

Gli unici riferimenti li ritroviamo nell’Epica di Erra chiamato anche Nergal, una divinità sumera, detentrice dei poteri sul calore solare, sul fuoco sulle inondazioni e le pestilenze, ma sembra che in realtà esistevano due gemelli, uno dei quali era lo sposo di Ereshkigal la regina degli inferi, quindi una specie di Apollo, il quale distruggeva le città che si sottomettevano alla regalità di Marduk, tra le quali si cita anche Babele.

Quindi Erra, che deteneva il potere di far evaporare la gente e le cose, trasformandole in sale, può aver fornito i dettagli che hanno costruito il mito di Sodoma e Gomorra, città corrotte da un altro dio.

Alla teoria dell’asteroide si può associare anche la leggenda di Fetonte (Ovidio), il quale ottenuto dal padre, Helios, il permesso di guidare il carro solare, si avvicinò troppo alla terra, fino ad asciugare i fiumi, bruciare le foreste, incendiare il suolo, che in Africa divenne deserto e colorare di nero la pelle degli etiopi, tanto da costringere Zeus a colpirlo con un fulmine e farlo precipitare nell’Eridano dove annegò.

Le sorelle che lo piangevano sulla riva del fiume furono trasformate in pioppi e le loro lacrime in ambra, mentre l’amico Cicno fu trasformato in cigno.

Il fatto che Cicno fosse indicato come il re dei Liguri non deve trarre in inganno, in quanto secondo Clemente Alessandrino la tragedia si verificò nello stesso periodo del Grande Dilavamento di Deucalione e Pirra, quindi quando Liguri e Umbri vivevano ancora nel Caucaso.

Infatti, altre fonti (Eschilo), indicano il luogo della caduta nell’Iberia caucasica, la terra d’origine dei danai, e degli iberi, pertanto in considerazione del fatto che gli idronomi: Eridano e Giordano contengono entrambi la radice Danu, ritengo che il mito sarebbe di origine medio orientale.

Non a caso nella cultura celtica, che è la continuazione delle tradizioni danaidi, il pioppo, che appartiene alla famiglia dei salici, diventerà l’albero sacro ai morti in battaglia, e ancora oggi è utilizzato come arredo urbano all’ingresso dei cimiteri; mentre le lacrime delle Eliadi che furono trasformate in ambra, sarebbero la trinitite ritrovata a Tell el-Hammam, allora considerata una pietra preziosa e raccolta in abbondanza, tanto da creare il mito di una città ricca e potente.

Rino Sommaruga

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La Trinacria

Quella che i romani chiamarono “Trinacria” deve al suo nome al fatto che all’inizio dell’età del ferro il suo territorio era diviso tra tre popolazioni, i “Siculi”, i “Sicani” e gli “Elimi”, e in quanto in origine il termine acro era un sinonimo di territorio, e che solo in seguito diventerà una unità di misura, quindi con il toponimo Trinacria si riassumeva la divisione territoriale dell’isola in tre parti o acri.

Ma in realtà, il nome e il simbolo della Trinacria avrebbero un significato diverso da quello inteso dai romani, e farebbero riferimento a una dea delle stagioni primordiale, quando gli umani dividevano il ciclo annuale solo in tre stagioni, la stagione della semina, la stagione del raccolto e la stagione della rigenerazione, che comprendeva Autunno e inverno.

            In quanto il nome Trinacria contiene la radice greca “Akros”, sinonimo di sommo, supremo, quindi un aggettivo che indica una divinità primitiva della terra dal triplice aspetto come poteva essere Ecate con i suoi tre volti da, Bambina, Donna, Vecchia, i quali simboleggiavano il passare del tempo come le sue tre figlie, le quali a turno passavano tra i campi per realizzare il dono divino della natura.

Poi quando l’uomo imparò a seminare anche in autunno Ecate venne accantonata, in favore di Anna Perenna” per gli italici

Quindi la radice Akros che per i primitivi era un sinonimo di sacro, per i romani cambiò significato, diventando sinonimo di fondo: “agro”, e unità di misura: “acro”.

 Tutto ciò si evidenzia nel simbolo della Trinacria dove appare un viso di donna adornato dai frutti della terra e da serpenti, il quale non fa altro che richiamare le sembianze di una Grande Madre Terra, in quanto i serpenti erano sacri alla dea, fino a diventare il suo simbolo identificativo.

Non a caso la Trinacria o Triscele, (come viene più comunemente chiamata), senza il volto femminile è anche il simbolo dell’isola di Man, la quale anticamente era chiamata Mona, un epiteto comunemente rivolto alla Grande Madre e ai luoghi che la simboleggiavano.

La presenza dei serpenti nel simbolo della Trinacria è un retaggio della preistoria, perché secondo la tradizione la dea si era trasformata in serpente, per potersi accoppiare con Ofiuco, il serpente cosmico, allo scopo di generare la pioggia, per rendere fertile la terra, mentre il Triscele dell’isola di Man è una forma maschilizzata di origine medioevale, ma che prende spunto dalle usanze preistoriche.

Le tre gambe invece raffigurano le 3 stagioni che passano; infatti, bisogna considerare che l’anno sarebbe stato suddiviso in 4 stagioni solo in epoca ellenica (IV sec. A.C.), mentre per le società agricole primitive le stagioni erano solo 3, il tempo della semina, il tempo del raccolto e il tempo della rigenerazione.

Faceva eccezione l’Egitto, in quanto potendo realizzare due raccolti l’anno, aveva un periodo della rigenerazione più corto e quindi una stagione estiva in più.

Un esempio eclatante sull’origine del simbolo della Trinacria lo troviamo in Kazakistan, nella regione del Turgai, toponimo derivato dall’omonimo fiume che l’attraversa, dove i satelliti della Nasa hanno fotografato una collina dalla forma strana, poi risultata artificiale e datata VIII secolo a.C.

Come si vede nelle immagini sottostanti, La collina è formata da 3 raggi alla cui estremità appaiono delle figure che potrebbero simboleggiare dei serpenti, pertanto trovandoci nella culla della cultura ariana si può affermare con certezza che si trattava di un santuario sacro a Ecate, una divinità adorata dai traci e portata da loro in Italia il cui alter ego potrebbe essere la sumera Inanna.

Regione Turgai Kazakistan Fotografia Nasa pubblicata dalla rivista Focus

La Trinacria. Si tratta di una ricostruzione postuma del simbolo ritrovato su una moneta Siracusana
Il Triscele stemma dell’isola di Man, anticamente chiamata Mona in onore della Grande Madre, poi maschilizzato assieme al toponimo in onore Manannan mac Lir (figlio del mare). Una divinità marina e del tempo figlio della Grande Madre. Un provabile alter ego di Varuna

Purtroppo degli ariani nord orientali, storicamente meglio conosciuti come “sciti”, “sarmati” o “Alani” la letteratura classica ci ha tramandato poco di loro, se non che fossero: alti, biondi ed estremamente selvaggi, ma non hanno attestato nessuna notizia sulle loro usanze e divinità, e gli unici reperti archeologici ci portano alla cultura di di Samara sito archeologico tra i più antichi ritrovato alla foce dell’omonimo fiume nel Volga quindi, è grazie alla grande affinità linguistica che li lega alla nostra cultura e per mezzo della lingua sanscrita e delle tradizioni vediche, che possiamo tentare d’identificare la loro origine, partendo proprio dal loro nome etnico “Ariani”, il quale avrebbe il significato di figli di “Arya”.

In oltre conoscendo alcune tradizioni della cultura aryana, mi viene spontaneo individuare nel nome del fiume Samara, il teonimo di una divintà delle acque e accostarla per esempio alla persiana Danu anche lei matrona di alcuni dei fiumi più importanti d’Europa

Nella lingua sanscrita Arya avrebbe il significato di “Natura”, ma anche “Nobile”, o “Signora”, perchè nella tradizione vedica la natura era la Grande Madre.

Al teonimo Aryanna ci si arriva aggiungendo al prefisso Arya la radice sanscrita “Ann”, sinonimo di cibo, per cui Aryanna diventa: “La Signora Del Cibo”, per meglio dire: “La Dea Che nutre.

Quindi possiamo ritenere che la cultura indoeuropea si sia diffusa in Europa ed Asia partendo da un’unica divinità chiamata Anna dagli italici, ma anche con nomi tribali come potevano essere Danu per i persiani e Samara per i galli, Cerere peri romani, Demetra per i greci ecc.

Da ciò possiamo supporre che Aryanna fosse il nome della Grande Madre dei caucasici della steppa, mentre Anna Perenna era il nome usato dai caucasici mediterranei.

Ma allo stesso modo possiamo parlare dell’Aryanna di Creta e del Minotauro, in quanto il mito potrebbe trarre origine dalla tradizione secondo la quale la Grande Madre aveva come amante il Toro, mentre dopo l’uccisione del Minotauro, Aryanna si sposa con un altro dio della natura, Dionisio per i greci, una divinità pre olimpica, che con la maschilizzazione del culto, avvenuta in epoca micenea (Teseo era un miceneo), avrebbe sostituito Aryanna.

Secondo i vari culti solari persiani, Mitra o Mazda il dio del sole, uccide il Toro e diventa l’amante della Grande Madre.

Anche Le “erinni” le tre furie, con i serpenti al posto dei capelli, che perseguitano Oreste colpevole di aver ucciso la madre “Clitemnestra”, sembrano la conseguenza dello sconvolgimento teologico che ha sottomesso le Grandi Madri al potere degli dei guerrieri, che ha portato alla loro demonizzazione.

Le erinni oltre all’etimologia del nome che sembra indicare un’origine ariana, nella mitologia greca sono figlie di Urano nate dal suo sangue quando fu evirato da Crono. Da ricordare che nella mitologia ellenica Urano è il primo figlio e amante della Grande Madre “Gea”, quindi nella tradizione matriarcale Urano era il Serpentario, cioè Varuna.

Sull’origine delle popolazioni primitive si può avere una certezza nei confronti dei siculi i quali popolavano il settore occidentale dell’isola, in quanto come abbiamo già visto il vulcano “Etna” ha preso il nome dalla Grande Dea Madre dei “palaici”, popolo anatolico migrato in Sicilia alla fine del secondo millennio, per sfuggire alla carestia e all’invasione dei micenei.

I sicani invece secondo gli storici antichi, sarebbero la popolazione primitiva dell’isola, ma di origine iberica, mentre gli storici moderni li confondono con gli iberi dell’età del ferro, la confusione nasce dal fatto che nella storiografia moderna la migrazione degli iberi caucasici continua a non essere considerata, quando invece bisogna ritenere che la Sicilia fu colonizzata dagli iberi prima della Spagna.

L’origine caucasica dei sicani è dimostrata dal nome della loro città più importante Henna, che ancora oggi è il capoluogo di provincia più alto d’Europa, Henna era sicuramente la loro Grande Dea Madre, un teonimo continuato dall’italico “Anna Perenna”.

Il teonimo Anna Perenna riassume il ciclo naturale della “Grande Madre Terra” (Thera per i minoici), Anna indicava “il ciclo delle stagioni”, Perenna “il ripetersi dei cicli”, da quì la tradizione paleolitica dell’abete bianco sacro alla Madre Terra e simbolo dell’anno nuovo che nasce.

Con l’affermazione della casta guerriera il teonimo, sarà maschilizzato in Anno, mentre la tradizione dell’abete di capo d’anno, il simbolo più importante della tradizione pagana, con il tempo sarà accettata anche dal cristianesimo, nonostante il suo originale radicalismo biblico, che ha sempre osteggiato i simboli aryani.

Secondo gli storici antichi, gli elimi sarebbero giunti in Sicilia cacciati dall’Italia dagli “enotri”, i quali abitavano la Basilicata, la Calabria e il Cilento.

Gli Elimi abitavano la Sicilia occidentale ma sono ancora più sconosciuti, toponimi come Lerici, Segesta (Sestri Levante ed Entella (fiume di Chiavari) supportano l’ipotesi di una origine ligure, una affinità culturale indiscutibile, ma l’etnonimo “Elimi”, indica la dea El”, quindi un altro popolo di origine caucasica, ma più antico dei liguri.       

Etimologicamente si può comparare l’etnonimo degli elimi con quello degli elidi, un popolo che abitava il nord ionico del Peloponneso, il quale pur avendo inventato le olimpiadi, era considerato il più antico e il più barbaro tra i popoli greci.

Le sue città più importanti furono Elis, Olimpia e Pisa, quindi questo ricorrere di toponimi ed etnonimi, mi porta all’ipotesi di un popolo caucasico, i famosi pelasgi, che in seguito all’arrivo dei micenei (semiti siriani), migrarono dal Peloponneso verso l’Italia.

Nella mitologia il fondatore della Pisa greca ed inventore delle olimpiadi si chiamava Enomao, il quale aveva una figlia chiamata Ippodamia che aveva promesso in sposa a chi lo avesse battuto nella corsa con i cavalli.

Enomao era un semidio figlio di Ares, e disponeva di cavalli magici regalatigli dal padre, con i quali era imbattibile, l’impresa di batterlo riuscì (con la complicità di Ippodamia), a Pelope.

Dai nomi dei personaggi possiamo concludere che si trattava di divinità, appartenenti a una cultura di allevatori di cavalli come i tessali, poi conservati nella cultura ellenica come semidei.

Pelope figlio della dea Dione, ha un nome composto dal greco “Pilus”, sinonimo appunto di pelo al quale possiamo aggiungere il tedesco antico “Walap”, sinonimo di galoppare, quindi Pelope doveva essere un individuo capace di cavalcare a pelo, come gli iapigi della Puglia e i centauri della mitologia greca, mentre “Ippodamia”, era sicuramente la continuazione di un culto pre ellenico legato alla celtica Epona, matrona delle acque e protettrice di cavalli e cavalieri; infatti il prefisso greco “Ippo”, è il sinonimo del celtico “Epo”, mentre damia sarebbe un sinonimo di dea; quindi ippodamia aveva il significato di: “dea dei cavalli”.

Enomao in particolare, è un nome il cui prefisso ci riporta agli enotri e a Eno la matrona che trasformava l’acqua in vino, mentre il suo significato potrebbe essere “Dimora di Eno”, in quanto la radice “mao” deriverebbe dall’arabo “mahùn”, sinonimo del sanscrito “Wasu” (vaso), che indicava la dimora di un dio, ma non si può escludere il celtico “mag” sinonimo di grande, quindi possiamo supporre che Enomao era una divinità pre ellenica, e probabilmente un dio dei cavalli, il cui nome è stato tramandato in forma corrotta, Enomao invece di “Epomao”. Non è da escludere che anche il nome della figlia Ippodamia, fosse la forma greca con la quale gli elleni indicavano Epona, la matrona di cavalli e cavalieri dei celti.

Un’altra matrona delle acque di origine celtica, che ha lasciato traccia di sé nella cultura greca è stata “Artios”, l’orsa che domina la frana e l’alluvione, che nella mitologia greca diventa Orseide una “naiade”, ninfa delle acque della Tessaglia, quindi una divinità della tradizione pre ellenica, che sposerà Elleno un altro semidio e diventerà madre di Doro Eolo e Xuto, i tre capostipiti delle popolazioni del Peloponneso.

Il matrimonio tra due divinità appartenenti a culture diverse, era lo strumento più semplice, per indurre la popolazione autoctona, ad accettare la nuova casta dominante.

Gli storici ritengono che il toponimo Barcellona Pozzo di Gotto sia stato attribuito alla località durante l’occupazione spagnola, un’ipotesi molto credibile se non fosse che il prefisso “Bar” è caratteristico delle località dove sono presenti delle sorgenti sacre al dio delle acque e della salute Bormanus, chiamato anche Barman e nel territorio di Barcellona, le sorgenti non mancano.

Vi si trovano anche le acque termali, basta citare le frazioni Acqua Calda o Calderà, poste sulle propaggini dei monti Peloritani, una formazione montuosa dove sono presenti rocce di origine vulcanica.

Culturalmente è importante anche la frazione di Acquaficarra, un toponimo derivante da una sorgente situata nei pressi di un fico.

Nella tradizione romana era sacro il “Fico Ruminalis”, votato alla dea “Rumina”, protettrice delle madri che allattavano; la tradizione nasce dal fatto che la lupa avrebbe allattato Remo e Romolo sotto a un fico, in riva al Tevere.

Invece un’altra tradizione a mio parere più credibile, racconta che il fico era nei pressi del Lupercale, una grotta sacra, dove i pastori italici celebravano riti propiziatori per ingraziarsi il dio Fauno protettore delle greggi, il cui animale totemico era la Lupa.

Fauno era una divinità italica tra le più antiche, e la diffusione del suo culto è testimoniata anche dal toponimo “Colle Fauniera” situato nella terra dei liguri cozi, e veniva identificato con forme umane ma con piedi e corna da capra.

Il suo aspetto ed il fatto che i Lupercali si celebrassero a febbraio con la festa della purificazione lo identificano con il celtico Cernunnos.

Quindi il fico rientrava nel sincretismo romano della tradizione greca legata alla “Melissa”, un albero sacro presso il quale i bambini venivano abbandonati, affidandoli alla protezione della dea Melissa, che nella tradizione romana era Rumina, ovviamente i sacerdoti li raccoglievano e si occupavano di loro, quindi un’usanza continuata anche nella tradizione cristiana, con la ruota posta agli ingressi di chiese e conventi.

Pertanto nella realtà Faustolo era un sacerdote del Lupercale, mentre la lupa che ha allattato i gemelli era Acca, che come dice il nome, si trattava una medium muta, usata dai sacerdoti per comunicare con la dea, e per questo chiamata Lupa, la quale con le altre femmine del tempio si occupava dei bambini più piccoli.

Ma Pozzo di Gotto è un toponimo che ci porta a tradizioni ancora più antiche, infatti Gotto non è altro che la corruzione di Grotto, sinonimo pre italico di Grotta, e il riferimento locale è alla Grotta di santa Venera, una martire cristiana che sarebbe nata in Gallia, ma secondo alcuni ad Acireale, nel 100 a.C., ipotesi più credibile se si considera che a quel tempo in Gallia il cristianesimo era quasi sconosciuto.

Tra l’altro sull’esistenza di questa martire esistono solo tracce legate al culto, ma nessuna testimonianza della sua esistenza.

All’interno della grotta sono presenti tracce di un dipinto di epoca bizantina, che raffigurava santa Venera, quindi la grotta è stata usata dai bizantini come luogo di culto, e sicuramente anche in precedenza vi si adoravano divinità pagane come Venere e Afrodite, precedute a loro volta dal culto della Lupa o dalla tradizione dei Pozzi Sacri, caratteristici della Sardegna e della cultura ligure.

Interessante è anche lo stemma del comune il quale sembra simboleggiare l’unione di due comunità i cui simboli sembrano rievocare l’orine antica dei due toponimi; infatti nel primo campo appare un pozzo sormontato da un’aquila con le ali spiegate, il quale simboleggerebbe una località fondata dai romani attorno a un pozzo mentre nel secondo campo appare un uomo nudo e barbuto, seduto sulla riva di un ruscello che versa nel rigagnolo l’acqua contenuta in un orcio, mentre alle sue spalle si notano due colline.

Questo campo sembra raffigurare una sorgente sacra a Bormanus, le cui acque scendendo dai monti affluiscono in un corso più importante, quindi l’uomo barbuto sarebbe Bormanus, il quale darebbe il nome a Barcellona.

Infine nel campo inferiore appaiono due mani che si stringono, con maniche una rossa e l’altra blu, un chiaro simbolo di due località che si congiungono in un’unica amministrazione.

Tra i torrenti del luogo si può citare l’Idra, idronomo diffuso in tutta Italia forse originato dal messapico Odra, sinonimo di acqua che potrebbe essere il nome di una divinità fluviale pre ellenica, i messapi erano gli antichi messeni (minoici) migrati in italia durante l’età del Bronzo, quando il Peloponneso divenne meta dei micenei, e a loro si deve la fondazione della primitiva di Messina, come testimonia il nome celtico “Briga”, sinonimo di altura, il quale fa riferimento a un torrente e ai due quartieri che attraversa.

Da citare anche il Longano, torrente che prende il nome da un’antica città “Longane”, della quale si sono perse le tracce. Le sorgenti del Longano sono ai piedi del colle Torace una collina di 400 m s.l.m. in cima alla quale è situata la località di Castroreale, dalla quale si domina tutta la spianata marina Di Barcellona Pozzo di Goto, e in particolare il corso del torrente Patrì, il quale scendendo dai monti Peloritani, anticamente costituiva una via di transito che permetteva di attraversare la catena montuosa e arrivare sulla costa Ionica.

Oggi il torrente Patrì chiamato anche Termini, funge da confine ovest tra Barcellona Pozzo di Goto e il comune di Terme Vigliatore, il quale è composto da due località, dove sono presenti delle sorgenti termali di acqua sulfurea, tra le quali spicca la “Fonte di Venere”, anticamente conosciuta dai romani come: “Fons Veneris”.

In realtà il Patrì anticamente era chiamato “Longanos”, e lungo le sue rive nel 296 a.C., tra i siracusani comandati da Gerone II e i mamertini, che allora avevano conquistato Messina, si è combattuta una battaglia chiamata “Del Longanos”, che vide vittoriosi i siracusani.

Qui bisogna sottolineare che il Longanos (Patrì), scendendo da monti Peloritani è alimentato dalla Fiumara di Santa Venera, pertanto lo stemma di Barcellona Pozzo di Goto, con la divinità che svuota l’orcio nel fiume si riferisce al Patrì, e non al torrente Longano che divide Barcellona da Pozzo di Goto.

Questa confusione dovrebbe dipendere dal fatto che si è persa traccia dell’antica Longane, infatti in tutto il territorio di Barcellona Pozzo di Goto, Terme Vigliatore, Rodì, Milici e Pietre Rosse, si sono trovate tracce di insediamenti risalenti all’età del Bronzo e del Ferro, ma in nessuno di questi si sono avute prove che erano la storica Longane. Quindi considerando che il Patrì lambisce il lato ovest del colle Torace, il quale occupa una posizione dominante su tutta la spianata e il passaggio tra i monti peloritani, sono convinto che la mitica Longane sia l’attuale Castroreale.

Infatti il toponimo Castroreale anche se di origine romana, era particolarmente in uso durante l’ epoca Medioevale, che indicava un luogo fortificato, quindi è possibile che in quel periodo Castroreale sia stata costruita sopra i ruderi dell’antica Longane portando così la confusione sulla locazione di Longane e sui nomi dei fiumi. In oltre bisogna considerare che Castroreale come Barcellona Pozzo di Goto è posta sulla riva destra del Patrì, quindi le altre località sopra citate essendo poste sulla riva sinistra, vanno considerate appartenenti a un altro contesto storico, come quello della città di Tindari.

Il territorio di Barcellona Pozzo di Gotto confina a est con il fiume Mela e il promontorio sul quale sorge la città di Milazzo; due toponimi che ci riportano a coloni provenienti dalla città anatolica di Mileto, Millawanda o Milawata per gli ittiti, e soprattutto alla città ittita “Melid”, Melitene per i romani, anche queste erano popolazioni pre elleniche in oltre nella valle del fiume Niceto troviamo le: “Rocche Milia”, una linea rocciosa che delimita la valle dall’altipiano dove è situata Saponara, mentre sul versante ionico dei monti Peloritani troviamo san Pietro Mili, santa Maria Mili e Mili san Marco, mentre lungo il corso del Patrì troviamo la località di Milici, che con la vicina Rodì tradisce l’origine anatolica-caucasoide dei toponimi del territorio.

In Sicilia tra i toponimi che formati con il prefisso “Mil” troviamo anche Sant’Agata di Militello (Messina) e Militello val di Noto (Catania). Nella lingua dei celti (i pre ellenici), mil era il nome del miglio, “milam” in sanscrito uno dei primi cereali ad essere coltivato, da considerare anche il Tritum “Militinae”, una varietà di frumento, quindi dobbiamo supporre che i toponimi con il prefisso “mil” facessero riferimento a una divinità dei cereali, non a caso il fiume Niceto prende il nome dalla ninfa “Nicea”, Nikea per i greci, la quale era figlia di “Sangarius” una divinità fluviale (fiume Sangro), e di Cibele, la Grande Madre di origine anatolica, che i greci hanno identificato con “Rea” figlia di Urano (il cielo) e Gea (la terra), dalla quale sarebbe nata “Demetra”, dea del grano e dell’agricoltura, che gli italici adoreranno con il nome di “Damatira” e i romani come “Cerere” quindi Mil poteva essere una divinità dei cereali primitiva di origine anatolica, poi sostituita con Cerere.

Da ricordare il vulcano persiano Damavand dal quale potrebbe derivare il nnome di Demetra, la quale era invocata anche con il nome di “Malophoros”, “Colei che da mele” o “colei che da greggi”, in realtà potrebbe trattarsi di un errore di traduzione o interpretazione in quanto potrebbe significare: “Colei che porta il miglio” per questo le sue sacerdotesse erano chiamate “Melisse”, quindi Demetra sarebbe il sincretismo ellenico di una divinità anatolica protettrice dell’agricoltura Il legame tra i toponimi del territorio e una divinità dell’agricoltura è confermata anche dal nome dell’affluente più importante del Niceto, il Bagheria un idronomo composto da due radici, molto antiche, già in uso nel proto indoeuropeo e forse nelle parlate del paleolitico, infatti l’idronomo sarebbe originato dalla radice “Bhago”, che per i primitivi aveva il significato di “mangiare”, mentre “Rià” significava “acqua che scorre”, (Andrè Martinet: (L’Indoeuropeo lingue popoli e culture).

In epoca primordiale con Bhago si indicavano gli alberi dai quali si poteva trarre nutrimento, in seguito i nomi degli alberi si differenziarono allo scopo di indicare i frutti più saporiti, tanto che: bhago poi corrotto in “fago”, rimase a indicare il faggio, le ghiande del quale erano frantumate dagli antichi per ricavare farina da impastare, oppure venivano bollite.

Da fago sono derivati nomi di alimenti come fagioli, farro, faggio, pertanto la valle del Niceto grazie all’abbondanza di acqua è sempre stata particolarmente fertile, tanto che nell’antichità era ricoperta da una rigogliosa foresta, nella quale evidentemente primeggiava il faggio un albero che in Grecia non cresceva, quindi era sconosciuto ai colonizzatori ellenici. Anche la valle del Niceto è dominata da una collina sulla quale si erge la località di Monforte san Giorgio, l’ennesimo toponimo medioevale ma che con l’aggiunta del nome di un santo guerriero tradisce la sostituzione di un antico toponimo costituito da un teonimo pagano.

Da citare anche l’origine di Caccamo. Situata su uno sperone di roccia che si affaccia sulla valle san Leonardo Caccamo ha tutte le caratteristiche per essere una città fondata dai cartaginesi, già a partire dal toponimo, il quale secondo molti sarebbe la continuazione del cartaginese “Caccabe”, sinonimo di “Testa di Cavallo”, infatti se osservato dalla valle, lo sperone di roccia potrebbe sembrare una testa di cavallo.

            In oltre nella toponomastica del luogo, tra i vari toponimi che fanno riferimento ai Cartaginesi, probabilmente inseriti nella toponomastica della città con la certezza dell’origine, appare una via “Birsa”, nome del quartiere primitivo di Cartagine, un toponimo che ritroviamo in alcune città fondate dai cartaginesi.

La via Birsa, essendo un vicolo stretto e lungo che collega uno dei punti più alti dello sperone con il duomo di san Giorgio, oltre ad essere sicuramente la via più antica di Caccamo, doveva collegare il quartiere abitato dai signori cartaginesi, chiamato Birsa, con il villaggio abitato dalle famiglie dei mercenari e dei servi.

Infatti i cartaginesi erano una casta di mercanti, che per le guerre si serviva dei mercenari, mentre gli indigeni si occupavano delle altre incombenze, pertanto è certo che nel villaggio erano presenti due comunità.

            Anche il duomo di san Giorgio, costruito dai normanni attorno all’anno mille, ha sicuramente preso il posto di un tempio dedicato a una divinità pagana, in quanto san Giorgio era un santo guerriero uccisore del drago, e per questo molto apprezzato anche dai pagani, per il quale accettavano di convertirsi.

Rino Sommaruga

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Gli Italici

       

Le incisioni rupestri più antiche della val Camonica testimoniano la presenza di una popolazione mesolitica, dalla quale sarebbero discesi i camuni del Neolitico e dell’Età del Bronzo.

 Dopo i primi gruppi di cacciatori africani, in un Italia post glaciale praticamente disabitata arrivano altri cacciatori, accompagnati anche da pastori, si tratta degli scandinavi e degli slavi, appartenenti agli aplogruppi “I1” e “I2” originari dell’India orientale, dopo aver risalito il Danubio al seguito delle mandrie, che forse anche sotto la spinta dei cacciatori si allontanavano dal Mar Nero, le cui acque erano ormai diventate salate, questi cacciatori lasciarono le loro tracce più evidenti nelle grotte della val Camonica, a partile dal 8000 a.C., e che attraversando la quale sarebbero giunti in Val Tellina, da dove poi sarebbero risaliti  verso il passo del Bernina e ridiscesi nell’Engadina, e attraverso il passo del Tonale anche  nel Tirolo, dove hanno avuto accesso alle valli del Reno e dell’Inn e proprio  in Engadina e Tirolo si sarebbe sviluppata la civiltà retica che avrebbe popolato anche la bassa valle del Reno con i Remi, i quali rimanendo isolati in un Europa disabitata hanno continuato ad adorare Camulos, mentre i loro consanguinei padani e alpini si fusero con gli indoeuropei, che giungevano in Italia durante l’età del rame e nelle epoche successive.

Da ipotizzare anche il fatto che i camuni potrebbero essere giunti in Engadina dalla parte opposta, cioè risalendo l’Inn o il Reno, e poi siano scesi in Italia portando con loro il culto di Camulos.

Quando parliamo di camuni, reti e remi, ma anche di altri popoli citiamo etnonimi a loro attribuiti dai romani, i quali ovviamente ignoravano la loro storia e le loro origini, quindi non dobbiamo stupirci se in Belgio, la terra dei galli, fossero presenti popoli portatori di legami genetici con i padani.

Sotto questo aspetto è stato molto intuitivo lo storico greco Polibio, il quale affermava che le popolazioni retiche avevano usi e costumi simili agli etruschi, tanto da sembrare etruschi imbarbariti.

Ci sono voluti più di duemila anni per capire che in realtà erano gli etruschi ad essere reti civilizzati.

In realtà Nelle testimonianze tramandate dalle incisioni rupestri della val Camonica non c’è traccia del culto di Camulos o dei camosci, l’unico animale che appare è il cervo che i celti adoravano come Cernunnos, il dio della fertilità e preda ambita dei cacciatori mesolitici (8000 – 10.000 a.C.).

Comunque, sono certi i contatti tra i padani e i nordici attraverso la val Camonica, l’Engadina e il Tirolo, e quindi esisteva una mescolanza genetica e culturale ancora prima della romanizzazione; quindi, non dobbiamo stupirci se i camuni adoravano una divinità venerata anche dalle popolazioni belgiche.

Ma successivamente in Italia e nell’Europa occidentale inizierà un processo di colonizzazione pacifica da parte di genti originarie della valle dell’Indo e della Persia, che durerà fino all’epoca romana.

Appartenendo tutti alla stessa cultura, questa diventerà caretteristica degli europei, e che oggi viene identificata come cultura “indoeuropea”.

Infatti, già nel V millennio a. C., la valle Padana e l’arco transalpino erano accumunati dalla civiltà delle palafitte, un’usanza totalmente assente nel resto della terra.

È probabile che i palafitticoli fossero una popolazione di origine mesolitica in quanto la posizione e la struttura delle palafitte era tale da evitare le innondazioni e favorire la cattura degli animali per i quali era indispensabile avvicinarsi all’acqua per dissetarsi, quindi già in uso lungo le rive del Mar Nero e poi sommerse con l’innalzamento del livello delle acque.

I nuovi arrivati apparterrebbero alla cultura della Ceramica Cardiale, dei quali si ha traccia a partire     l VI millennio a.C., si trattava di una popolazione originaria della valle dell’Indo, che ha dato inizio a un flusso migratorio che attraversando la Persia, il Caucaso, L’Anatolia, la Grecia e l’Italia, ha colonizzato l’Europa occidentale, portando con se quella che si evolverà nella cultura Indoeuropea.

Si trattava di cacciatori raccoglitori che si distinguevano per l’uso di conchiglie come stampini per decorare la ceramica ma praticavano anche l’agricoltura e l’allevamento, e pur appartenendo a una civiltà evoluta, che sapeva anche navigare, vivevano in grotte artificiali, scavate in devozione alla Grande Madre Terra, dalla quale non volevano separarsi, e a loro si deve la fondazione della città di Matera, famosa proprio per le case scavate nella roccia, il cui toponimo è l’acronimo di “Madre Terra”.

La loro presenza si manifesta In grecia Libano Cipro, Creta, Italia, Dalmazia, Croazia, Francia Meridionale compreso l’arco Transalpino, Spagna Meridionale con tracce in Tunisia, Portogallo Scozia.

Successivamente 4000 a.C., partendo dalla Liguria si sviluppa la cultura dei vasi a bocca quadrata, che non trova riscontri in altre parti d’Europa.

Si tratta sempre di una società contadina, che incomincia a commerciare, e adora una divinità femminile dalla figura molto più aggraziata, rispetto alla Potnia Theron del primo neolitico, mentre sembra apparire la figura del padrone guerriero, tipico della civiltà micenea.

La toponomastica della Padania occidentale e della regione occitana, mi suggerisce un legame con la coeva cultura di Varna, una ricca società pre-micenea che aveva contatti commerciali a vasto raggio.  

Nel terzo millennio tra la val Camonica e la Toscana si diffonde la cultura del vaso campaniforme, alla quale viene attribuita un’origine iberica ma, la più autorevole archeologa, Marija Gimbutas, riteneva che in realtà si trattasse di un’antica cultura indoeuropea proto-celtica originaria dell’Europa centro-orientale, “Vucedol”, Croazia.

Sulla cultura del vaso campaniforme si inseriscono quelle di Remedello (Brescia) e Rinaldone (Viterbo), III millennio a.C.

A supporto delle opinioni della Gimbutas ci sono tre scheletri ritrovati a Remedello che presentano l’aplogruppo patrilineare “I2a1a1”, il lignaggio maschile slavo, presente anche in Germania e Polonia, che assieme al ceppo “I1”, degli scandinavi, identifica le popolazioni pre indoeuropee.

Ma non si può escludere un incrocio di culture, in quanto gli Iberi erano un popolo di antica origine indoeuropea con legami con la precedente cultura della Ceramica Cardiale, dai quali potrebbe essere nata la cultura ligure.

Testimonianza di ciò è l’antica lingua occitana di origine prelatina, parlata in Catalogna, Provenza e Piemonte, con influenze anche nel resto della valle Padana.

All’inizio del secondo millennio la val Camonica era percorsa dai traffici commerciali tra la valle Padana e il nord Europa dei quali se ne sono trovate le tracce nella civiltà di Polada (Brescia), chiamata anche Terramare, diffusa nella pianura padana e sull’Appennino settentrionale,  questa civiltà rientrava nella diffusione della cultura dei Campi di Urne originaria appunto della Germania, che darà poi vita anche alla civiltà Villanoviana, dalla quale grazie ai contatti con i mercanti fenici si svilupperà la cultura etrusca, frutto della civilizzazione di un popolo di cultura retica.

Contemporanea alla cultura Villanoviana è la Civiltà di Canegrate XIII secolo a.C. la quale andrà a fondersi con i leponti (Golasecca), portatori della cultura del ferro, ma anche cercatori d’oro come sembrano dimostrare le aurifodine presenti immediatamente a valle del sito archeologico di Castelletto Ticino (civiltà di Golasecca) nel territorio di Varallo Pombia, un toponimo che con il prefisso var testimonia la presenza di un villaggio fin dall’età del rame.

In val Camonica troviamo tracce del culto di Bormanus con il toponimo Boario, il quale in origine, con ogni probabilità faceva riferimento al torrente Dezzo Decc in dialetto locale.

Boario è un toponimo originato dal teonimo celtico “Bormanus” il dio delle sorgenti e delle guarigioni, con la radice celtica: “Rio” oppure “Rheino”, oppure più propriamente: “Rï”, a indicare l’acqua che scorre, in quanto le acque delle sorgenti confluivano in questo torrente divenuto quindi il “Fiume di Bormanus”.

            Oltre alle quattro sorgenti di Boario, nel rio di Bormanus confluivano anche le acque di una sorgente posta sui primi contrafforti del monte Altissimo in località Gorzone, e le sorgenti delle Terme di Angolo.

            In particolare Gorzone, a sua volta è un toponimo composto da due radici celtiche, “Gora”, sinonimo di sorgente e Zone”, che individuava un recinto, quindi Gorzone come sinonimo di “Sorgente Recintata”, pertanto il toponimo individuava una sorgente sacra a Bormanus, e per questo recintata.

            Ciò è confermato anche dal secondo nome della località: “Sciano”, ormai caduto il disuso, il quale contiene la radice persiana “Scià”, sinonimo di re.

            Infatti un primitivo “Sciàa”, potrebbe essere stato tramandato nella forma dialettale “Scian”, e italianizzato in “Sciano”.

            A conferma della sacralità del monte Altissimo a 900 metri di quota troviamo il piano di Borno con l’omonima località, per tanto possiamo concludere che il nome della montagna Altissimo sia stato un vezzeggiativo rivolto dal popolo al dio, in segno di riconoscenza per l’abbondanza di acqua con la quale li nutriva.

            Da segnalare di fianco al monte Altissimo anche il monte Pora certamente sacro a Retia Pora la grande madre del popolo retico, ai cui piedi giace il Colle Varena, il quale con ogni probabilità simboleggiava Varuna, il figlio primogenito e partenogenetico della dea.

Anche in val Tellina troviamo una testimonianza legata al culto di Bormanus, con le terme di Bormio, tra le quali spicca la sorgente Cepina nel comune di Valdisotto (alta Valtellina) un idronomo che richiama la divinità anatolica delle sorgenti: Kephisos, giunto in Italia con i portatori della cultura del ferro, dal quale prende nome il: “ceppo” lo strato roccioso dal quale sgorgano le acque. Polibio e Plinio il Vecchio indicavano la Calabria con il nome di “Cocynthos

Kokynthos in greco, due toponimi che i linguisti definiscono pre Indoeuropei e non sono in grado di tradurre. In realtà il toponimo Kokynthos sarebbe molto affine a Zakynthos un’isola ionica oggi chiamata Zante, la quale deve il suo nome al mitologico Zakynthos, quindi la radice “kynthos mi fa pensare a un nome tribale risalente all’epoca della Ceramica Cardiale.

Una conferma ci potrebbe arrivare dal toponimo Cosenza, la quale sarebbe stata fondata sopra a un villaggio antico chiamato: Kos, o Kossa, che secondo alcuni diventeranno la base dell’indoeuropeo grotta o caverna, quindi si può pensare anche a un villaggio primitivo, che come Matera era scavato nel tufo, il lemma sarebbe poi corrotto per difetto di pronuncia dall’italico fossa e dal lombardo foss.

Da considerare che anche Gravina è un altro etimo pre indoeuropeo, del quale non si conosce il significato antico, ma che oggi indica una fossa all’interno della quale i neolitici hanno scavato le loro case.

Durante l’età del bronzo in Italia giunsero altri popoli, mentre le conoscenze attuali ci portano a considerare gli “enotri”, come il popolo italico più antico, i quali potrebbero anche essere i discendenti dei Kokynthos, ma in ogni caso la loro presenza è attestata solo all’inizio dell’età del ferro, quando dall’Anatolia e dalla Grecia ci fu una migrazione di massa provocata da una carestia e dall’arrivo degli elleni.

Sul significato del toponimo “Enotria”, si può fare riferimento al sanscrito “Eno”, sinonimo di fiume come prefisso, mentre la radice “otri” potrebbe derivare dal latino “Uter”, sinonimo di utero, con riferimento al canale e al mare Adriatico che simboleggiano un utero, oppure dal greco “oythar”, corrispondente a seno o mammella ma soprattutto al sanscrito “aothra”, sinonimo di scarpa, come appare il territorio abitato dagli enotri, quindi dobbiamo supporre che anche loro appartenessero alla cultura indoeuropea.

La mitologia greca cita: Anio, figlio di Apollo e re di Delo, il quale aveva consacrato a Dionisio le tre figlie: Eno, Elaide e Spermo, le quali erano chiamate Oinotrope o le Vignaiole, in quanto Dionisio le dotò del potere di trsformare in vino, olio e grano tutto quello che toccavano, quindi è ipotizzabile che gli enotri si identificassero come figli di Eno, non a caso eno è il prefisso di molti sostantivi che si riferiscono al vino.

Il dubbio che allora ci fossero dei cartografi in grado di disegnare in modo perfetto la forma della nostra penisola, e il prefisso Eno”, mi fa pensare a un significato diverso, forse il toponimo Enotria poteva indicare la “Terra dei Tre Fiumi”, o forse da una pronuncia più arcaica, Eno poteva indicare il “Mare” quindi “Terra dei Tre Mari”.

Si potrebbe considerare anche il messapico “Odra”, sinonimo di acqua, in questo caso si avrebbe “Enodra”, con il significato di: “Fiume di Acqua”, non avrebbe senso, a meno che: uno dei due sostantivi non sia il nome di una divinità delle acque, pertanto andrebbe inteso come “Fiume di Odra” oppure” “Acqua di Eno”.

Eno potrebbe essere anche un sinonimo del greco “Eri”, derivato da “Eris”, quindi tanto Eno che Eri potrebbero essere un riferimento a una divinità delle acque, forsr la figlia di Anio che trasformava l’acqua in vino.

L’Enotria ci porta alla località di Otranto, un toponimo che potrebbe fare riferimento all’otre, è la città più orientale d’italia, la quale si affaccia sull’omonimo canale marino, e che come il resto della Puglia, era abitata dai Messapi, una popolazione pre ellenica proveniente dalla Grecia, e a loro è dovuta l’origine del toponimo Otranto, originato appunto dal messapico “odra” sinonimo di “acqua”, da cui il nome in greco classico “Hydroùs”, e in latino “Hydruntum”, mentre il torrente che divide in due la città, dandogli l’aspetto di due località riunite, era chiamato Hydrus oggi Idro.

Infatti sulla fondazione di Otranto, si può pensare a due insediamenti separati dal fiume, in quanto, al territorio di Otranto oggi appartiene anche “Punta Palascia”, ora Capo d’Otranto, mi sembra evidente che in quel luogo sono sbarcati anche i palaici i quali in seguito porteranno il culto di “Etna” in Sicilia.

Dall’idronimo idro hanno sicuramente origine i nomi della città di Atri nel Molise, Adria nel Polesine e del mare Adriatico.

Infatti il nome Adriatico è composto dalle radici greche Hydrus, e “Attikòs”, che significa appartenente all’Attica, ma anche attiguo, o attilato vale a dire “Mare Stretto”, ma bisogna anche considerare che Atene era la capitale dell’Attica, e pertanto bisogna prendere in considerazione anche la sua divinità principale: “Athena”, quindi: “Acqua di Athena”.

L’idronimo Idro lo troviamo anche in Slovenia, nei pressi di Caporetto, si tratta di un paesino attraversato dall’omonimo fiume, ed anche in provincia di Brescia, con il lago d’Idro, chiamato anche “Eridio”.

Ma tra le divinità adorate dai messapi e dagli eridani andrebbe inserita anche “Eris”, la dea della discordia degli elleni.
Infatti la dea assunse questa entità dopo aver lanciato la mela della discordia, che portò la lite tra: Hera, Athena e Afrodite, una contesa che richiese il giudizio di Paride e causò la guerra di Troia.

Il motivo della provocazione fu il mancato invito della dea al matrimonio di Peleo e Teti (futuri genitori di Achille), al quale parteciparono tutti gli dei dell’Olimpo.
Quindi se al matrimonio di Peleo e Teti parteciparono tutti gli dei dell’Olimpo, significa che Eris era una divinità appartenente a una cultura pre ellenica e probabilmente era stata ripudiata dalla gente.

Infatti il nome di Peleo, ci dice chiaramente che il re della Tessaglia, non era un elleno, ma un pelasgio, il quale sposando Teti figlia di Zeus avrebbe dovuto essere un adoratore del suocero, Ma al tempo di Peleo e della guerra di Troia il mondo greco era dominato dai micenei il cui dio era Poseidone mentre gli elleni Zeus e gli dei dell’Olimpo erano ancora di la da venire, quindi appare evidente il tentativo dei teologi elleni di accomunare una divinità dei pelasgi al culto di Zeus.

Nella mitologia greca, secondo alcuni Eris era la sorella minore di Ares, altri gli attribuiscono origini diverse come figlia di Zeus o Hera, ma concepita come Athena, vale a dire senza accoppiamento.

a Eris viene attribuita anche la maternità della dea del fiume Lete, il fiume dell’oblio.

L’esistenza di una divinità delle acque chiamata Eris è confermata anche dal nome dell’Eritrea, “Eritriyà”, in sanscrito, “Erythros”, in greco antico, che significava “Mar Rosso”, quindi Eris era sicuramente una divinità delle acque.

Ricordiamo che le rive nord occidentali del Mar Rosso sono state colonizzate dai caucasici per ben due volte la prima: novemila anni fa, la seconda nel II millennio a.C. e non a caso, nella lingua egizia “eri”, aveva il significato di inondazione.

In conclusione considerando che come il nome di Danae Eris aveva numerosi significati, sempre relativi all’acqua, si può affermare che Eris era la stessa entità di Danu, alla quale però era stato attribuito un teonimo tribale, o comunque non vedico.

Durante l’età del bronzo, le prime popolazioni ad insediarsi in Italia, provenivano dalla Tessaglia, una regione composta da numerose ed ampie vallate situate a sud della Macedonia e del monte Olimpo, le quali sbucano nel golfo di Salonicco.

Le due popolazioni pre minoiche più antiche, che sembrano originate dalla stessa etnia, la cui presenza in italia è citata nella mitologia greca, sono i lapiti, popolazione estremamente civile, composta da agricoltori e da grandi domatori di cavalli, e i centauri, pastori montanari barbari, i quali entreranno nel mito come uomini metà cavallo, per il fatto che non scendevano mai dal proprio cavallo, nemmeno in combattimento, ed è proprio grazie a questa abilità, che Nesso, nonostante sia ferito mortalmente, riesce a sfuggire alla furia di Ercole, il quale combattendo a piedi non poteva inseguire l’avversario.

Questa abilità nell’allevare i cavalli e di cavalcarli, unite alla posizione geografica della Tessaglia, un territorio interessato dai flussi migratori provenienti dal nord est, mi fanno pensare a popoli provenienti dalla steppa Caucasica, luogo dove i cavalli furono addomesticati prima del secondo millennio a.C.

Nel corso del II millennio a.C., queste popolazioni primitive migrarono dalla Tessaglia a causa dell’arrivo delle prime popolazioni elleniche, che li spinsero verso l’Albania e poi in Italia.

A testimonianza del loro arrivo in Italia sono sopravvissuti toponimi come: Riva dei Tessali, e Castanea, continuazione del nome di un’antica città della Tessaglia, che nel medio evo diventerà: Castellaneta (Taranto).

Secondo Strabone i tessali primitivi fondarono Ravenna, che in seguito avrebbero ceduto agli umbri, per poi scomparire dalla storia, probabilmente assorbiti dai nuovi arrivati; potrebbe trattarsi dei rasna o rasenna, i Villanoviani che si sarebbero associati con i fenici fondando la civiltà etrusca.

Altri toponimi tessali che sembrano continuare la tradizione pre ellenica li troviamo anche nel territorio dei liguri, sono “Angeia” con riferimento ad Angera e: “Antron”, forse la valle Antrona sempre sul lago Maggiore.

L’epoca dell’arrivo in Puglia dei proto tessali, coincide con l’arrivo degli Japigi popolazione di identica origine, così chiamati dagli storici greci perché ritenuti discendenti di Japige figlio di Dedalo.

Gli Japigi, anche loro grandi agricoltori e allevatori di cavalli, si mescolarono con le popolazioni indigene formando varie tribù come i Dauni è i Peucezi, le quali vivevano nelle attuali province di Foggia e Bari, in seguito i romani li chiameranno Apuli e Apulia la terra dove vivevano, forse perché adoratori di Apollo.

Lapiti e Japigi, sono due etnonimi che hanno una forte affinità etimologica, che però non riesco a ricostruire; per i lapiti la radice piti e la loro provabile origine scita, mi fanno pensare ai pitti, in particolare la radice sembra riferirsi al greco “pityron” sinonimo di crusca, termine usato dai greci per indicare la “pitiriasi” una dermopatia che produce arrossamento e successiva desquamazione della pelle, una patologia che colpisce soprattutto le persone dalla carnagione più chiara.

Nel nome degli japigi invece troviamo due radici che hanno lo stesso significato, il greco “ìambos” sinonimo di “battuta”, di spirito o di piede, usata nella metrica musicale.
Da ricordare l’inglese “Jump” (pronuncia giamp), sinonimo di salto.

Il prefisso “ja” se originato da “jambos” sarebbe assimilabile al gallico “jamboo” sinonimo di coscia, continuato ancora oggi dal dialetto lombardo e dalla lingua francese.
Pigi a sua volta è un palese riferimento al verbo pigiare, derivato direttamente dal greco “pigio” “pigis” al plurale, un riferimento alla gamba che pigia, quindi un sinonimo di battuta, forse si trattava di quei lapiti che inizialmente si lasciarono sottomettere dagli elleni, e poi giunti in Italia come lavoratori.

Curiosamente nei pressi di Porto Cesareo, non lontano da riva dei Tessali, c’è una località chiamata Punta Prosciutto, un caso o un retaggio del passato?

Considerando che erano abili cavalieri provenienti dal nord est, si può supporre che gli japigi indossassero le brache in pelle, un indumento molto utile nel cavalcare senza sella, quindi possiamo pensare anche al persiano “päy jamè”, il quale significava: “vestito da gamba”, poi diventato “pigiama”, considerando la grande affinità di usi e costumi, tra i persiani le popolazioni pre elleniche, accomunati da usanze caucasiche, possiamo pensare che gli elleni, essendo di origine siriana e cultura semita, li distinguevano proprio dal fatto che portavano il päy jamè .

Sicuramente gli elleni nel vedere degli uomini che cavalcavano con indosso delle brache di pelle, potevano essere vittime di un effetto ottico, che li portava a vedere un tutt’uno di cavallo e cavaliere, per la fortuna dei cantastorie, i quali trovavano nei centauri ampia materia per il loro sensazionalismo.

Sembra che gli japigi parlassero la stessa lingua e avessero la stessa origine etnica dei messapi, dei calabri e dei salentini, popoli che vivevano più a sud, praticamente nel territorio dove sbarcarono i Lapiti.

A conferma del legame dei messapi dell’età del bronzo con i cavalli, alla periferia di Lecce, si trovano le tracce di una loro importante città chiamata Cavallino, mentre di quel poco che si conosce sulla loro religione, sembra che nei sacrifici cultuali usassero bruciare un cavallo vivo. Ciò trova riscontro nella cultura paleoveneta nella quale è attestato il culto di Nettuno, al quale venivano sacrificati i cavalli, come attestato a Oderzo, un culto celebrato anche ad Altinum, località situata nei pressi della Cavallino veneta.

In particolare voglio citare i calabri, una popolazione che solo in seguito si insediò nella regione che oggi porta il loro nome, in quanto l’etimologia del loro etnonimo è interessante, perchè il loro nome greco “kalabros”, significa: “scendono dai monti”, infatti secondo i linguisti “kala” (scende) sarebbe un verbo di origine italica, poi adottato anche dalla lingua ellenica, mentre “bros”, è originato dal greco “òros”, sinonimo di monte.

In Calabria esisteva un fiume e relativa divinità chiamati appunto Kalabros, dei quali si è persa la memoria, l’unico ricordo è rimasto il nome della sorgente chiamata “Lika”, situata in Lucania, la quale farebbe pensare a una divinità da mettere in relazione con la Lucania stessa, e ai luvi o luky, ma anche a Lykoreia e a likos, sinonimo di lupo o licaone, quindi poteva essere una sorgente sacra ad Apollo.

Si potrebbe anche considerare che nella lingua celtica lika significa “pietra”, e quindi ipotizzare che la sorgente fosse situata sul monte “Petricelle”, sul quale sorge il fiume “Esaro”, il cui idronomo è affine al toponimo Pesaro, la quale è bagnata dal fiume “Foglia”, anticamente chiamato “Isaurus”, dal quale deriva il nome di Pesaro: “Pisaurus”, da considerare anche l’Isarco in alto Adige, “Isarus o Isarcus”, in latino, e il fiume francese “Iserè”, Isara in latino.

Lungo il corso dell’Esaro sono stati ritrovati i resti di un centro termale risalente all’epoca romana, quindi posiamo pensare che anticamente le acque dell’Esaro erano considerate curative, pertanto la sua sorgente era considerata più importante di quella del Crati, il quale pur avendo una portata d’acqua maggiore era considerato un suo affluente, quindi Kalabros era il nome di un fiume che sorgeva sul monte Petricelle allora chiamato Lika (Pietra).

Da considerare che l’idronimo Crati deriva da cratere, il che rispetta l’aspetto della piana di Sibari, un ampio terrazzo tra i monti, che allora poteva essere paludoso, con il fiume Esaro che sfociava direttamente in mare o in una palude.

I linguisti attribuiscono al prefisso “Is”, un’origine primitiva, usato nella formazione di idronimi che indicavano fiumi che scorrono su pendii ripidi.

Anche Vibo Valentia ha un nome antico di origine vitula-bruzia “Hipponion”, un toponimo nel quale troviamo la radice greca “hippo”, sinonimo di cavallo e il celtico “nion” che indica il frassino, albero sacro a Poseidone, dio del mare, ma anche dei cavalli, come la celtica Epona, anzi, etimologicamente Hipponion potrebbe essere la forma greca per indicare un luogo sacro proprio ad Epona, a dimostrazione che la cultura italica era celta.

Ma a questo punto si può anche mettere in discussione il toponimo moderno, in quanto Vibo Valentia fa riferimento a due località distinte, “Vibona”, in riva al mare e Valentia sulla collina. Infatti, constatato la presenza del culto di Epona, la dea dei cavalli, che compie anche la magia di far galleggiare le cose, si può concludere che “Vibona” sia una corruzione di Epona o un epiteto rivolto alla matrona dei celti, conseguentemente anche “Valentia”, non sarebbe un titolo onorifico attribuito dai romani agli abitanti della collina, per

la loro fedeltà durante le guerre puniche, ma un toponimo generato dalla cultura ligure, come le varie: Valenza, Valencia, Valence, Valenciennes, ecc.

Ma non posso escludere che il culto di Epona sia stato introdotto dai coloni romani, i quali avevano adottato la dea celtica come protettrice di cavalli e cavalieri, e bisogna considerare anche i mercenari liguri al servizio dei cartaginesi, i quali dopo la fuga di Annibale, potrebbero essersi insediati sulle alture appenniniche.
A Vibo Valentia, sempre nei pressi del mare troviamo anche la frazione di Bivona, una provabile duplicazione del sito sacro ad Epona.

Bivona è un toponimo che troviamo anche in Sicilia, nella provincia di Agrigento, e che secondo alcuni sarebbe un dubbio riferimento alla città greca di Hipponium, fondata da Gelone tiranno di Siracusa, ma sempre nei pressi di Bivona, si cita anche una località indigena: “Hippana”, situata sulla cima dei monti dei Cavalli.

La presenza di popolazioni pre elleniche in Puglia e Basilicata si può riscontrare anche nella toponomastica del golfo di Taranto a partire da Riva dei Tessali nel comune di Castellaneta Marina, mentre più in alto abbiamo Palagiano e Palagianello che ricordano l’antica presenza dei Palaici.

Taranto con il suo Mare Piccolo sembra simboleggiare la vagina di una dea e il suo nome Messapico “Taras”, sembra derivare dal nome del suo fondatore, un mitico condottiero figlio di Poseidone e di Satyria una ninfa delle acque la quale in origine era una divinità importante, infatti il fiume “Tara”, che sfocia nel Mare Piccolo, con il toponimo Taranto mi fanno pensare all’idronomo gallico di un fiume della Galizia chiamato appunto Tamara, una probabile corruzione di Samara, una divinità delle acque preistorica VI millennio a.C. Quindi Poseidone è la solita sovrapposizione ellenica a una divinità primordiale, in oltre Tara potrebbe essere una corruzione del teonimo Thera, la “Madre Terra”, quindi dobbiamo supporre che il mito tramandato vocalmente sia stato profondamente corrotto.

Da citare la collina irlandese di Tara, un’altura sacra, dove venivano incoronati i re d’Irlanda, sulla quale è conservata la “Pietra del Destino”, il simbolo religioso più importante prima della cristianizzazione.

Da ricordare anche “Tarabara”, il nome di una frazione del comune di Albizzate (Va), dove la presenza di un santuario dedicato alla Madonna della Purificazione, in riva al fiume Arno, e la toponomastica (via delle Cerelle), fanno pensare alla presenza di un altare antico, sul quale si compivano sacrifici in onore di Proserpina la figlia di Cerere, che in primavera ritornarva tra i vivi per far rifiorire la natura e alla fine del raccolto rientrava nel mondo dei morti dal marito Plutone.

Tra i messapi questi sacrifici erano compiuti da una sacerdotessa chiamata “Tabaroas”.

I romani celebravano il “Mundus Cereris”, durante il quale aprivano una buca sacra che collegava il mondo dei vivi con quello dei morti per favorire il ritorno di Proserpina dal marito “Pluto”, e vi gettavano delle offerte destinate al dio dei morti.

Questa tradizione mi fa pensare che esistesse anche la buca sacra per favorire l’arrivo di Proserpina tra i vivi pertanto la via delle Cerelle collegava le due buche sacre, simboleggiando il passaggio della Cerella nel mondo dei vivi.      

Cerella era l’epiteto latino della primavera, con il quale i romani chiamavano Proserpina, in quanto figlia di Cerere.

Taras, potrebbe essere una divinità taurina proveniente dai monti Tauri o dal Kersoneso, (Tauride), come sembrano dimostrare le isole Cheradi, poste di fronte a Taranto e che bloccano l’accesso alla baia.

Infatti il nome greco delle isole era “Choirades”, sinonimo di corna, ma anche “Elektriches”, per la presenza abbondante di ambra (elettro), mentre l’isola più grande: oggi San Pietro, era chiamata “Phoebea”, sinonimo di luminosa, in onore di Artemide, sorella di Apollo “Phoebeo”, si tratta di una prima sovrapposizione a un culto femminile primitivo, al quale seguirà quella cristiana medioevale di santa Palagina una santa siriana del III secolo d. C., il cui nome richiama l’etnonimo dei Palaici, e della quale mancano vere testimonianze sulla sua esistenza, tanto è vero che, in seguito il suo nome fu sostituito con quello molto più attendibile di: san Pietro.

Mi sembra abbastanza plausibile il fatto che dove si adorava una dea madre, si venerasse anche un dio della fertilità.

L’isola più piccola era chiamata “Elettra”, ma essendo l’elettro (ambra) una resina degli abeti, mi sembra più logico pensare a una dea madre, in quanto a quei tempi i gioielli in ambra erano molto più preziosi di quelli in oro, per via del fatto che l’ambra era prodotta dall’albero sacro alla Grande Dea Madre, e sulle isole Choirades di questi gioielli ne sono stati trovati molti.

Le Elettra della mitologia sono due, una è un oceanina figlia di Poseidone, la ninfa dell’acqua che zampilla, mentre la seconda era figlia di “Atlante” un’altra divinità pre ellenica, declassata a “Titano”, e amante di Giove, dal quale concepì Dardano, uno dei mitologici re di Troia, quindi la figlia di Atlante era un altra alter ego di una divinità palaica (Palagina), introdotta nel contesto ellenico, mentre il padre pre ellenico di Dardano sarebbe stato Vindonnus, la massima divinità dei dardani.

Altri toponimi di origine pre ellenica presenti a Taranto, che collegano culturalmente i suoi fondatori con i padani primitivi sono: Punta Pennino e Punta Pizzone.

Dopo queste prime migrazioni che hanno interessato il territorio degli enotri e dell’attuale Albania, una traccia importante di questo evento è il nome di una tribù illirica chiamata Albanoj, la quale era stanziata nell’entroterra di Durazzo, un etnico dal quale deriverà il nome dell’attuale nazione albanese.

Dall’Albania e dall’Enotria il flusso migratorio continuerà seguendo le coste adriatiche dell’Italia e della penisola balcanica, fino alle rive della Manica e del Baltico, dove in seguito i proto albanesi si scontreranno con gli arii che scendevano dal nord, fondendosi con i quali daranno vita all’etnia gallica.

In Italia oltre alle culture già citate, fonderanno la mitica Albalonga, ma una traccia significativa del loro passaggio, la troviamo anche nel nome di Alba Adriatica, infatti il nome della località marina è originato dalla maestosità della “Montagna dei Fiori”, un monte che, specie quando è innevato, a chi arriva dal mare, appare imponente tra le colline che lo circondano.

Una visione che agli albani ha ricordato certamente le maestose montagne del Caucaso, e non a caso la regione circostante prese il nome di “Abruzzi”, in quanto le montagne abruzzesi essendo le più alte ricordavano agli albani i monti Elburz, ai piedi dei quali avevano vissuto i loro antenati.

Ovviamente considero i due toponimi moderni come derivati da un unico nome primitivo.

Anche il nome della colonia romana “Alba Fucens”, non è altro che la continuazione di un toponimo albano già esistente sull’altipiano del Fucino.

A testimonianza del legame etnico tra gli albensi primitivi e gli illiri si può citare la fondazione di Truentum alla foce del Truentus (Tronto) da parte dei liburni, popolo di marinai illiri, stanziato tra l’Istria e la Dalmazia.

L’idronimo Truentus è una forma latina che indica un fiume sacro a “Druantia”, la regina dei druidi e dea madre, mentre più a nord del Tronto troviamo il torrente Tesino, che i romani chiamavano Tessuinum.

L’idronimo Tessuinum e la presenza dei liburni, mi portano a considerare toponimi come: Teschen, la città divisa in due tra Polonia e Cecoslovacchia, i toponimi altoatesini: “Tesero, Tèsimo (ted. Tisens) e Tesino, valle del torrente oggi chiamato: Grigno, come originati dal nome della divinità caucasica Teshup, alias Taru, Tarhun, e Taranis, conseguentemente, a questi teonimi oltre a quello del Tanaro, va associata anche l’origine dei nomi del Ticino e del Taro.

Ma se il culto di Epona arriva dalla Tessaglia, non si può escludere che il nome del Ticino sia legato a quella regione.

I liburni con gli istri, i dalmati e i carni diedero vita alla civiltà dei castellieri che interessò anche il Veneto, il Friuli e la Julia, in pratica si trattava della continuazione del megalitismo pelasgico o kurgan (L’Altamura dei Messapi), che si manifestava nella fondazione di villaggi fortificati con pietre.

La presenza dei pelasgi o albani nella zona di Alba Adriatica, è testimoniata anche da ritrovamenti archeologici avvenuti nel territorio di Tortoreto, e lungo le rive del fiume Salinello, dove è attestata l’esistenza di villaggi fin dall’età della pietra, in particolare merita di essere citata la cultura di “Ripoli”, IV mila a.C.

Ma Tortoreto esisteva già in epoca romana, con il nome di “Castrum Salini”, quindi un villaggio fortificato la cui origine è collegabile alla cultura dei castellieri.

Il toponimo Castrum Salini deriva dalla presenza alla foce del Salinello, di un villaggio chiamato “Ad Salinas”, per via delle saline presenti lungo le rive del fiume, che anticamente i piceni chiamavano “Helvinus”; sinonimo di giallo o giallastro, o “Serinus” nome di una famiglia di passeriformi dal colore giallo come il canarino o il verzellino.

Premesso che per effetto di fenomeni elettrolitici causati dalle particelle elettriche presenti nell’aria, i depositi salini possono assumere una colorazione gialla o rossastra, bisogna considerare che nel fondare nuove città, gli antichi italici traevano gli auspici dal volo degli uccelli, seguendo una tradizione chiamata “Primavera Sacra”, in base alla quale i figli minori, consacrati guerrieri, formavano nuovi clan, e fondavano nuovi villaggi, nei luoghi dove l’uccello totemico prescelto costruiva il proprio nido.

Con ogni provabilità secondo gli intendimenti umani di allora, gli uccelli con il loro volo si avvicinavano agli dei, e perciò erano in grado di percepire i loro comandi, pertanto gli uomini nel scegliere i luoghi dove fondare nuove città si ispiravano al volo degli uccellini appena svezzati, i quali abbandonavano il nido materno e andavano alla ricerca di un luogo dove costruire il proprio.

Infatti secondo la tradizione, l’etnonimo piceni ha origine da una primavera sacra dei sabini, durante la quale un nuovo clan si insediò lungo il versante Adriatico dell’Italia centrale, traendo l’indicazione dal volo di un giovane picchio verde (Picus viridis), che diede origine all’etnonimo dei piceni e divenne il loro uccello totemico.

In particolare si può ipotizzare anche un possibile collegamento culturale dei piceni con gli abitanti della valle Seriana, che con il suo fiume Serio e il passo del Serio, dalla provincia di Bergamo ci introducono nella terra dei reti, poi divenuti elvezi.

Da aggiungere anche la val Serina, il monte Alben, il fiume Albina, il quale sorge sull’altipiano di Selvino (Helvinus ?), e confluisce nel Serio nella città di Albino.

Quindi sull’origine del toponimo Tortoreto si può ipotizzare anche la presenza di un villaggio fortificato dei reti poi divenuto Castrum Salini con la romanizzazione.

Anche Roma venne fondata in primavera, dopo l’auspicio di un volo di avvoltoi, un volo nefasto, mi verrebbe da dire, che tra l’altro sarebbe stato favorevole a Remo, ma l’interpretazione degli auspici toccava ai sacerdoti, i quali erano ben consapevoli della mediocrità del personaggio; ma nell’iconografia di allora, la lupa che allatta i gemelli sotto al Ficus Ruminalis, veniva sempre ritratta in presenza di un picchio.

Come ho già detto il prefisso var è diffuso in molti toponimi dell’Italia settentrionale e della Francia meridionale, dove durante l’età del rame era diffusa la cultura ligure.  

      Innanzi a tutto possiamo citare la val di Vara con l’omonimo fiume e la sua città più importante, Varese Ligure, si tratta di una valle che risale la montagna fino al passo “Cento croci”, dove si congiunge con la val di Taro (Taranis? Un dio del tuono), che la collega con la pianura Padana, tra Parma e Alessandria, quindi un passaggio obbligato per le merci che andavano o arrivavano dal nord; in val di Vara è da citare anche la località di Cassana, un altro riferimento alla quercia, facente parte del comune di Borghetto Val di Vara, sicuramente un antico villaggio fortificato.

       Oltre alle solite caratteristiche incisioni che facevano riferimento al sole e al toro, la val di Vara è dominata dal monte Penna, dove oggi troviamo un santuario consacrato alla “Madonna della Penna”, una sovrapposizione cristiana a un luogo sacro al dio ligure “Penninus”, il quale assieme al celtico “Albiorix” e all’umbro “Summano”, erano divinità delle vette.

       Successivamente, Summano “colui che sta in alto”, dopo un periodo di transizione, durante il quale veniva considerato come una manifestazione di Giove, venne adottato come dio delle vette anche dai romani.

      Il passo delle Cento Croci è dominato dal monte “Dragnone”, sul quale la costruzione di un tempio Mariano ha cancellato le tracce di un luogo di culto ligure, sempre in val di Vara, sulla cima del monte Zignago, sotto il pavimento di una torre medioevale è stato ritrovato un fondo di capanna senza focolare, il fondo era in argilla battuta, dello spessore di trenta centimetri con al centro un foro di venticinque centimetri di diametro, che scendeva fino a toccare la roccia sottostante, nel foro era inserita un’olla rovesciata databile attorno al VIII secolo a.C., che conteneva ghiande abbrustolite, con tutt’intorno cocci di anfora conficcati verticalmente nel battuto di argilla. (I Liguri e la Liguria B.M. Gianattasio).

         Tra le montagne sacre della Liguria possiamo mettere anche il monte Ceppo, la cui altezza supera i 1600 m. il toponimo è sicuramente originato dal teonimo Kephisos, il dio luvico delle acque, forse giunto in Italia con la cultura del ferro.

      Sulle pendici del Monte Ceppo non si segnalano ritrovamenti archeologici, ma il capoluogo del territorio Bajardo (900 m s.l.m.) è indicato come centro abitato già nel 1000 a.C.  Bajardo potrebbe essere la corruzione di “Bajadera”, nome sanscrito delle danzatrici sacre, le quali si esibivano nei templi in onore degli dei, Essendo il paese situato su di un’altura davanti al monte Ceppo, si può arguire che la bajadera danzasse in onore di Kephisos”, il dio delle sorgenti.      

            Da citare il monte Ebro sicuramente sede di un gurù molto importante, un’ipotesi suggerita dal fatto che la montagna domina la valle “Curona”, il cui nome non è altro che la cristianizzazione di un toponimo ligure, il quale indicava la valle del Gurù.

            Da considerare anche l’omonimia con il fiume iberico Ebro, e l’affinità etimologica con il nome del El’brus la montagna più alta del Caucaso.        

             Un altro luogo sacro della Liguria è Varazze, il cui nome dialettale è “Varase”, non è altro che la continuazione di Varese, situata ai piedi un altipiano dominato dal monte “Beigua”, un’altra montagna sacra, ricca di incisioni rupestri, anche qui abbiamo una valle che risale verso i facili passi collinari, per poi scendere tra Alessandria e Pavia.

Pietra Ligure trae il suo nome principale Pietra dall’indoeuropeo “carn” sinonimo di pietra e dal fatto che la città sorge ai piedi del monte Carmo altro toponimo originato dalla radice carn, si tratta di una montagna che per le sue dimensioni domina un vasto territorio, dalla cima della quale, nelle giornate limpide la visuale arriva fino alla Corsica.

Le sue dimensioni e l’abbondanza di sorgenti che sgorgano dalle sue falde, lo hanno reso sicuramente un monte sacro a una divinità identificata con le pietre come poteva essere il ligure Gramnos adorato dai coti, ma anche Bormanus al quale era sacro il fiume Bormida la cui sorgente del ramo di Millesimo, è posta sulla Rocca Barbena, situata sul versante Nord-est del monte Carmo.

Del gruppo del Carmo fa parte anche il monte Varatella, un altro toponimo con il prefisso Var a indicare l’antica origine vedica, sulla cui cima troneggia l’abazia Benedettina di San Pietro in Varatella, in memoria della presenza dell’apostolo, attiva già in epoca carolingia, ma l’architettura interna fa pensare anche all’epoca romanica.

L’omonima valle ha inizio presso il Giogo di Toirano dove si congiunge con la valle Bormida. La quale scende nella direzione opposta.

Nel territorio circostante sono presenti numerose grotte carsiche che in epoca preistorica costituivano delle vere e proprie cattedrali vediche.

Da ricordare che anche Pietrasanta è un toponimo di chiara origine indoeuropea che fa riferimento a un menhir, dolmen o lica, vale a dire una pietra o parete rocciosa che veniva individuata come monte sacro in quanto sovrastava una sorgente.

Ě il caso della città di Pietrasanta, la quale sorge ai piedi della rocca Sala, un altro toponimo indoeuropeo che indicava la presenza di un tempio.

La rocca fu occupata dai longobardi, per cui è chiamata anche Rocca Longobarda, ed è il nucleo storico della città attuale che nel 1225 venne ampliato con l’insediamento di coloni provenienti dai comuni vicini, ad opera del podestà Guiscardo da Pietrasanta, un nobile milanese dal quale erroneamente viene attribuito l’origine del toponimo.

Savona è dominata dal colle di Cadibona, conosciuto anche con il nome di “Bocchetta di Altare” un toponimo italianizzato, che dovrebbe indicare un luogo sacro al “Bӧ”, con il significato di “Casa del Bue”, ripetuto da una località posta più in basso e da alcune frazioni chiamate direttamente “Ca del Bӧ”.

       Il toponimo Savona sarebbe originato dalla divinità gallica “Souconna”, o Saona, nome di un fiume francese, legato alla tradizione dell’Imbolc, lungo il quale i galli avrebbero inventato il sapone.

         Con ogni provabilità pur mancando un fiume importante come la Saona, a Savona va segnalata la presenza di località come “Bosco delle Ninfe”, e “Fontanassa”, sicuramente luoghi ricchi di sorgenti sacre.

            Alle falde del Beigua c’è il monte Grosso (402 m slm), sulla cima del quale troviamo il santuario di Nostra Signora della Guardia, una sovrapposizione al culto di Rhetia Phora. 

Entrando nell’area piemontese troviamo Vinadio, dove la presenza di una sorgente termale frequentata fin dai tempi dei romani, richiama l’origine del toponimo a una divinità solare anatolica, giunta nella pianura Padana con la cultura del ferro, che gli ittiti chiamavano “Windos”, alter ego del troiano “Ilios” e dell’ellenico Elios, adorato dai liguri romanizzati con il teonimo “Apollo-Vindonnus”, dio del sole e delle guarigioni.

Proseguendo lungo il sentiero che porta al colle della Lombarda (un toponimo fuori luogo, sulla cui origine non riesco a trovare una spiegazione) e successivamente all’omonima cima, si incontra il santuario dedicato ai Santi, Anna e Gioacchino i genitori della vergine, posto a 2000 metri di quota e a poche centinaia di metri da una parete rocciosa, sulla quale e apparsa la Madonna che chiedeva la costruzione del tempio.

È ipotizzabile che sulla parete rocciosa fossero presenti dei graffiti rupestri inneggianti alla Grande Madre della Natura, cancellati dai cristiani.

Mentre sul versante opposto delle Alpi, nella vicina Valle delle Meraviglie dominata dal monte Bego sono state ritrovate oltre 35000 incisioni che risalgono fino al V millennio, sfuggite alle “purghe” cristiane a causa della scarsa accessibilità del luogo.

Nelle vicinanze del monte Bego scorre il fiume Tinee (Tinea), il quale diffonde il teonimo “Tinia” all’interno dell’omonima valle, si tratta di una divinità adorata dagli etruschi, della quale si trovano tracce anche tra liguri, probabile retaggio di un’origine comune.

            Tinia chiamato anche Tunia è considerato dagli studiosi come l’alter ego etrusco di Giove e aveva come moglie “Talna”, la dea del parto, ma in realtà il suo nome è originato dal celtico “Tinne”, il nome dell’agrifoglio, l’albero sacro delle divinità solari.

Sempre nei pressi del monte Bego troviamo anche una continuità vedica nella toponomastica, con il “Col di Vars”, con relativa vallata e fiume, anticamente era chiamato “Varo”, tutte montagne che possiedono le stesse caratteristiche del Campo dei Fiori: roccia calcarea, abbondanti sorgenti e ampia visibilità del territorio circostante.  

      Risalendo le Alpi verso nord incontriamo anche la valle Varaita ed il suo fiume omonimo, che nella lingua occitana è chiamata “Varaha”, sinonimo sanscrito di cinghiale, l’animale totemico dei Varahi, in quanto i pagani credevano che le divinità come Varuna e Lug si incarnassero nel “Varaha”.

            La valle è dominata dal Monte Viso, ma alla sua estremità più alta si biforca, e una delle due biforcazioni si arresta sulle pendici del monte Bellino, quindi è palese che nella valle i liguri adoravano “Bel”, e che il Monte Viso, dietro al quale tramonta il sole, con il suo Pian del Re fosse considerato la dimora del dio.

            Le Alpi Cozie si presentano con il monte Orsiera, le cui pendici franose mi suggeriscono l’origine celtica del toponimo, in quanto farebbe riferimento a una delle tre matrone delle acque, vale a dire “Artios”, l’Orsa che domina la frana e l’alluvione.

            Il Monte Orsera è situato interamente nel comune di Roure, e la sua cima è il punto più alto del comune, mentre il toponimo deriva dal dialetto occitano, che è l’evoluzione della lingua parlata dai liguri primitivi, e significa “Rovere”, l’albero che costituisce lo stemma della località.

            Quindi possiamo supporre che l’Orsera con le sue rocce friabili e franose fosse considerata una manifestazione dell’Orsa Artios, la matrona che domina la frana e l’alluvione, e quindi Roure era un centro spirituale posto in val Chisone a 811 m. S.l.m., dove si svolgevano i riti sacri in onore della dea per scongiurare frane e alluvioni.

La valle Chisone gira attorno al Monte “Albergian”, il cui toponimo contiene la radice celtica “Alb”, sinonimo di alto, mentre “ergian”, sarebbe il sinonimo di “Egyans” o “Egini”, una tribù di cozi, escludendo l’ipotesi Giano in quanto si tratta di una divinità latina, il toponimo indicherebbe la montagna dove vivevano gli Egyans.

Parallela alla valle Chisone, troviamo la valle Susa, con Il colle del Monginevro, che la congiunge alla francese valle Durance.

Monginevro è un toponimo forzato, in quanto deriva da Ginevra un nome femminile, che nella lingua dei celti significava regina, infatti i romani, che avevano molto rispetto delle altre culture lo chiamavano Mons Matrona.

Difficile stabilire chi fosse la matrona essendo il colle posto tra la Téte des Fournèous (Fortuita o Fortuito) e il Sommèt de Chateau Jouan, chiamato anche monte Janus, un chiaro riferimento al dio romano dei passaggi Giano, che in epoca romana avrebbe sostituito una divinità lunare dei cozii, guardiana della porta del cielo e dei passaggi che le popolazioni retiche chiamavano Retia Phora; quindi mi sembra ipotizzabile che prima della romanizzazione il passo fosse chiamato Monginevra.

Un’ipotesi potrebbe essere Brigid la matrona dei brigantes, i quali avevano come capitale Briancon chiamata Brianzone in italiano, situata ai piedi del Monginevro nel versante francese.

Infatti se il prefisso Bri ci porta a Brigid, la radice anzone, avrebbe il significato antico di agnello continuato ancora oggi dal dialetto sardo logudorese, originato dal ligure antico; e non a caso sulle Alpi Cozie troviamo anche il colle dell’Agnello.

Da citare anche Bianzone una località di origine retica situata in val Tellina, dove la coltivazione della vite ha progressivamente sostituito la pastorizia.

Brigid il cui nome significava l’Altissima, forse come riferimento alla luna, era la dea della saggezza, della fertilità, della purezza e della primavera, veniva celebrata con l’Imbolc il 2 di febbraio durante il quale gli venivano presentati gli agnelli nati durante l’inverno, ragion per cui possiamo pensare che l’agnello fosse il suo animale sacro.

Nel 600 a.C., i brigantes partecipano con i cozii, chiamati coti, all’invasione della Britannia e successivamente dell’Irlanda, dove porteranno il culto di Brigid, che per la sua natura sarà molto amata anche dagli indigeni, tanto che nel processo di cristianizzazione degli ariani, gli evangelizzatori non troveranno pretesti teologici che la potessero indicare come una strega, pertanto in Irlanda entrerà a far parte della religione cristiana, come santa Brigida.

Bardonecchia è un toponimo che nella lingua dei celti doveva significare terra del     Barman o Bormanus il dio delle sorgenti, in quanto dal suo nome più antico IX secolo d.C., tutt’ora conosciuto “Bardonisca”, possiamo estrarre il prefisso “Bar” sinonimo di Bormanus, chiamato anche Barman, e la radice “isca”, derivata dal latino “iscla”, che indicava una pianura nei pressi di un torrente, da ciò: “Terra di Bormanus”.  

Infatti la città è situata in una conca nella quale confluiscono 4 valloni e i loro fiumi, che vanno a congiungersi con la Dora di Bardonecchia, affluente a sua volta della Dora Riparia.

Ma non voglio trascurare la radice nicchia con il significato di casa in quanto in quanto le prime case degli umani erano costituite da nicchie o buche scavate nella terra, come appare Bardonecchia circondata dalle montagne, e come dimostrano anche i sassi di Matera, e quindi poteva anche significare: Casa di Bormanus.

Del resto, l’antica frequentazione del luogo è testimoniata dall’idronimo Dora originata dalla radice preindoeuropea “Dura/Duria”, che significava “corso d’acqua”, da citare la Durance che sorge sul versante francese del Monginevro e il Duero terzo fiume più importante di Spagna, il che mi porta a pensare che gli antichi iberi, partiti dal Caucaso nel 9000 a.C., dopo aver colonizzato il nord Africa, la Spagna e la Francia, siano giunti anche in Italia attraversando il Monginevro.

Da sottolineare che attraverso la valle di Susa la cultura dei vasi a bocca quadrata, che nel 6000 a. C. era diffusa solo nella pianura Padana avrebbe sconfinato anche nelle alpi francesi.

La presenza di questa cultura antichissima, e di una montagna chiamata Thabor mi fanno pensare che il toponimo Susa omonimo, di quello della capitale del regno di Elam non sia casuale, ma figlio della migrazione di un popolo mesopotamico.

            Secondo i linguisti il toponimo Susa deriverebbe dal gallico “Sego”, sinonimo di forte, in quanto in epoca celtica “Segusium”, era il nome della sua città più importante, ma il fatto che i galli fossero solo gli ultimi arrivati e che si fossero insediati soprattutto nei bassi piani, mentre la valle Susa era abitata da tempi remoti da una popolazione ben più evoluta di sicura provenienza almeno caucasica mi lascia dubbioso.

Nome primitivo anche Excingomagus indicato come mercato basso, oggi Exsilles toponimo derivato dalla radice celtica “Ixellos” che significa: basso, che in italiano si traduce in Issiglio.

Ma, considerando la posizione strategica che pone il campo nel punto in cui la valle si restringe mi fa pensare a un campo fortificato, come prima linea di difesa dell’alta valle.

Da confrontare anche con Usseaux, originato dal celtico “uxellos” che significa alto, Usseglio in Italiano, infatti Usseaux con il rispettivo lago di Oux è situato dalla parte opposta del gruppo dell’Orsiera che divide La Valle Susa dalla valle Chisone a una quota di 1400 m.

All’imbocco della valle Susa troviamo anche il monte Pirchiriano, sulla vetta del quale troneggia un santuario di origine longobarda, chiamato dagli stessi arimanni “Sagra di San Michele”, il santo guerriero, nel nome del quale si sono convertiti al cristianesimo.

            Si tratta di un toponimo composto da due radici la prima “Pirchi”, oggi la troviamo nella lingua corsa, con il significato di pertica, mentre “riano”, sarebbe una continuazione di ariano.

Trattandosi di un ripido sperone roccioso che si separa dal monte Caprasio può andare bene l’idea di una pertica, quindi Pirchi sarebbe un lemma di antico uso comune, trasmesso tra cozii r corsi, ma trovo più adatto il lombardo “Pic”, o l’indoeuropeo “Pik”, sinonimi di picco, come in genere vengono chiamate questo genere di montagne.

Fa eccezione il leponzio “Puncioo” in dialetto lombardo, originato dalla radice “puncia” sinonimo di punta, italianizzato in “Poncione”, diffuso nell’area lepontina in almeno 6 toponimi, tra i quali spicca il Poncione di Ganna, distinguibile anche da molto lontano.

La radice riano indicherebbe un insediamento ariano, come erano in origine i longobardi, e i cozii che li hanno preceduti, ciò sembra confermato da un toponimo antico: “Porcariano”, forse dovuto alla presenza di un recinto sacro nel quale erano mantenuti dei cinghiali o anche i maiali, destinati al sacrificio.

Nei sacrifici pagani, il profumo della carne abbrustolita doveva raggiungere gli dei in cielo, per cui le cime dei monti erano le più indicate perché vicine alla casa degli dei.


            A Usseaux bisogna segnalare la frazione di Frassineto, in quanto il frassino era l’albero sacro a Brigid una divinità celtica della fertilità e della primavera, la cui festa era L’Imbolc, che si celebrava in un frassineto sacro il 2 di Febbraio.

Da segnalare anche una città chiamata Frassino situata nella valle Varaita, lungo la statale che sale al colle dell’Agnello, quindi un altro centro spirituale dove i pastori celebravano l’Imbolc prima di salire nei pascoli,

Un’Usseglio la possiamo trovare anche nell’Alta valle di Lanzo, adiacente alla valle di Susa, ma facente parte delle Alpi Graie, e anticamente abitata dai Graioceli una piccola tribù conosciuta solo perché citata da Giulio Cesare nel De Bello Gallico.

Il toponimo Varese lo posiamo identificare anche nella località Verrès situata all’imbocco della valle d’Ayas, lungo la riva sinistra della Dora Baltea.

     La valle d’Ayas è un picolo Tibet ligure, infatti già a partire dal toponimo Ayas, capiamo che ci troviamo nella valle del Ghiaccio, Infatti Champoluc è il centro abitato della valle, situato più in alto, 1600 m. slm., quindi possiamo supporre che al tempo dei liguri, almeno d’inverno, il “Grande Ghiacciaio di Verra”, si allungava fino a ricoprire buona parte della valle.

       Con ogni provabilità nell’immaginario spirituale dei celti il ghiacciaio che si allungava e poi si scioglieva, simboleggiava l’accoppiamento tra le due divinità.

       Il nome del ghiacciaio è un altro riferimento a Lug,in quanto  “Verra”, è il femminile di verro o mocco, epiteti rivolti a Lug, quindi un riferimento alla scrofa che si accoppia con il dio,  probabilmente la divinità immaginata era Epona o la Morrigan, mentre il nome del fiume Evançòn, che sorge dal ghiacciaio, sarebbe una forma celtica che ha prededuto il latino “evacuàre”, quindi: il fiume Evançon simboleggiava la vita trasmessa agli umani per mezzo dell’evaquazione, prodotta dall’accoppiamento divino.

      Da sottolineare che la radice “ançon”, presente nell’idronimo Evançon sarebbe un sinonimo dei celtici “kona”, e “mona”, quest’ultimo continuato ancora oggi dal dialetto veneto, i quali indicavano il “Monte di Venere”.

La presenza del nome Eva come prefisso di molti sostantivi simili ad evacuare, come evadere, evaporare, evanescente, fa pensare all’esistenza fin dal primo neolitico, di una divinità materna indoeuropea, chiamata Eva, nella quale gli estensori della bibbia hanno poi individuato la compagna di Adamo.

Al grande Verra si affianca anche il ghiacciaio del “Lys”, sormontato dalle omonime vette: “Lyskamm Orientale”, e Lyskamm Occidentale”, unite tra loro da un sottile strato di roccia e ghiaccio, ovviamente il ghiacciaio alimenta l’omonimo fiume, che percorre l’altrettanto omonima valle.

Lys è un vocabolo della lingua francese che significa “giglio”, “lily”, in inglese, “lilie”, in tedesco, “lirio” in spagnolo, quindi Lys è un toponimo che fa riferimento a un fiore sacro alle divinità materne, Giunone ed Hera in primis purtroppo non riesco a trovare indizi che mi possano portare verso una ben determinata divinità celtoligure.

  Il nome delle due Lyskamm contiene la radice tedesca “kamm”, che significa “cresta”, ma nell’indoeuropeo centun significa anche curva.

           Un fiume di nome Lys lo troviamo anche in Francia, il quale nasce sulle colline dell’Artois (da Artios l’orsa che domina la frana e l’alluvione), e dopo aver attraversato la regione (Passo di Calais), anticamente abitata dai morini e dagli atrebati, sconfina in Belgio, dove confluisce nella “Schelda”. 

          In liguria ci sono toponimi come Lerici e Leira, una valle e l’omonimo torrente che devono il loro nome al giglio, anche la forma spagnola “lirio” autentica l’origine del nome del fiume Liri, lungo le rive del quale troviamo la località Morino, una Morini si trova anche in provincia di Verona, evidenti tracce delle migrazioni dell’omonimo popolo.

         Il Monte Rosa, anticamente chiamato “Sas Gros”, deve il suo nome attuale alla sua cima più importante, oggi denominata “Cima Dufour”, mentre in precedenza era Monte Rosa, evidentemente preceduto da un primitivo “Mota Rusa”, traccia di un culto materno primordiale, che ha preceduto anche i liguri.

Del gruppo del Monte Rosa fa parte il Breithorn, 4165 m, Corno largo in tedesco, Corno Madre in irlandese, non a caso la montagna si affaccia sulla Mattertal detta anche Nikolaital, due chiari riferimenti alla Grande Madre neolitica e a san Nicola il Grande Padre cristiano.

Di fianco al Breithorn troviamo la Roccia Nera 4075 m, nella quale, secondo la tradizione vedica, Indra tiene prigioniero il serpente Varuna, colpevole di aver divorato la Grande Madre la quale viveva sulla Motta rossa.

            Quando si parla del Monte Rosa si pensa sempre al colore e mai al fiore, ciò è molto importante, perchè la rosa era sacra ad “Afrodite”, la dea greca dell’amore e della bellezza, figlia di Urano, e per questo chiamata anche Urania, regina del firmamento ed adorata anche come dea madre.

            Il sinonimo greco del nome rosa è “Rodon”, mentre “Rodea”, è chiamato lo stelo, i quali sarebbero originati da una radice indoeuropea: “Vardh” o “Vradh”, che significa crescere o ergersi.

            Etimologicamente il greco “Rodon”, chiama in causa il fiume Rodano, il quale prende il nome dal ghiacciaio che lo alimenta che è situato nel Canton “Uri”, un toponimo che sembra fare riferimento al toro, il quale è diventato il simbolo del cantone, ma come sappiamo il toro era una divinità secondaria, il quale doveva la sua importanza al fatto di essere l’amante della grande dea madre, quindi: Uri poteva essere l’etnonimo di un popolo che adorava Urania come grande dea madre.

           Il sospetto sull’esistenza di una divinità primordiale che si chiamava Urania è alimentato anche dal nome antico dell’Olona, “Urona”, il quale raccogliendo le acque che scendevano dalla Motta Rossa, diventava un fiume sacro alla grande dea.

In realtà i nomi del fiume Rodano e del ghiacciaio dal quale sorge, sono originati dal teonimo vedico “Danu” dea personificazione delle acque, per cui l’idronomo è composto dal prefisso “Ro”,(o meglio ancora Rö) sinonimo dell’indoeuropeo “Ri”, che significa scorre, e dalla radice “Danu”, quindi il significato di Rodano diventa acqua che scorre.    

     Nella lingua occitana il Rodano è chiamato “Ròse”, mentre in valdostano con “Rosà”, si indica un luogo ghiacciato, il ghiaccio invece è chiamato “Rouèsa”, mentre nei dialetti di origine leponzia come il varesotto, con Rouèsa si indica il fiore vero e proprio, più propriamente Rosa mentre con Rôsa si indica il colore.

            Si tratta di linguaggi che hanno tutti la stessa origine, la differenza nel significato è dovuta all’abitudine di chiamare rosa tutte le manifestazioni della natura attribuite alla Grande Dea Madre.

             Da citare anche il Platò Rosà sul Cervino, Rosasco (Rosa Nascosta), sulla riva del Sesia, Il comune di Rosà ai piedi del monte Grappa, con la sua frazione di San Pietro, un importante sito archeologico paleoveneto, il cui nome cristiano è una palese copertura di un toponimo antico, che faceva riferimento a una importante divinità vedica.

             Da citare anche la vicina Rossano Veneto, Rossano Calabro, Rosarno sempre in Calabria e Rosate in provincia di Milano. 

A ovest del monte Rosa c’è il Cervino con la sua tipica struttura piramidale che ha sicuramente alimentato la spiritualità degli ariani; si dice che il suo nome sia il frutto di una errata trascrizione da cui l’affinità del toponimo con il cervo.

            Comunque il suo nome in francese è Cervin, che si associa al lombardo Cervìi, mentre i valdostani lo chiamano Gran Becca, ma molto significativo e indiscutibile è il tedesco “Matterhorn”, cioè, il: Corno della Madre, come nella tradizione vedica.

Anche nel bolognese troviamo toponimi di origine vedica, come Vergato, situato lungo la valle del fiume Reno, un altro idronimo indoeuropeo, Vergato caratterizza la propria origine anche dallo stemma, nel quale appare un cinghiale dotato di una fascia attorno al corpo, che pascola nella palude, mentre sullo sfondo sorge una collina fortificata, il tutto adornato con due rami di quercia adornati da ghiande dorate.

Si tratta di un chiaro riferimento a Varuna o a Lug soprannominati anche: “Il Verro”, da cui il toponimo Vergato, che significava il forte di Varuna o del Verro.

Nell’alta valle del Reno troviamo Porretta Terme, un toponimo che sembra riferirsi a Rethia Phora la divinità retica dei passaggi, ma le sue sorgenti termali mi fanno pensare alla corruzione di un toponimo primitivo che faceva riferimento al dio ligure delle sorgenti e delle guarigioni Bormanus, come potrebbe potuto essere Borretta o Gorretta, da gorgogliare o borbogliare, ciò sembra confermato anche dalla confinante Berzantina un altro toponimo che fa riferimento a Bormanus.

Ma lo stemma di Porretta Terme, al di là delle leggende medioevali, propone anche il tema del toro, Infatti il bovino che si abbevera nel laghetto termale con un faggio sulla riva, è un chiaro riferimento al “Jovis Fagutalis”, vale a dire “Giove dei Faggi” al quale sarebbe stata sacra la sorgente.

Da notare che il faggio presente nello stemma ha due rami recisi e uno intero, i quali con ogni probabilità vogliono simboleggiare due culti antichi, Bormanus e Lug, ai quali si è sovrapposta la venerazione di Giove.

La forte romanizzazione del territorio di Porretta Terme è testimoniata anche dalla presenza nei boschi di un santuario sacro alla Madonna dei Faggi, un’altra sovrapposizione cristiana ai culti antichi.

Un’altra testimonianza della forte romanizzazione del territorio è la confinante Castel di Casio il cui toponimo è un riferimento a Cassio e alla quercia, il quale ha come stemma un maiale che pascola nella pianura con sullo sfondo una collina fortificata, quindi molto simile allo stemma di Vergato.

La confinante Camugnano trarrebbe il suo nome dalla famiglia romana Camonius, ma a mio parere bisognerebbe fare i conti con una divinità della guerra, chiamata “Camulus” o “Camulos”, adorato dai Remi, un popolo di origine belga alleato di Cesare, che come premio alla loro fedeltà avrebbero ottenuto delle terre in Italia.

Ma non si può escludere un insediamento di gente proveniente dalla val Camonica dove si adorava la stessa divinità, comunque Camonius poteva essere il nome di un celta romanizzato, oppure il nome pagano della località.

Tutto ciò è confermato dall’assetto urbanistico di Camugnano, il cui territorio ha conservato l’aspetto di un omphalos sacro a una divinità pagana.

Infatti, la chiesa sacra a san Martino sorge al vertice di un’altura che domina il territorio circostante e conserva attorno a sé uno spazio verde che la separa dal centro abitato, caratteristica dominante nelle tradizioni celtiche.

Anche la dedica a san Martino ci porta alla conclusione che il luogo era riservato ai culti religiosi già fin dai tempi remoti, e che in epoca longobarda, nel corso del processo di cristianizzazione hanno sostituito i nomi delle divinità pagane con quelli dei santi guerrieri cristiani; quindi, possiamo affermare con certezza che durante l’età del ferro l’altura sulla quale sorge Camugnano era un omphalos sacro a Camulus.

Da segnalare anche la frazione Verzuno, situata lungo la riva del torrente Limentra, il cui toponimo deriverebbe dall’antica presenza di un recinto sacro al Verro, in quanto nel nome del luogo è presente la radice “Zona”, che nell’antichità indicava un luogo recintato.

Sempre nella provincia di Bologna dobbiamo considerare la presenza del fiume Santerno, un affluente del Reno che scorre nell’omonima valle.

            Il suffisso “erno”, che compone l’idronomo Santerno come abbiamo già visto per la località Erno nel triangolo lariano e per l’alto Vergante, richiama il nome gallico dell’ontano, “Ernos”, l’albero che cresce sulle rive dei fiumi, sacro a “Bran” il dio che resuscitava i guerrieri morti in battaglia, chiamato anche il Corvo.

            Ernos era sacro anche alla Morrigan Nera, che si manifestava nella forma di corvo come annunciatrice di morte; per tale motivo nella lingua dei celti Erno doveva significare inferno o indicare il mondo dei morti.

            In proposito bisogna citare la Gallisterna, una collina posta alla periferia di Imola, il cui toponimo significherebbe appunto Inferno dei galli.

            Che la valle del Santerno fosse considerata l’inferno, trova conferma nella natura gessosa del territorio attraversato dal fiume, il quale è il prodotto della reazione chimica del calcare con l’acido solforico presente nelle acque e nei vapori delle solfatare, fenomeno caratteristico nell’inferno dantesco nell’Averno latino e nell’Ade ellenica, un fenomeno che in passato avrebbe impedito la fondazione di insediamenti umani.

I proto veneti che storicamente sono indicati come appartenenti alla stessa etnia degli albani, hanno lasciato una traccia del loro passaggio nel nome dei colli Berici, un toponimo che dal punto di vista etimologico è affine all’etnico “iberi, quindi è da supporre la presenza nel territorio di una tribù di etnia iberica, che vedeva in quelle colline il ricordo della lontana Iberia Caucasica.

Una testimonianza del legame della cultura iberica con i caucasici migrati in Italia, ci viene data anche dall’esistenza di numerosi toponimi che contengono la radice “serra”, la quale sarebbe la continuazione dell’iberico “sierra”, sinonimo di altipiano.

Un esempio è Serralunga d’Alba in provincia di Cuneo, situata in un territorio dove il toponimo Alba si spreca, una Serra Lunga la troviamo anche sull’altipiano del Fucino, si tratta un altipiano che dà il nome a una catena montuosa della quale fa parte, e che divide la Vallelonga dalla valle Roveto; in Calabria si può citare l’altipiano Le Serre; e poi le numerose Serravalle sparse in tutta Italia.

La radice indoeuropea “alb” la troviamo anche tra i colli Euganei nel toponimo “Abano Terme”, dove in epoca romana le sorgenti termali erano sacre ad “Aponus”, del quale esisteva un tempio e un oracolo molto importante, che veniva consultato anche dai romani.

Con ogni provabilità Aponus era una forma latinizzata di un teonimo, con il quale i romani tentarono di assimilare il dio Albiorix, con il loro Apollo.

Da considerare anche il dio solare “Windo”, che i romani chiamavano “Apollo Windonus”.

Dal teonimo romano Aponus avrebbe origine il toponimo Abano, mentre nelle sue vicinanze troviamo “Albignasego”, il cui nome ci indica chiaramente che si trattava di una città fortificata sacra ad “Albiorix”, in quanto il toponimo oltre ad avere come riferimento Albiorix, contiene la radice indoeuropea “sego”, sinonimo di forte, da cui: “Forte di Albiorix”, quindi si tratta di un retaggio del legame allora esistente tra la popolazione veneta e la cultura illirica dei castellieri, i quali altri non erano che una tribù di albani
Nel gergo volgare, il femminile di sego è ancora usato per indicare una persona debole o incapace.

La mancanza di riferimenti storici e la tarda fondazione del villaggio, mi fanno pensare che il toponimo Battaglia Terme sia da mettere in relazione a una tradizione antica legata al colle sant’Elena e alla sua grotta termale.
Infatti il nome Battaglia potrebbe essere un riferimento a “Bran”, il dio celtico che resuscitava gli eroi morti in battaglia, immergendoli nel suo calderone, come poteva essere la grotta termale che troviamo sul colle sant’Elena.

L’uccello totemico di Bran era il corvo, ma valevano anche le cornacchie e tutti gli uccelli neri, tanto che il loro appellativo era “scurbat”, sinonimo di “uccello scuro”, usato anche per indicare il dio.

Scurbat è ancora in uso nel dialetto lombardo per indicare le cornacchie, mentre a conferma della tradizione, nella lingua inglese moderna, “bat”, è sinonimo di pipistrello.

L’attuale nome cristiano del colle è chiaramente la sovrapposizione a un toponimo che faceva riferimento a una divinità vedica; e lo stesso si può dire dello stemma di Battaglia Terme, nel quale un’insolita aquila bianca su fascio romano, potrebbe essere una sovrapposizione a un: “Scurbat”, sempre che non sia un riferimento a Windonnus, il dio bianco.

Da citare anche la vicina Pernumia, un toponimo precristiano che sembra indicare la vicinanza di un luogo sacro, come potrebbe essere anche il Monselice, che come suggerisce la toponomastica locale, era un monte sacro al sole, dal quale è illuminato per tutto l’arco della giornata. Ma non si può escludere il significato di “Monte del Salice”, l’albero della saggezza.

A nord di Padova troviamo Trebaseleghe, il cui toponimo è da mettere in relazione all’incrocio di tre strade storiche, l’antica via Castellana, oggi strada regionale 245, che collega Venezia con la val Sugana, passando da Castelfranco Veneto, e la provinciale 44, via Treviso, la quale, secondo la tradizione romana era una via spina, che collegava la Castellana con la strada che da Venezia portava a Treviso. Infatti la “Chiesa della Natività della Beata Vergine Maria”, sorge all’interno di un trivio, sui ruderi di una basilica del VIII secolo d.C., traccia sicura dell’antica presenza di un tempio pagano.

Etimologicamente, il toponimo Trebaseleghe è composto da due radici, precedute dal prefisso “Tre”, la prima radice “Base” è originata dal latino “Basis”, sinonimo appunto di “Base”, intesa come punto di arrivo o di partenza, mentre “leghe” è il plurale della radice “Lega”, originata dal latino “Leuca”, il quale era l’unità di misura delle distanze, che corrispondente a 2,22 km, i mille passi romani, i quali prendevano anche il nome di miglio romano, misura utilizzata dai romani.

La lega era un’unità di misura di origine gallica, chiamata appunto “leuga gallica”, che si differenziava dalla leuca romana per la lunghezza del passo.

Quindi il toponimo romano di Trebaseleghe era: “Tri Basis Leucarum” indicava che in quel punto era situato il primo cippo miliare di tre strade.

Nell’antichità la presenza del primo cippo miliare implicava anche la presenza di un tempio, sacro a una divinità protettrice dei viaggiatori; in genere si trattava di Mercurio, ma essendo il luogo situato all’interno di un trivio, e considerando la natura paludosa del territorio circostante, il sito era sicuramente sacro ad Ecate, la dea dai tre volti, una divinità originaria della steppa ucraina e presente nella cultura greco-romana, che solitamente era indicata come protettrice dei trivi e dei posti frequentati dagli spiriti maligni.

Ecate, anche se indicata come protettrice dei viandanti, in origine era una dea della natura, il cui simbolo era il Triscele, e con i suoi tre volti: “Bambina, Donna, Vecchia”, rappresentava le tre stagioni: “Semina, Raccolta, Rigenerazione”, come anche le tre Empuse, le quali si alternavano sulla terra come la loro personificazione, Il suo culto sarebbe stato abbandonato dopo l’introduzione della quarta stagione, e sostituito dalle classiche: Anna Perenna, Demetra, Arianna e Samara.

La natura paludosa del territorio di Trebaseleghe, con le sue nebbie e i fuochi fatui provocati dalla decomposizione dei corpi animali, favoriva le leggende sulla presenza di spiriti maligni, che nella tradizione greco-romana erano le “Empuse”, le tre figlie di Ecate, le quali si divertivano a spaventare i viandantiforse per vendicarsi del fatto che la madre fosse stata ripudiata dai fedeli, e pertanto Ecate ontinuò ad essere omaggiata per placare l’ira delle figlie.

Nelle tradizioni celtiche la divinità regina della palude era la: “Morrigan Nera”, annunciatrice di morte, la quale si manifestava nelle ombre confuse dalla nebbia.

Per il toponimo Oderzo, vale lo stesso discorso di Trebaseleghe, in epoca romana era un trivio, cioè un luogo di congiunzione tra l’antica via Postumia, con una “Via Spina”, che ancora oggi si può identificare con la via “Spinè”, attualmente provinciale 54, si tratta di un unico asse stradale che procedendo per linea retta attraversa il comune di Cessalto, dove si sovrappone alla provinciale 53, per poi raggiungere la località di Ceggia, dove si innesta sulla statale 14, la quale non non fa altro che sostituire l’antica via “Annia”, che in epoca romana collegava Padova con Fiume, passando proprio da Ceggia.

Un toponimo che potrebbe confermare la presenza del culto di Ecate, sarebbe la località “Tre Piere”, che in dialetto veneto potrebbe anche indicare le tre pietre miliari poste all’inizio delle tre strade.

A favore della dea dei tre volti, c’è anche il il toponimo “Magera”, un ampia area campestre che fa pensare a un campo sacro al culto pagano di una divinità femminile, poi identificata dai cristiani come una megera.

Ma il toponimo Magera potrebbe anche derivare dalle tradizioni pre latine, e riferirsi a una divinità della terra, che veniva festeggiata al primo maggio, il giorno del risveglio della natura, da cui il nome Magera, “Portatrice di Frutti”, che poteva essere identificata con “Maia”, una delle divinità pre elleniche della fecondità e del risveglio della natura. Maia era anche la madre di Mercurio il dio dei viaggiatori, pertanto è ipotizzabile la presenza di un tempio sacro a entrambe le divinità.

Ma il toponimo romano di Oderzo: “Opitergio”, potrebbe anche essere stato originato dal teonimo Opis, come pure il nome paleoveneto “Obterg”, infatti come Magera si potrebbe ipotizzare la sabina “Ops “, che gli scrittori romani preferivano chiamare “Opis”, una divinità della terra e dei raccolti adorata dagli italici pre latini.

Ma tre erano anche le matrone dell’acqua dei celti: “Sulevia”, la dea che disseta e guarisce, “Artios”, l’Orsa che domina la frana e l’alluvione, ed infine “Epona” la dea che compie la magia di far galleggiare le cose, e protegge cavalli e cavalieri, poi adottata dalla cavalleria romana.

Quindi le tre matrone avrebbero potuto essere identificate con i tre fiumi che attraversano Oderzo, Monticano, Lia e Piavon, e per questo il villaggio poteva essere stato indicato come la città dei tre fiumi, da cui il toponimo paleoveneto “Obterg”.

Interessante è il nome del fiume Lia, un nome biblico di origine accadica, che significava matrona, mentre nella lingua dei caldei, l’aramaico, era sinonimo di “Signora”, un nome giunto in Europa a causa della promiscuità, nella quale vivevano in Siria e Palestina gli indoeuropei e i semiti; infatti i caldei e molti aramei, pur essendo di stirpe semita adoravano divinità vediche come Mitra per esempio, o Ba’al, poi divenuto il Beleno degli indoeuropei.

Per il toponimo Oderzo bisogna considerare anche il messapico “Odra”, sinonimo di acqua, dal quale si è originato il greco classico “Idra”. I teologi elleni vedevano nell’Idra un diabolico serpente marino ucciso da Ercole; più o meno la descrizione della Grande Madre Paleolitica, che si trasformò in serpente per accoppiarsi con il Serpentario.

Odra potrebbe essere il nome di una divinità pre ellenica dalla quale ha preso il nome anche l’omonimo fiume che attraversa: Cecoslovacchia, Polonia e Germania, chiamato “Oder”, in tedesco, quindi Obterg poteva essere il sinonimo di “Tre Odra”.

Interessante è la frazione di Colfrancui dominata dalla “Mutera”, una collina artificiale di origine paleoveneta.

Il nome stesso della collina di ci dice che si trattava di un mucchio di terra, vale a dire una “Moots Hill” (Collina della discussione), che nella tradizione britannica dell’Età del Bronzo, costituiva “l’Omphalos “ (ombelico), vale a dire: “il centro del culto”, come la Mota Rusa dei liguri, in pratica L’Aruna Chala della tradizione vedica.

Queste colline artificiali sono la testimonianza della parentela culturale tra gli europei dell’età del Bronzo, dovuta alla primitiva migrazione del popolo della Ceramica Cardiale, è poi continuata dai danai.

Sulla Mutera di Oderzo è stato ritrovato lo scheletro di un cavallo e i frammenti di un vaso rituale, il quale con ogni probabilità conteneva gli organi del cavallo considerati sacri, ma molto più provabilmente più che un sacrificio come è stato ipotizzato, poteva trattarsi della sepoltura di una cavalla totemica consacrata a una divinità marina protettrice anche dei cavalli, che come sembrano dimostrare i ritrovamenti avvenuti nella vicina a Patavium  si tratterebbe di Neptunus, l’alter ego italico di Poseidone la cui presenza è attestata ancvhe nella vicina Quarto D’Altino; coincidenza vuole che i resti dell’antica Altinae sono state ritrovate in una località chiamata Fornaci.

In seguito a rilevazioni magnetiche anche al centro della mutera di Oderzo è stato scoperta una fornace di origine romana, quindi dobbiamo dedurre che in epocra cristiana i romani smantellarono molte mutere per fabbricare mattoni.

 Come è successo anche alla Mutera del vicino comune di Fontanelle, sulla quale i romani avevano insediato un accampamento, la quale sarebbe stata spianata in epoche recenti, proprio per recuperare l’argilla.

Quindi Altnoi non poteva essere un nome locale di Nettuno, infatti la considerazione che il territorio di Quarto D’Altino è completamente piatto, mi porta a considerare l’ipotesi che Altnoi fosse un’altura artificiale eretta a scopo religioso, quindi una Moots Hill o Mutera sacra a Neptunus, anzi, Altnoi era il sinonimo paleoveneto di “altare”.

Quindi il nome stesso di Quarto D’Altino deriva dalla presenza di un altare sacro a Neptunus e non dal suo teonimo.

A Oderzo va citata anche la frazione Faè, anticamente chiamata Faedo, un toponimo dovuto alla presenza di un faggeto sacro.

Tracce della cultura vedica le troviamo anche nel toponimo Treviso, Plinio il Vecchio, citava i “monti Tarvisanis”, infatti la Treviso primitiva sorgeva su tre alture, in seguito fu citata come “Tarvisius”, “Trabision”, “Tribicium”, e la forma più accreditata “Tarvisium” alla quale, come per l’omonima cittadina friulana, possiamo attribuire il significato di: “Taurus Weso”, sinonimo di: “Dimora del Toro”.

Considerando che la Treviso celtica è sorta su tre alture circondate da paludi, non si può escludere un plurale celtico di “Triweso”, sinonimo di “Tre Dimore”.

Lo stesso possiamo dire del fiume Sile, le cui sorgenti sarebbero state sacre a “Sulevia”, la dea che disseta, adorata in Inghilterra dai soldati romani con il nome di “Sulis Minerva”.

Anche il toponimo Susegana avrebbe potuto riferirsi alla dea fluviale “Sequana”, ma come la val Sugana ripropone i temi “Susa” e “gana”. Susa era il nome di un re mitologico dei persiani, il quale primo tra i persiani sarebbe sceso con il suo popolo dai monti Zagros, fondando il regno di Elam per dedicarsi all’agricoltura.

Però La città di Susa (Shush in siriaco, Cusà in antico persiano), divenne capitale dell’Elam solo in un secondo momento.

Ma l’esistenza nel Caucaso di una regione oggi chiamata “Sowsi”, traslitterato in “Shushi”, che dà il nome alla capitale “Şuşa”, fondata nel XVII secolo d.C., pertanto la grande diffusione del toponimo Susa, mi fa pensare che in realtà Susa era il nome di una popolazione caucasica migrata in varie direzioni, infatti il toponimo Susa lo troviamo anche in Tunisia, e in Cirenaica, luogo dove sono transitati gli iberi che hanno raggiunto la Spagna, mentre la Susa che scopriamo in Danimarca, è la conferma della migrazione dei caucasici fino alle rive del baltico, quindi una colonia di danai o di liguri, dalla quale dopo tre millenni i loro discendenti partiranno per il nuovo mondo, dove fonderanno una nuova Susa anche in Canada.

Invece il suffisso “gana”, aggettivo tramandato dai sumeri, ma come abbiamo già visto per la val Ganna (www.cassano magnago e gli insubri.it), è di provabile origine persiana, e aveva il significato di “demanio”, con riferimento alla dea, quindi un demanio pubblico, pertanto si può dedurre che “Susegana” e “Sugana” indicavano la: “Terra dei Susiani”.

Contrariamente all’ipotesi “Bellona”, un epiteto rivolto a Venere e Afrodite, le quali erano identificate con il pianeta Venere, Belluno è un toponimo che trae origine da una divinità lunare come potevano essere la romana Diana o la celtica Belisama, sorella di Bel, così come la divinità lunare greca, Artemide, era la sorella del dio solare Apollo.

Da considerare che Belluno e valle Belluna potrebbero avere avuto il significato di luna splendente ed essere un sinonimo di Belisama. Ma in realtà nel bellunese preistorico si adorava sia la luna che il sole, infatti il prefisso “Bel”, oltre a significare “Splendente” non è altro che il nome preistorico del sole, e a conferma di ciò, a nord ovest di Belluno, troviamo i “Monti del Sole”, la cui cima più alta il Piz di “Mezzodì”, il quale essendo la cima più a nord della catena, è allineata con il sole di mezzogiorno, quindi anticamente era usata come orologio astronomico. A conferma dell’origine vedica del toponimo, sui Monti del Sole troviamo un alpeggio chiamato “Pra de Luni”, e a sud un Piz Vedana, da citare anche una Certosa di Vedana, un monastero esistente già nel XI secolo d.C., e quindi da considerare una sovrapposizione a un tempio pagano.

Da prendere in esame anche la presenza a Belluno di un quartiere chiamato Sala, dove è presente una chiesa medioevale consacrata a san Matteo, quindi considerato che anticamente sala era un sostantivo che indicava la casa, o un ambiente grande e coperto, possiamo supporre che nella località ci fosse il primo tempio del territorio, naturalmente sovrapposto a un campo sacro.

Nel basso bellunese, troviamo un’altra località di nome Luni, e altri luoghi dai toponimi spiccatamente carni come Cargnach, il quale accomuna quella popolazione agli antichi bretoni francesi. A fronte delle ipotesi secondo le quali il toponimo Montebelluna deriverebbe dall’antica dipendenza dell’abitato dalla citta di Belluno, bisogna considerare che Montebelluna è un comune sparso formato da varie frazioni mentre il nome fa riferimento a una collina sulla cima della quale sorge l’abitato di santa Maria in Colle, quindi una evidente sovrapposizione cristiana a un toponimo vedico. Ovviamente anche qui l’ipotesi del culto lunare è prevalente.

Anche per il nome della val di Sole in Trentino, esistono contraddizioni, in quanto gli studiosi ritengono che per via delle sorgenti termali il toponimo faccia riferimento alla dea celtica Sulis, che i romani equipararono a Minerva. In realtà Sulis era Sulevia, l’acqua che da sollievo, una delle tre matrone celtiche dell’acqua, mentre gli attributi curativi andavano anche alle divinità solari come Vindonnus e Apollo, da ricordare che Asclepio per i greci o Osculapio per i romani, era un dio della medicina figlio di Apollo.

Alla Dea Sulis veniva attribuita la capacità di diffondere malattie, Come Apollo a Troia, quindi più che a Sulevia dobbiamo pensare ad Artemide sorella di Apollo. I romani identificarono Vindonnus con Apollo, tanto che a Chatillon-sur-Seine (Francia), nei pressi di una sorgente è stata ritrovata un’iscrizione dedicata ad Apollo Vindonnus.

Dopo la Polonia, la Germania, e la Danimarca, la migrazione dei Caucasici arriverà anche in Francia, dove sulle coste della Manica Giulio Cesare incontrerà un’altra tribù di veneti, mentre Liguri e Danai avevano già invaso l’Inghilterra (IV secolo a.C.), come abbiamo già visto nel primo capitolo, e se nella lingua gaelica la Scozia è chiamata Alba e l’Inghilterra Albione non sarà proprio un caso.

Rino Sommaruga

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Gli Etruschi

Gli etruschi sono il grande enigma degli studiosi, in quanto non si riesce a stabilire la loro origine.

Quello che confonde gli storici è l’alto grado civile e culturale che hanno saputo raggiungere, malgrado fossero isolati dalle grandi culture orientali, ma come vedremo, l’evoluzione culturale degli etruschi è stata favorita dalla presenza di una casta straniera che operava nel commercio con il Nord Europa, coinvolgendo anche la popolazione indigena.

Nella loro lingua si chiamavano “Rasenna”, o “Rasna”, il che farebbe pensare agli abitanti di Ravenna, città che hanno fondato e da dove passavano i commerci marittimi dei primi villanoviani (la civiltà che li ha preceduti), mentre la loro divinità più importante era “Tinia”, chiamato anche “Voltumna”, “Veltha”, o “Vel”.

Voltumna però poteva anche essere una divinità fluviale, come sembra indicare il nome del fiume Volturno, ma troviamo una contraddizione nel toponimo Volterra, la “Velathri” degli etruschi, la quale inizialmente era un colle sacro villanoviano, ai piedi del quale, nel VIII secolo a.C., si sono sviluppati dei villaggi commerciali, poi riunitisi in un’unica città.

L’idronimo antico “Volturnum”, sarebbe una forma italica con il significato di “svolta e torna”, com’è il corso del Volturno, formato da grandi anse che invertono continuamente la direzione del suo corso con ampi giri di 180 gradi, che formano tante penisole facilmente irrigabili e difendibili, tanto che all’interno di alcune di esse, i villanoviani fondarono importanti città come Volturnum e Capua, le quali erano protette su tre lati dal fiume, e da un canale artificiale sul quarto.

Da ciò si può anche ipotizzare che secondo il credere primitivo dei villanoviani, il dio Voltumna assumeva l’aspetto di un fiume per proteggere la città a lui sacra.

Oggi una di queste anse è occupata dalle località di Cancello e Arnone e se Cancello ci porta al latino Cancellus, con un chiaro riferimento all’esistenza di un ponte fortificato, che costituiva una porta d’accesso alla città, la quale sbarrava la strada consolare, Arnone ci riporta alle tradizioni fluviali degli umbri.

Infatti come abbiamo già visto l’idronimo Arno è di origine celtica e indica l’ontano “fearn, o vearn, oppure vernos”, da cui il latino “alnus”, un albero che affonda volentieri le sue radici lungo le rive dei fiumi, quindi Arnone indicava sicuramente un ontano sacro a qualche divinità umbro ligure. Ma esiste anche una divinità fluviale greca chiamata “Arnos”, uno dei cento figli di Oceano e Teti.

Come il Volturno anche l’Ombrone quando giunge al piano assume un andamento sinuoso, tale da formare numerose enclavi protette dal fiume, in oltre, il suo nome è etimologicamente affine all’etnico “Umbro”, quindi si potrebbe ipotizzare un’altra divinità fluviale, che avrebbe dato il nome anche alla tribù che abitava lungo le rive del fiume.

L’ipotesi della divinità fluviale sembra confermata da un fenomeno naturale chiamato “Brontide”, si tratta di esplosioni provenienti dalla terra, che si manifestano dalle rive dell’Ombrone fino a Cattolica. Ancora all’inizio del XX secolo si credeva che le brontidi fossero causati dal fiume, pertanto in epoche remote era facile pensare al mal’umore di una divinità. Lo stesso fenomeno delle brontidi manifesta anche in Egitto da una statua di Amenofi III, la quale al variare della temperatura emette dei brontolii.

Etimologicamente il teonimo Tinia sembra originato dal celtico “Tinne”, nome dell’agrifoglio, albero sacro al sole e ad Apollo, non a caso la consorte di Tinia è “Thalna”, che viene identificata con “Tanit” la dea lunare dei cartaginesi.

L’etimo Tinne lo ritroviamo nel nome del torrente “Tinella” che sorge tra le cime del Campo dei Fiori (l’Elisio dei pagani) a Varese, in un altro Tinella affluente del fiume Belbo in provincia di Cuneo e nell’idronimo francese “La Tinee”, un affluente del Varo.

La Tinee scorre ai piedi dell’altipiano di “Auron”, un territorio da sempre votato al pascolo, che solo nel XX secolo è stato trasformato in una stazione sciistica.

Nella lingua occitana Auron omonimo del nome antico dell’Olona è un sostantivo originato da “Aura”, sinonimo di aria o vento, quindi il vedico “Natura”, pertanto l’altipiano è da considerare un antico luogo sacro e Tinia una divinità vedica.

Tinia potrebbe essere messo in relazione anche con la città di “Thinissut”, situata alla periferia dell’odierna Hammamet, un toponimo che potrebbe essere un retaggio del passaggio degli iberi lungo le coste del Nord Africa, i quali in un secondo momento avrebbero portato il culto di Tinia anche sulle Alpi.

A Thinissut è stato ritrovato un tempio sacro al re degli dei cartaginesi “Ba’al Hammon e alla sua consorte “Tanit, che in seguito i romani consacrarono a Saturno.
Etimologicamente il nome della dea Tanit potrebbe essere identificato con quello dell’etrusca “Thalna”, che in alcune incisioni etrusche appare come moglie di Tinia e detentrice degli stessi attributi divini di Tanit.

La presenza dei Fenici nel Tirreno con i loro empori, resa necessaria come prevenzione agli atti di pirateria compiuti come abitudine da questi personaggi poco inclini alla civiltà, ha sicuramente favorito la diffusione della cultura punica tra i villanoviani e la successiva integrazione tra le due popolazioni, fino al punto da essere identificati come un unica nazione, i “Tirreni” per i greci, gli “Etruschi” per i romani, ma con ogni provabilità si riferivano ai cartaginesi e alle loro colonie,  che dominavano il Tirreno, in quanto  Cartagine era un clone di Tiro, toponimo dal quale deriverebbe l’etnonimo Tirreni.

Un esempio è la colonia di Tharros in Sardegna, il cui nome è un sinonimo greco di Tiro, altre colonie erano Palermo e Trapani in Sicilia, ma in pratica Cartagine era padrona della Sardegna, la quale essendo posta al centro del Mediterraneo era diventata il punto di riferimento di tutte le rotte marine.

I tirreni sono arrivati anche sulle Alpi, come testimoniano alcuni ritrovamenti archeologici avvenuti a Tirano (Tiràa in dialetto) che con il toponimo attestano la presenza di un emporio etrusco che commerciava con i reti degli altipiani.

Il toponimo Tiro è l’italianizzazione del lido “Tyros”, mentre il nome fenicio della città era “Sur”, e in Lidia ha origine anche la leggenda di Tyrrhenus, il mitico fondatore delle dodici città dei tirreni.

La leggenda racconta che: di fronte a una grande carestia, il re dei lidi Telefo, divise il suo popolo in due, e ne affidò una parte a uno dei due figli, Tyrrhenus, ordinandogli di condurre quella gente in cerca di una nuova terra.

In realtà considerando che i lidi erano di cultura vedica mentre i Tirreni adoravano divinità semite, la leggenda di Tyrrhenus, storicamente andrebbe messa in relazione alla carestia (documentata dagli egizi), che colpì l’Anatolia alla fine del II millennio a.C., e alle guerre con gli elleni, che provocarono la caduta dell’impero ittita.

Tale carestia diede davvero inizio alla migrazione verso l’Italia e l’Europa di popolazioni anatoliche legate alla cultura vedica, ciò coincide con l’arrivo in Europa della metallurgia del ferro, della quali gli ittiti erano stati custodi gelosi del segreto, la cui diffusione diede inizio alla cultura di Halstat, da questi eventi eventi gli autori latini, con qualche secolo di ritardo trassero ispirazione per le loro opere dai mitologici personaggi Omerici in fuga da Ilios.

Un’altra testimonianza di queste migrazioni è il vulcano “Etna”, al quale gli esuli “Palaici”, imposero il nome della loro grande dea madre e fondarono Catania (etimologicamente “Sotto la Regina”).

Mentre i Tirreni sono da mettere in relazione con le vicende della città fenicia di Tiro e alla lotta di potere tra la regina Didone e il fratello Pigmalione, che ha portato alla migrazione di una parte della popolazione di Tiro, e alla successiva fondazione di Cartagine, con il conseguente declino della città madre, tanto che nel 664 a.C., Tiro cadde sotto la dominazione degli assiri guidati da Assurbanipal, pertanto è da supporre che anche allora ci fu una migrazione della casta dominante, la quale si sarebbe rifugiata presso i cartaginesi e nelle loro colonie, contribuendo a diffondere la cultura fenicia nel Tirreno.

Testimonianze archeologiche citano il re di Caere Thefarie Velianas eletto re per volontà della comunità fenicia, il quale nel V secolo a.C., fece erigere il tempio di “Pyrgi” (nome greco dell’attuale Santa Marinella), dedicato alla dea fenicia “Astarte”, chiamata anche “Ishtar”, o “Tanit”, “Uni” per gli etruschi.

Nel tempio sono state ritrovate tre lamine d’oro inneggianti alla dea Astarte, due in etrusco e una in fenicio, segno evidente dell’esistenza di due comunità culturalmente diverse, ma che adoravano la stessa dea.

Un’altra traccia dell’esistenza di tradizioni diverse si denota anche nei rituali funebri, nei quali al tradizionale il rito crematorio dei villanoviani, a partire dal VIII secolo si aggiunge anche quello inumatorio, in uso tra alcuni fenici.

Sull’etnonimo etruschi usato dai romani, non esistono radici etimologiche che possano offrire tracce sul suo significato, e lo stesso possiamo dire di Rasenna e Rasna, anche se in questo caso si possono individuare elementi delle culture egizia e indoeuropea, come il sole “Ra” e il fiume Senna.

Considerando le evidenze archeologiche, le quali attestano la presenza di due culture diverse, una dominante e l’altra sottomessa; per l’etnonimo “Etruschi” possiamo ipotizzare le radici greche “etero” sinonimo di altro o diverso, e “archòs”, il quale indica un principe, quindi Etruschi indicherebbe una casta regnante di etnia diversa da quella del popolo.

Da non trascurare anche il greco “etairos”, sinonimo di socio, dal quale potrebbe derivare un etnonimo indicante il connubio tra due popoli.

Altri villanoviani si sarebbero integrati con gli umbri come sembra indicare il toponimo Velletri “Velester” nella lingua dei “Volsci e la città di Volsinii.

In merito a Tinia, questa divinità potrebbe essere messa in relazione con i popoli dei Tini e dei Bitini, originari anche loro della Tracia; Strabone li definiva Strimoniani, perché in origine vivevano lungo le rive del fiume Strimone, oggi chiamato “Struma”, (Acqua Nera, ma alcuni per struma fanno riferimento al greco Stroma, sinonimo di strato), il quale sorge in Bulgaria sul monte Vitosa, la cui cima più alta è chiamata “Cerni Vràh”, tradotto in “Picco Nero”, ma in perfetto linguaggio ligure si potrebbe anche leggere: “Corno Nero”, come Struma potrebbero essere i numerosi torrenti liguri chiamati Strona.

Un ramo dei tini e dei bitini migrò dalla Tracia in Anatolia, dove in prossimità del Bosforo fondarono i regni di Bitinia e Tinia, quindi data per certa l’esistenza di una regione chiamata Tinia si può supporre anche l’esistenza di una divinità omonima adorata da quel popolo. Quindi possiamo supporre che gli adoratori di Tinia erano tra i traci o danai che invasero la pianura Padana durante l’età del bronzo.

Della Bitinia si può citare il monte “Uludag”, un toponimo composto dalla radice “Ulu”, sinonimo di “Potente”, e “Dag”, montagna, considerato l’olimpo della Bitinia o della Misia. L’Uludag in turco era chiamato anche “Kesis Dagi”, la Montagna dei Monaci, il che richiama il monte “Kasio”, la “Montagna del Grande Vecchio”, quindi Tinia poteva essere la stessa entità spirituale che i cassiti chiamavano Cassio e i latini Giove. Il monte Uludag è un vulcano spento, quindi è da considerare anche un’antica sede di un culto matriarcale, non a caso la Bitinia è attraversata dal fiume Sangarius, oggi Sakaria come l’omonima città, il quale era una divinità fluviale, indicato anche come amante di Cibele, la Grande Dea Madre, alla quale era sicuramente sacro il vulcano Uludag. Da Sangarius deriverebbe anche il nome del fiume Sangro in Abruzzo.

Anche Strimone era una divinità fluviale tracia, di Lui esistono monete celtiche che lo ritraggono con un tridente, come Poseidone, quindi dobbiamo supporre che Strimone era una divinità marina pre ellenica, come il dio marino degli illiri “Rodio”, il cui nome al femminile, lo ritroviamo nel teonimo “Roda”, una ninfa figlia di Poseidone, andata sposa a “Elios”, nome greco di “Wilios”, il dio solare degli anatolici, protettore di “Rodi” e della “Ilio” omerica.

Rino Sommaruga

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I Latini

Per convinzione o convenzione, gli storici attribuiscono a Giove e Zeus la stessa entità e la conseguente continuazione del culto di Amon, massima divinità egizia.

Ma in realtà, le tre divinità anche se sono originati dalla stessa cultura primordiale hanno storie completamente diverse.

Tralasciando Amon, il re degli dei egizi, i cui culto risale almeno al terzo millennio a.C., il quale tra l’altro era una divinità dell’aria chiamato Amana nella lingua egizia e soprannominato il Misterioso, o il Nascosto, perché ritenuto presente nell’aria quindi rappresentava una forma di maschilizzazione dell’arianesimo che chiamava Aria la dea Natura.

Per quanto riguarda il culto di Giove e Zeus, bisogna precisare che si trattava di due divinità dei fulmini e quindi della conseguente pioggia che nutre la natura come la Grande Madre, quindi riconducibili alle tradizioni vediche che indicano Indra come dio dei fulmini che liberano la pioggia.

E non a caso sono la continuazione del culto di Teshup una divinità mesopotamica del secondo millennio a.C, Teshub dio del cielo e della tempesta giunto in Siria dalla vicina Armenia con gli Hurriti, un popolo indoeuropeo imparentato con i Mitanni il culto del quale sarebbe stato accettato anche dai semiti dell’alta Mesopotamia e giunto in Grecia durante il Medio Evo Ellenico, portato dalle popolazioni nomadi provenienti dalla Siria (elleni).

In Grecia per difetto di pronuncia delle popolazioni locali, Teshup diventerà Zeus, Giove per i latini Yèsῡa in ebraico, che significano tutti: figlio di dio invece per i persiani Cassiti, i quali avevano conquistato la Mesopotamia.pur essendo la stessa entità spirituale era Cassio il loro dio tribale e con lo stesso nome chiamavano la quercia, che era il suo albero sacro

Cassio Giove e Zeus e venivano identificati con il pianeta Giove, mentre la loro casa era il monte Casio, chiamato anche la Montagna del Vecchio, oggi monte Hermon, situato al confine tra Libano Israele e Siria, si trattas di una delle cime più alte che dominano la Mesopotamia.

Qui bisogna precisare che anche il teonimo Giove usato dai romani, sarebbe di origine mesopotamica in quanto è la traslitterazione dell’ebraico Yahweh (Geova per i testimoni di Geova), Il quale era adorato dai pastori shasu, che prima di insediarsi nella piana di Jezreel e fondare lo stato di Israele, vivevano proprio nel territorio della Montagna del Vecchio.

Icassiti erano una popolazione indoeuropea di origine persiana, quei barbari biondi che scendevano dai monti Zagros per saccheggiare la Mesopotamia.

Durante il regno cassita si registrano due eventi che avrebbero potuto essere causa di migrazioni, il primo fu una guerra civile, in conseguenza della quale nel 1480 a.C., la famiglia degli Ulamburiah detronizzò la dinastia Eagamil.

In seguito, nel 1155 a.C., in concomitanza con la guerra di Troia il regno dei cassiti fu conquistato dagli Elamiti, un’altra popolazione di origine Indoeuropea.

Due eventi che sicuramente hanno generato un flusso migratorio delle caste dominanti verso il Mediterraneo; infatti davanti a una sconfitta militare chi possedeva oro e pietre preziose doveva fuggire per evitare che gli venissero confiscati.

Le lettere di Amarna sono la testimonianza archeologica dei buoni rapporti allora esistenti tra l’Egitto e i cassiti, da qui forse l’aiuto per raggiungere l’Italia, allora scarsamente popolata, dove hanno portato con loro il culto di Cassio (il Giove dei latini)

Seguendo la diffusione del culto di Giove Cassio, possiamo ricostruire le vicende che hanno preceduto la nascita di Roma.

In questo ci può aiutare l’interpretazione della mitologia greca, che tra i vari miti ha generato la leggenda della regina Cassiope, la quale fuggendo dalla vendetta di Poseidone, forse una tempesta marina, trova rifugio sull’isola di Corcira (Corfù), che da allora diventerà sacra a Cassio, in quanto essendo ricca di querce, i naufraghi attribuirono il merito della loro salvezza all’intervento divino del “Vecchio della Montagna” (Cassio), al quale la quercia era sacra.

Questo lo possiamo affermare con certezza, in quanto il nome Cassiope, sarebbe composto dall’unione del teonimo Cassio, il dio dei cassiti, alla radice greca “op” sinonimo di vedere.

Ancora oggi “op” è un’esclamazione con il significato di: “attento, occhio o guarda”, quindi Cassiope era: “colei che guarda Giove”, questo mi fa pensare che Cassiope sia un nome, che come quello di Cassandra, (passa tra le querce), è stato inventato dagli autori dei poemi greci per indicare una profetessa del dio Cassio, la quale per emettere i suoi oracoli, si ispirava osservando il pianeta Giove.

Un’altra evidenza ce la forniscono ancora gli autori greci, quando affermano che Cefeo, il marito di Cassiope, era il re dei libi, quindi considerando che i greci chiamavano Libia tutto il territorio dell’alta Mesopotamia che si estendeva ai piedi delle catene montuose del Libano e Antilibano,, abbiamo la certezza che la leggenda faccia riferimento alla migrazione di un gruppo di profughi cassiti

Qui emerge una contraddizione, in quanto secondo gli autori classici il re dei cassiti, che doveva essere un adoratore di Cassio, si rivolge invece all’oracolo di Ammone, il quale era posto nell’oasi di Siwah, che si trovava nel deserto libico vero e proprio, in quanto gli egizi chiamavano Libia tutto il resto dell’Africa.

Incatenata dal padre sugli scogli in riva al mare, su consiglio dell’oracolo, allo scopo di essere sacrificata al mostro marino mandato da Poseidone a distruggere la Libia, perchè era infuriato con Cassiope, la quale aveva osato affermare che la figlia Andromeda era più bella delle oceanine, le figlie del dio marino, ma Andromeda fu salvata da Perseo, il quale dopo aver ucciso il mostro la fece sua sposa.

 La presenza nel nome di Andromeda, delle radici andro (passaggio) e meda (meta), e il fatto che l’eroina fosse legata a uno scoglio, fa pensare a un nome costruito dagli autori classici con il significato di passaggio (tra gli scogli) verso la meta.

Con Perseo nome attribuito dagli autori greci a un condottiero persiano entra in gioco un’altra leggendaria principessa, Danae un altro nome tipicamente persiano.

Nella leggenda Danae è figlia di Acrisio re di Argo, il quale in seguito a una profezia secondo la quale: sarebbe stato ucciso dal nipote che sarebbe nato dalla sua unica figlia Danae, fece rinchiudere la bambina in una prigione, dove poteva incontrare solo la nutrice; ma Zeus (secondo la tradizione ellenica), tramutatosi in pioggia d’oro (corruzione?) riuscì a penetrarvi attraverso il tetto e a sedurre Danae, generando Perseo.

Scoperta la nascita del Nipote, Acrisio lo fece rinchiudere assieme alla madre, in una cassa che gettò in mare, alla deriva, la cassa però si arenò sulla spiaggia dell’isola Serifo dove Danae e Perseo ottennero l’ospitalità del re Polidette.

Cresciuto, Perseo tornerà ad Argo con la madre, rassicurerà il nonno sulle sue intenzioni, ma durante una gara di lancio del disco, a causa del vento, lo colpirà causandone la morte, realizzando così la profezia.

Perseo addolorato per l’incidente, abbandonerà il regno di Argo, ed andrà a fondare una sua città, Micene.

In realtà il mito ellenico sulla nascita di Perseo non fa altro che riprendere un mito dei celti irlandesi, il quale ci riconduce alla nascita del dio dei galli “Lügh”, che a sua volta era nato da una divinità irlandese “Ethniù”, figlia di “Balor”, il re delle divinità fomoriariane “, che come Acrisio con Danae, in seguito alla stessa profezia, aveva rinchiuso la figlia in una torre, e successivamente gettato il nipote in mare.

All’oracolo si era sicuramente rivolto anche Perseo, il quale com’era usanza in quei tempi, per avere il consenso e i consigli del dio, sulla fondazione di una nuova colonia, doveva rivolgersi ad un oracolo divino, il quale potrebbe avergli consigliato anche il matrimonio con la cugina per mettere fine alle liti familiari. infatti bisogna considerare che gli oracoli e i sacerdoti erano come dei ministri degli esteri, e fungevano da mediatori tra i popoli e i regnanti tra i quali era possibile sancire alleanze.

Perseo è un nome che secondo alcuni linguisti avrebbe il significato di: “che distrugge e saccheggia”, ma a mio parere potrebbe avere un significato contrario, e derivare da molti aggettivi o verbi, come perseguitato, perso, o peregrino, come poteva essere un esule.

In realtà Perseo significava persiano, ed era usato come soprannome per indicare la gente non civilizzata, come chi distrugge o saccheggia, ma considerando il greco “persikòn”, da cui il latino “Persicus”, sinonimi di:” origini persiane”, Perseo va considerato come un soprannome greco del condottiero persiano che ha guidato i cassiti verso una nuova patria.

Anche il nome della madre “Danae” non è ellenico, ma caratteristico dei danai, una popolazione pre ellenica di cultura indoeuropea, che abitava la Grecia prima dell’arrivo degli elleni; infatti il nome di Danae e dei Danai sono originati dal teonimo “Danu”, una divinità primordiale di origine indiana, il cui culto era diffuso in Persia, Anatolia, Grecia e in tutta Europa, mentre in Grecia il culto di Zeus arriverà solo in epoca classica, quando “Cassiope” era già sbarcata a Corcira.

Quindi Zeus è totalmente estraneo alla nascita di Perseo, il cui padre mitologico sarebbe Cassio, pertanto il mito greco sul suo concepimento è solo il frutto della fervida fantasia degli autori greci, influenzati dallo spirito sciovinista di una società che non voleva ammettere di essere stata invasa da un popolo che riteneva inferiore.

 Quindi dalle vicende mitologiche fin qui riassunte la logica mi porta a supporre che le due principesse fossero state protagoniste di una faida famigliare, causata dalla mancanza di un erede maschio, forse la stessa che portò alla caduta della dinastia Ulumburiah e all’ascesa degli Eagamil nell’impero cassita, dove la mancanza di un discendente maschio poteva comportare la perdita del regno.

A questo possiamo aggiungere la presenza di una profetessa tra le due rivali che avrebbe potuto manipolare il pensiero del re, alla cui morte le due figlie perderanno il regno, finendo per essere esiliate.

Infatti se Cassiope sbarcherà a Corcira, Danae approderà nel Lazio, in quanto: Dionigi di Alicarnasso attribuisce la fondazione di Ardea avvenuta nel XV secolo a.C., ad opera del rutulo Pilummo, il quale aveva sposato Danae madre di Perseo, con la quale era giunto sulle coste laziali, con rutuli si indicava una popolazione caratterizzata dai capelli rossi, o biondi originaria della Persia.

Secondo Ovidio, dal matrimonio di Danae con Pilunno nascerà Dauno, a sua volta padre di Turno, il quale sarà ucciso da Enea, che incendierà Ardea.

Ovidio Nell’attribuiee l’origine del nome di Ardea si è ispirato dal volo di un airone cinerino, che si sarebbe levato durante l’incendio, appiccato da Enea, ma in realtà si tratta di una visione poetica sull’origine del toponimo, la quale ha portato alla formulazione dell’idea mitologica legata a un incendio, che avrebbe distrutto la città, mentre in realtà l’origine del toponimo va attribuita al fatto che Ardea sorge su antichi depositi di ceneri e scorie vulcaniche, quindi terra bruciata, da qui l’epiteto che “Ardeva”.

Bisogna considerare anche l’ipotesi del toponimo Ardea come corruzione o confusione di un sostantivo che indicava i presunti natali argivi della regina, o addirittura che facesse da riferimento alla città di Argo, come poteva essere “Argea, Argiva ecc.”, per esempio.

Anche Penelope viene indicata come discendente di Perseo, alla nascita venne gettata in mare dai genitori, ma venne salvata dalle anatre, che la tennero a galla riportandola sulla spiaggia, davanti al prodigio i genitori la ripresero in casa chiamandola appunto Penelope, sinonimo greco di anatra.

Il nome del re Cepheus può essere all’origine del nome dell’isola Cefalonia, mentre la mitologia greca attribuisce l’origine del toponimo a Cefalo, “Kephalos”, una divinità semisconosciuta, i cui quattro figli avrebbero fondato le quattro città più importanti dell’isola.

Che nelle isole ioniche c’era una prevalenza di cultura pre italica, ce lo dimostra il nome dell’isola “Lefkàda”, “Leukàs”, in greco antico.

Leukàs e situata a metà strada tra Corcira e Cefalonia-Itaca, ma mentre gli studiosi attribuiscono l’origine del nome alle bianche scogliere che circondano l’isola, io penso a Leukotea, la madre Matuta degli italici, dea bianca, della luce mattutina e protettrice dei parti, in ogni caso, le bianche scogliere dell’isola hanno sicuramente influito sulla spiritualità dei primitivi, portandoli a credere che l’isola fosse la casa della dea bianca.

La mia convinzione trova sostegno nel fatto che con il cristianesimo, il nome dell’isola Leukàs, fu cambiato in santa Maura, una martire del III secolo d.C., di carnagione scura e di origini mauritane, da cui il nome (il che alimenta il sospetto che si trattasse di una martire inventata a proposito), quindi una evidente volontà di cancellare un culto legato alla dea bianca, sovrapponendogli la devozione a una santa di pelle nera.

L’isola di Zante, o Zacinto, Zakynthos in greco antico, anche se non presenta tracce di cultura pre italica, ci offre una testimonianza storica sui contatti esistenti tra le isole ioniche e le popolazioni del Lazio, infatti la sua popolazione si è alleata con i rutuli (i rossi) di Ardea, per fondare la colonia di Sagunto, in terra catalana nei pressi di Valencia, I capelli rossi dei rutuli e la cultura ligure diffusa nel territorio catalano, mi fanno pensare che questo popolo fosse di stirpe umbro ligure, non a caso in lingua valenciana la città si chiama Sagunt come nell’idioma lombardo mentre in genovese diventerebbe Saguntu.

La storica e ostinata fedeltà all’alleanza con Roma, manifestata dai saguntini, fino al punto di essere sterminati dai cartaginesi, è la dimostrazione delle radici latino-cassite di Sagunto.

L’etimologia dell’etnonimo “Latino”, mi pone un grosso dilemma, che mette in dubbio non solo le mie conclusioni ma anche tutta la letteratura latina.
Infatti l’etimologia di latino è la stessa di “Latona”, l’amante che Zeus trasformò in lupa per nasconderla alla vendetta di Era, e che in questa forma partorì Apollo e Artemide.
Latino potrebbe essere il maschile di Latona, “Lupo”, o avere il significato di “figlio della lupa”, da ricordare che, anche il verbo “latrare”, è originato dal nome di Latona.

Tutto cio ci dice chiaramente che in origine i latini erano una popolazione indoeuropea, che come i danai prendeva il nome dalla loro grande madre “Latona”, che essendo madre di Apollo e Diana, il Sole e la Luna, poteva essere solo l’entità universale di tutti i popoli indoeuropei, e che gli elleni, essendo di cultura semita inseriranno nel loro Phanteon con il nome di Leto e come figlia dei titani Febe e Ceo, a loro volta figli di Urano e Gea le due divinità primordiali della Teogonia ellenica.

In origine i latini erano una società di pastori ovviamente di cultura matriarcale che celebrava i lupercali in onore di Fauno, il dio protettore delle greggi dai lupi, ma in merito alla loro Grande Madre non sappiamo nulla.

Ma considerando che ai tempi della fondazione di Roma il culto di Apollo fosse già presente, come anche quello del suo omonimo etrusco “Apulu”, devo supporre che in origine prima di Marte, i latini adorassero come Grande Madre la genitrice di Apollo, cioè la Lupa Latona, chiamata anche Leto, da ciò la tradizione dei Figli della Lupa e l’etnonimo latini.

Infatti in origine Latona era una Grande Madre protettrice dei bambini, che gli elleni hanno inserito nel loro panteon come amante di Zeus che la trasforma in lupa per nasconderla alla gelosia di Era.

In alternativa l’’etnonimo latini potrebbe derivare dal toponimo Lepini, una catena montuosa di natura calcarea, da cui il latino “lapis”, sinonimo di pietra per scrivere.

La trasposizione del toponimo in latini potrebbe essere spiegata anche dalla mutazione del toponimo “Lepinus mons” in monte Lupino, poi divenuto Lupone, dal quale si può dominare tutta la vasta pianura Pontina, la quale suggerisce anche il greco “platys”, sinonimo di piatto e largo da cui i latini “platium” e, “latium”, terra dei laziali, quindi per trasposizione latini.

In merito al culto della lupa, bisogna rivalutare la figura di Acca Laurentina, la madre adottiva dei gemelli, in quanto il suo nome potrebbe indicare un oracolo della dea lupa.
Infatti, del prenome Acca non si conosce l’origine etimologica, mentre sappiamo che è il nome di una lettera dell’alfabeto fenicio definita: “Muta”, mentre Laurentia è originato dal nome latino dell’alloro, chiamato anche lauro, albero sacro al lupo Apollo, e probabilmente anche a sua madre Latona.

Quindi possiamo supporre che il nome “Acca Laurentia”, indicava una medium chiamata: la Muta dell’Alloro, i cui mugolii emessi nelle vicinanze di un alloro sacro, venivano interpretati da un sacerdote come l’espressione della volontà divina.

Da allora Muta è diventato anche sinonimo di branco, come le persone che si riuniscono per ascoltare l’oracolo.

A sostegno dell’ipotesi che Acca Laurentia fosse una medium bisogna dire che alcuni storici del tempo, sostenevano che il fico sotto il quale furono trovati Romolo e Remo non era in riva al Tevere ma nei pressi di una grotta sacra sul Palatino, dove si celebravano i lupercali, e che nelle tradizioni greche ed italiche (Civiltà di Golasecca) il fico, in virtù del valore simbolico del latte che fuoriusciva dai suoi frutti a forma di seno, era sacro a Melissa la dea che nutre i bambini abbandonati,

Quella che i golasecchiani chiamavano Melissa per i romani era Rumina, alla quale era sacro il ficus Ruminalis, il teonimo Rumina è originato dal latino “ruma” sinonimo di mammella, dai quali deriverebbero i nomi di Romolo e Remo, e a mio parere anche il nome di Roma, in quanto i suoi fondatori erano protetti da Rumina, incarnata nella Medium Acca Laurentia, e da ciò indicati come figli della Lupa.

Da notare la simbiosi tra la lupa romana e la lögia (scrofa), dei galli, due nomi di oracoli pagani, che per i cristiani sono diventati sinonimo di prostituta.

Laurentius era anche il nome di una città che secondo la leggenda fu fondata da Enea nel luogo dove sbarcò.

Se Enea è un personaggio mitologico, Laurentium, è sicuramente un luogo dove sono sbarcati dei profughi anatolici, magari provenienti proprio da “Wilusa”, la Troia omerica, in quanto anche Plinio ci conferma che il toponimo è dovuto alla presenza di un alloro sacro, quindi possiamo ipotizzare che a Laurentium la gente adorava il dio solare di Wilusa, “Wilios” l’Apollo di Omero.

In seguito Laurentium sarà distrutta dagli ardeati, e ricostruita più all’interno con il nome di Lavinium, dove verrà ritrovato un tempio più antico di Roma, sacro al “Sole Invicto”, una ulteriore testimonianza della presenza di genti legate a culture solari.

Da considerare che Giulio Cesare, vantava l’appartenenza alla stirpe di Enea, in realtà doveva il suo nome alla discendenza dagli Juli una tribù di albani insediata nella Venezia Giulia, che ovviamente manteneva i legami sociali con le altre tribù attraverso i matrimoni.

In seguito con l’arrivo dei cassiti i quali oltre ad essere culturalmente più evoluti erano più ricchi e quindi più influenti, il culto di Cassio sostituì progressivamente Marte nelle menti dei latini appartenenti alle caste superiori, mentre i pastori (futuri fondatori di Roma) per i quali il lupo rimaneva un pericolo per le greggi, l’adorazione della lupa continuava ad essere una speranza di benevolenza divina.

In merito alla presenza di una popolazione di origini mesopotamiche si può considerare anche l’affinità etimologica tra il nome romano del Tevere: “Tibrys”, in precedenza chiamato Albula e l’idronimo del fiume Tigri, Tigris nell’antichità, da sottolineare l’antico persiano Tigrӓ, poi divenuto Tigr e il latino Tigrim (Isidoro di Siviglia).

Ai cassiti va attribuita l’origine della gens Cassia, quella che si può definire la famiglia più antica di Roma, mentre la realizzazione del primo tratto della via Cassia non fu altro che la sovrapposizione di una strada romana a un antico sentiero che partendo dal litorale ostiense raggiungeva la località di “Forum Cassii”, letteralmente “Mercato dei Cassi”, situata ai piedi dei monti Cimini, che con ogni provabilità era un emporio che serviva per commerciare con gli abitanti dei monti.

Dopo Forum Cassi la via proseguiva in direzione di san Casciano dei Bagni, un altro toponimo cristianizzato, il quale fa riferimento a sorgenti termali anticamente sacre a Cassio.

Sui Monti Cimini si sono ritrovate tracce di insediamenti umani risalenti al neolitico, continuati anche nell’età del bronzo, ma dei quali non si riesce a stabilire la cultura, tranne gli insediamenti dell’età del ferro attribuiti agli etruschi.

Tra questi monti di origine vulcanica spicca il monte Cimino, sia per la sua altezza che per il maestoso faggeto che ancora oggi lo ricopre, un ineludibile richiamo spirituale, sulla cima del monte sono tuttora presenti le tracce di una città fortificata risalente al XI, XII secolo a.C. che occupava una superficie di oltre 50.000 metri quadrati, della quale non si è ancora riusciti a stabilire il popolo di appartenenza.

Il monte sovrasta la località di Soriano nel Cimino anticamente chiamata Surano, una provabile corruzione di siriano, da comparare Soriano con l’arabo “Sūrija”, sinonimo di Siria, quindi il toponimo è un riferimento che suggerisce la presenza di gente proveniente dalla Siria o Mesopotamia, come la terra di provenienza dei cassiti; l’arabo Sūrija è comparabile anche al lombardo “suriàa”, sinonimo appunto di soriano.

Un altro riferimento ai siriani, ci viene dalla città di Sora, località la cui fondazione viene attribuita ai volsci, la quale oltre al toponimo, richiama l’origine cassita dal fatto di essere stata fondata su un colle oggi dedicato a san Casto e Cassio.

La vicinanza di tutti questi siti, dove sono attestate la presenza: sia del culto di Cassio, che il popolo dei Volsci, mi fa ritenere che prima della fondazione di Roma, la provincia di Viterbo fosse una specie di enclave cassita nel territorio dei latini, anzi essendo il territorio popolato dai volsci, si può ritenere che si trattava di mesopotamici sbarcati ad Anzio, città che fu a lungo la capitale dei volsci.

Con il tempo, il numero esiguo della popolazione e gli eventi, i cassiti hanno finito per essere assorbiti o confusi con le popolazioni preesistenti, anzi, tale fusione potrebbe essere testimoniata dal “Foedus Cassianum”, un patto sconosciuto agli storici e annalisti romani, proprio perché sarebbe stato stipulato tra latini e cassiti prima della fondazione di Roma.

In merito al Foedus Cassianum, oggi c’è la tendenza ad attribuire al console Spurio Cassio Viscellino la sua stipulazione, avvenuta nel 493 a.C., ma in realtà, Spurio Cassio Viscellino ha semplicemente ratificato con nuove città, il patto che i suoi antenati cassiti avevano stipulato con i latini, i quali lo chiamavano: “Feriae Latinae”, Alleanza con i Latini o anche “Juppiter Latiaris”, che era già stata ratificata anche per conto dei romani da Tarquinio Prisco.

Nella terra Latiaris, erano presenti anche gli albani un popolo di origine danaide proveniente dall’albania caucaside e che frattempo avevano colonizzato l’Adriatico.

Come da tradizione matriarcale si erano insediati su colline di origine vulcanica come i colli Albani che a dispetto del toponimo sono composti di roccia nera, come la terra della più antica Ardea, mentre la loro città più importante era Albalonga che secondo la mitologia sarebbe stata fondata da Ascanio, figlio di Enea chiamato anche Iulo o Eurileone, due nomi molto più realistici, specie Iulo che potrebbe fare riferimento a una parentela con gli Iuli, migrati più a nord.

Secondo la mitologia i discendenti di Ascanio regnarono su Albalonga per 20 generazioni con il nome di famiglia Silvio, il quale mi fa ipotizzare che fossero adoratori di Silvanus alter ego dell’etrusco Selvans, protettore della natura, delle selve e delle campagne, spesso associato a Marte del quale poteva essere figlio, come il suo omonimo greco Pan lo era di Ermes.

Considerando anche il suo aspetto da caprone Silvanus doveva essere altresì la stessa entità del celtico Cernunnos, e ciò escluderebbe la fondazione da parte dei troiani e sono propenso a considerare gli albensi come un popolo italico sempre di origine danaide ma presente nel territorio fin dall’età del Rame, qundi non sono i portatori del culto di Cassio, anche se  secondo i mitologi latini, sabbero stati proprio gli albensi nella persona di Ascanio a proporre ai latini l’alleanza della quecia sul monte Cavo, la cui celebrazione annuale, per i romani diventerà le “Feriae Latinae”, le quali si celebravano con una settimana di festa all’inizio di agosto, una tradizione festaiola che continua ancora oggi.
            Ma ritengo che  Enea e Amulio siano solo personaggi ispirati da condottieri provenienti da luoghi sconosciuti agli indigeni, e giunti sulla costa laziale in tempi remoti, Anche il personaggio Pilunno (Pilumnus) marito di Danae  in realtà viene indicato anche come un dio protettore dei neonati dalla furia vendicatrice di Silvanus

Anche il potere di Numitore re di Albalongala viene usurpato dal fratello Amulio a causa della mancanza di un erede maschio e la figlia Rea Silvia costretta a rinchiudersi nel tempio come vestale, dove nasceranno Romolo e Remo, che anche loro finiranno per diventare rivali della lotta per il potere.

Un destino familiare?

Rino Sommaruga
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I

Gli Elleni

In pratica dopo i gruppi di cacciatori paleolitici in Grecia cominciarono a stabilirsi i primi scandinavi e slavi, anche loro cacciatori e pastori, provenienti dalla steppa asiatica, in movimento verso Nord, al seguito delle mandrie selvatiche, ai quali a partire dal 6000 a.C. si stabilirono in forma stabile i primi agricoltori indoeuropei, provenienti dal Caucaso settentrionale, i quali svilupparono le civiltà Minoica e Micenea.

Verso la fine dell’età del Bronzo (1700 a.C.) con la caduta dell’impero ittita, i pastori semiti (gli elleni) provenienti dalla Siria invasero l’Anatolia e da li riuscirono a penetrare anche nel Peloponneso, provocando la fine della cultura micenea, e il conseguente medioevo ellenico, fermandosi solo di fronte alla potenza delle 12 città attiche, guidate da Atene.

Da qui la rivalità tra i guerrieri spartani e gli indoeuropei attici, i quali quando l’indoeuropeo Ciro invaderà la grecia loro non interverranno, convinti che i persiani volessero attaccare solo i semiti.

Alla fine, le due culture si sarebbero accordate accettando la libera convivenza tra le due Etnie, così che mentre il peloponneso adorava il panteon olimpico Atene e il nord della grecia continuarono ad adorare Athena la dea del sapere e della saggezza, generando così quella cultura classica, che oggi erroneamente viene attribuita agli Elleni.

In pratica era l’inizio della contrapposizione ideologica che continua ancora oggi tra il sapere degli indoeuropei, e il credere dei semiti.

Partendo dalle certezze, sappiamo che i pre elleni chiamati Pelasgi erano popolazioni di origine caucasica (Iberia e Albania, le attuali Georgia e Azerbaijan), i quali geneticamente appartenevano all’aplogruppo paterno “R1b” la linea genetica oggi prevalente nell’Europa occidentale, e praticavano il culto della Grande Madre Thera.

Queste popolazioni, anche se gli studiosi li definiscono “pre indoeuropei”, lasceranno nella lingua greca una traccia indelebile della loro presenza, con il suffisso “os”, caratteristico anche della lingua spagnola, in quanto anche gli iberi spagnoli erano originari del Caucaso.

Successivamente, in Grecia emerse la civiltà minoica legata al culto del toro, ma in realtà si trattava di una cultura matriarcale, che vedeva nel toro l’amante della Grande Madre, e non più il serpente, la quale, si presume che avesse come epicentro l’Isola di Creta, dove aveva sede la casta dominante, questa sudditanza del Peloponneso è dimostrata dal mito del Minotauro, secondo il quale ogni anno i proto greci dovevano inviare a Creta 7 fanciulle e 7 fanciulli da sacrificare al mostro; ciò dimostra che la grande massa della popolazione greca era ancora di etnia caucasica, anche se sottomessa ai signori di Cnosso. In realtà contrariamente a quanto lasciano intendere le leggende mitologiche, il toro era adorato solo perchè era l’amante della grande Madre Thera.

I dati geologici ci dicono che tra il 1600 e il 1700 a.C., sull’isola di Thera (oggi Santorini), caposaldo della cultura matriarcale, in quanto il vulcano era considerato la manifestazione della dea, ci fu un’eruzione distruttiva che portò allo sprofondamento della caldera vulcanica fino a 400 metri sotto il livello del mare.

A questo evento si possono collegare i tre giorni di buio e la pioggia di ceneri che secondo la bibbia ha colpito l’Egitto, mentre nella mitologia greca l’unica traccia sembra essere il mito di Atlantide, forse tramandato dai navigatori, che giungendo sull’isola dopo l’esplosione, l’hanno trovata irriconoscibile.

Gli studiosi ritengono che si è trattato di una delle più grandi catastrofi vulcaniche che hanno colpito la terra; oltre ai 10 anni di terremoti e alle esplosioni che hanno preceduto il crollo del vulcano bisogna considerare il maremoto che ne è scaturito, il quale ha portato la distruzione a Creta e in tutto l’Egeo e con ogni probabilità anche la morte di tutti i testimoni oculari della catastrofe.

Ciò ha permesso ai traci adoratori di Poseidone (il serpente Varuna) che già occupavano il nord della Grecia, di estendere la loro influenza anche nel Peloponneso che porterà alla nascita della cultura Micenea

Il tredicesimo secolo a.C., è caratterizzato dalla Battaglia di Quadesh (1274 a.C.) tra gli egiziani e gli ittiti e la contemporanea lotta di potere all’interno della città di Ilio (la Troia Omerica, Wilusa per gli ittiti) tra il principe Alaxandu il quale era vassallo dell’imperatore ittita e il ribelle Piyama Radu che si era alleato con un popolo di pastori siriani, che gli ittiti chiamavano Ahhiyawa da ciò il tribale: achei, i quali a loro volta tentavano di penetrare in Anatolia, mentre  tra gli egizi venivano chiamati Ekwesh.

In realtà si trattava di tre tribù, eoli, achei, ioni definite Elleni perché adoratori di una divinità solare chiamata El (l’Elios dei semiti), padre di Zeus.

Le notizie relative a questa vicenda sono giunte parzialmente fino ai giorni nostri grazie alle numerose tavolette d’argilla ritrovate ad Hattusa la capitale del regno ittita.

Molte tavolette sono ancora da decifrare, pertanto in futuro si potranno avere molte più informazioni sulle vicende che hanno visto coinvolto l’impero ittita.

Gli Ahhiyawa vivendo sui monti del Tauro si erano integrati con gli abitanti della Cilicia, l’antica terra dei danai, nel frattempo migrati più a nord forse proprio per allontanarsi dalle scorrerie degli Ahhiyawa, i quali per questo, pur essendo semiti si definivano danai.

In seguito alle scorrerie dei popoli del mare ci sarà il crollo dell’impero ittita, ma in questo bisogna anche considerare un periodo di siccità testimoniata da documenti egiziani, tra i quali è registrato l’invio di cereali agli ittiti colpiti dalla carestia, e non si può nemmeno escludere i numerosi terremoti che durante il secondo millennio a.C. fanno scosso l’Anatolia e il mar Egeo, eventi che hanno sicuramente indebolito le strutture statali, permettendo agli Ahhiyawa  di invadere l’Anatolia con le loro mandrie e le  greggi distruggendo i raccolti, e in seguito di arrivare anche nel Peloponneso, fermandosi solo di fronte alla potenza dei traci, che allora dominavano Atene e l’Attica, coi quali sarebbero giunti ad accordi di pace..

Con l’inizio dell’età classica Zeus prende il sopravvento su Poseidone, il dio dei micenei, forse a causa della siccità che ha colpito l’Anatolia, che ha reso inviso alla gente il dio delle acque, ritenuto responsabile della aridità dei terreni.

Il teonimo Zeus è una corruzione per difetto di pronuncia del nome di Theshup, dio del cielo e del tuono dei semiti siriani, e alter ego dei caucasici Taranis, Taru e del cassita Giove. Si può dire che anche il nome italiano di Gesù e la sua forma aramaica “Yeshua”, sono la corruzione di Teshup, in particolare Gesù è una pronuncia che si avvicina molto al nome di Zeus.

E se secondo la mitologia greca, Zeus diventa re dell’Olimpo dopo aver castrato il padre Crono, per i siriani Teshup nasce da Kumarbi, il quale rimase gravido dopo aver ingoiato i genitali di “Anu”, il dio creatore dell’universo dei sumeri, chiamato anche “An”.

Ma per i cananei di Ugarit, Kumarbi era “El”, il vero creatore, adorato dai semiti preistorici (arabi), tanto che nella bibbia ebraica inizialmente “Yahweh”, è chiamato El.

Questo rende evidente che nelle lingue semite, teonimi come Gesù, Zeus e Teshup indicassero il figlio del dio El Elohim per gli ebrei.

Atene e le altre 11 città dell’Attica rimasero Micenee, e fondarono la lega delle dodici città, le quali a parte la tradizionale ostilità con i guerrieri spartani, riconosceranno Zeus come re dell’Olimpo, ma continueranno ad adorare Athena come matrona della città e dea della sapienza, mentre Atene rimarrà la capitale culturale della Grecia, fino alla romanizzazione.

L’arrivo degli elleni segnerà l’inizio di un periodo buio che oggi viene chiamato Medio Evo Ellenico perché questo periodo non ha lasciato tracce culturali, ma soprattutto ha portato alla scomparsa della scrittura sillabica, che aveva fatto dei minoici con il lineare A, e dei micenei con il lineare B, le civiltà culturalmente più evolute.

E non a caso sarà proprio Atene la culla della rinascita culturale greca.

Dobbiamo considerare che i popoli arabi, sumeri, egiziani e quelli europei, pur appartenendo a ceppi genetici diversi, sono stati accomunati in un’unica comunità religiosa del primo neolitico, che vedeva il Mar Morto come epicentro (Göbekli Tepe), quindi hanno adorato le stesse divinità primordiali, che poi una volta separati hanno modificato eadattato alla propria lingua e convinzioni.

La divinità prima che li univa era la Grande Madre Thera, il cui culto era diffuso attraverso vari teonimi tribali ma riferentesi alla stessa entità.

Il nome di Athena, la potente matrona di Atene e figlia di Giove, secondo teologia ellenica, mentre in realtà era pre esistente all’arrivo degli elleni, in quanto: il suo essere depositaria del sapere, delle arti e della guerra la rende una divinità figlia dell’alleanza tra i saggi danai e i guerrieri traci, i due popopoli greci per eccellenza che daranno origine alla cultura micenea, con Poseidone dio del mare al posto di Varuna e Helios  (Beel in europa) signore del cielo, mentre la Grande Madre diventrerà una divinità tribale assumendo nomi indigeni.

Questa alleanza si diffonderà lungo tutto il corso del Danubio il cui nome sarà cambiato in Istro dal nome indoeuropeo della civetta “Stria”, l’uccello totemico della dea simboleggiato dalla civetta rappresentata sul suo elmo.

Il culto della Stria darà origine a molti toponimi nazionali dei paesi attraversati dall’Istro, come Istria Stiria, Austria.

Lo stesso fenomeno culturale si era già manifestato in medio oriente, con la coesistenza tra semiti e camiti, che ha dato origine al culto della divina “Athirat”, la dea della saggezza di Ugarit, una delle città più antiche, fondata in Siria dagli indoeuropei, e poi semitizzata quando gli ariani migrarono verso l’Egitto e L’Anatolia.

Athirat è indicata anche dalla bibbia con il nome di Asherat, moglie di Ba’al e madre dei suoi settanta figli. Athirat veniva raffigurata con le corna ma non aveva nessuna relazione con i culti di bovini, mentre sembra che il suo nome sia originato da radici ugaritiche, che hanno il significato di falcata, il che potrebbe essere una errata interpretazione di nomi come falco e civetta, simboli di Athena e di Horus il dio falco egiziano, il quale era figlio di Osiride la divinità primordiale egizia portatore del sapere, poi assassinato dall’invidioso fratello Seth (Caino?).

Oltre a perpetuare l’opera del padre, per vendicarlo Horus diventerà un dio della guerra, ingaggiando una lotta infinita contro Seth (l’eterna lotta tra il bene e il male?).

Il compromesso stabilito tra i micenei di Atene e i dori, secondo il quale: Zeus viene riconosciuto come re degli dei, mentre la divinità suprema su Atene rimane alla Stria, che gli elleni chiameranno Athena come Athirat, mentre per compiacenza i micenei la riconosceranno come figlia di Zeus per partogenesi, in pratica si ripropone il tema di Kumarbi che ingoia i genitali di Anu rimanendo gravido.

Secondo il mito Zeus ingoia l’oceanina Meti da lui ingravidata, e trasformata in goccia d’acqua per nasconderla alla vendetta della gelosa Thera.

Apollo, una divinità solare semisconosciuto tra i micenei, ma presente tra gli elleni, nonostante qualche contraddizione, sembra essere il sincretismo di Hubal, divinità lunare adorata ad Harran, oggi Carre, Carran per la bibbia, città posta al confine tra la Turchia e la Siria, dove abitò Abramo dopo aver abbandonato Ur.

Hubal era il dio della luna e i suoi templi più importanti erano proprio a Ur e Carran, e fu adorato dagli arabi fino alla loro islamizzazione, ed ancora oggi c’è chi lo identifica con Allah.

Hubal era la continuazione semita del culto di “Nanna”, il dio lunare dei sumeri e protettore di Ur, il cui simbolo era la “falce lunare”, mentre Carran e Ur erano le sedi dei due templi più importanti dedicati a “Nanna.

L’idolo di Hubal rappresenta un arciere con arco e faretra, le cui frecce contenute erano senza punta e impennaggi, la loro estrazione a caso, determinava un responso divino, ed Apollo oltre che arciere, era molto apprezzato come divinità degli oracoli.

In Siria era adorata anche una divinità solare femmina, chiamata “Kadesh”, come l’omonima città che le era sacra.

Quindi, considerato che nella tradizione ellenica, la divinità lunare apparteneva ad Artemide sorella di Apollo dio del Sole, si può pensare che anche tra Hubal e Kadesh ci sia stata una relazione gemellare, nella quale i greci invertendo i ruoli hanno individuato Apollo e Artemide mentre nelle tradizioni romane Artemide era sostituita da Diana, la quale impugnava l’arco e portava la faretra come Hubal, Infatti Artemide si affianca ad Ecate la dea lunare primitiva, adorata dai pelasgi e dai minoici e a Selene, sorella di Helios la divinità solare degli anatolici, chiamato anche Windos.

El era una divinità di origine caucasica il cui centro di culto era il vulcano El’Brus, dal suo teonimo si sarebbe originato quello di Helios, di Ba’al e di Be’el, che con ogni probabilità era adorato nel regno di Elam, una civiltà mesopotamica antica, della quale si conosce solo il nome biblico, evolutasi di pari passo con quella sumera; si ritiene che fossero persiani, quindi indoeuropeieuropei, e il nome la loro città più importante fu Susa, un toponimo che ritroviamo sparso per l’Italia, da citare la valle Susa con l’omonima città, e la val Sugana

Sull’origine degli elleni trovo molto interessanti gli indizi sugli aramei, una popolazione nomade semita, stanziata prevalentemente in Siria. Adoravano una divinità universale che chiamavano “El Baal”, e la sua consorte Astarte o  Isthar, identificate con il pianeta Venere, i quali si possono considerare i predecessori di Zeus e Hera.

Essendo nomadi gli aramei non hanno mai costituito un vero e proprio stato, pertanto erano in balia dei popoli coni quali venivani in contatto, quindi possono essere indiziati come autori di una migrazione graduale verso la Grecia.

Da aggiungere che le migrazioni arabe continueranno anche in epoca romana, e porteranno alla colonizzazione anche dell’Anatolia, dando origine alla cultura bizantina, e poi seguirà il periodo islamico che continua ancora oggi, quindi possiamo ritenere che in Grecia la popolazione europea è stata progressivamente sostituita da genti di etnia afroasiatica.

Un’altra divinità che tradisce l’origine semita degli elleni era “Afrodite” (Astarte), dea dell’amore, che secondo la mitologia greca era nata dal mare, dopo che “Crono” vi aveva gettato i genitali del padre: Urano; per questo era considerata anche protettrice dei naufraghi, pertanto il suo simbolo era il delfino.

Da ricordare che era individuata nel pianeta Venere, la stella più visibile del firmamento e quindi principale punto di riferimento dei naviganti e dei carovanieri. Essendo figlia di Urano deve essere considerata sorella di Crono e zia di Zeus, Hera e Poseidone.

Nelle culture minoica e micenea non si trova traccia di Afrodite, in quanto il suo ruolo era ricoperto da Thera,chiamata anche Cibele, anche se viene citata da Omero nell’Iliade; in realtà Omero usa il nome di una divinità ellenica dell’età del ferro per indicare una precedente dea  dell’età del Bronzo, con gli stessi attributi chiamata “Etna”, Grande Dea Madre dei palaici, un popolo anatolico di cultura vedica, che Omero indicava però come alleati dei troiani, con il nome di Paflagoni etnonimo in uso in età classica.

In seguito al crollo dell’impero ittita, dal quale erano stati assorbiti, i palaici migrarono in Sicilia, dove fondarono “Palikè” (oggi Paflagonia), e diedero il nome della loro dea al vulcano di Catania, dove lavorava “Adranos”, dio del fuoco e marito di Etna, quindi un omonimo del greco “Efesto” marito di Afrodite.

Afrodite viene indicata come moglie di Efesto, dio del fuoco e della metallurgia, ed essendo figlia di Urano, prima divinità assoluta del pantheon greco,  il Varuna della tradizione Vedica, la sua origine si ricollega alla tradizione primordiale della Grande Madre  che emerge dalla bocca del vulcano e si mette a creare il mondo, pertanto gli antichi attribuendo ad Urano la paternità di Afrodite senza che ci sia stata una madre, scavalcarono il culto matriarcale della Grande Dea Madre, creatrice dell’universo, ed affermarono la primigenie patriarcale.

Teia era un’altra divinità primordiale come Afrodite, anch’essa figlia di “Urano”, ma nata da “Gea”, la Madre Terra. Teia essendo indicata come madre di “Helios”, il sole, “Selene”, la luna, ed “Eos”, l’aurora, appare evidente che il teonimo è una sovrapposizione greca al nome di una divinità anatolica pre ellenica, con ciò si può comparare il nome di Teia o “Theia”, come la indicava “Esiodo”, con quello di “Thera”, la dea del vulcano in epoca minoica.

Secondo la mitologia ellenica, marito e fratello di Teia era “Iperione”, colui che precede il sole e il titano della vigilanza e dell’osservanza etimologicamente il suo nome significava “Re Superiore”, da “iper e regio”, quindi possedeva gli stessi attributi di “Varuna”, e come Varuna nella tradizione induista, rivestiva il ruolo di divinità sconfitta; infatti Varuna era il garante dell’ordine cosmico e re degli “Asura”, i quali erano le divinità sconfitte dai “Deva” (induismo), e retrocessi a demoni, i “Naga”, uomini serpente, dei quali Varuna era il re.

Nella lotta tra le divinità elleniche Iperione è uno dei titani sconfitti, che si erano schierati al fianco di Crono, contro Zeus. Nella “Teogonia”, di Esiodo e nella “Titanomachia”, di Eumelo di Corinto, viene descritta la guerra che gli dei dell’Olimpo guidati da Zeus, condussero contro i loro padri, i titani condotti da Crono, la quale si sarebbe svolta trecentoventidue anni prima della guerra di Troia e durò 10 anni.

Pertanto possiamo ipotizzare che si sia combattuta all’incirca nel 1500 a.C., periodo in cui si verificò l’esplosione del Vulcano Thera, una catastrofe sicuramente preceduta da anni di terremoti ed eruzioni, fenomeni naturali, che in funzione delle credenze di allora, probabilmente offrirono agli oracoli il pretesto per parlare di guerra tra gli dei e dopo l’esplosione del vulcano, affermare la vittoria di Poseidone sui titani e la Grande Madre.

Infatti le leggende raccontano che la guerra fu vinta grazie ai “Centimani”, mostri dalle cento mani, i quali sovvertirono l’esito della battaglia scagliando una miriade di pietre contro i titani, fino a farli precipitare nel “Tartaro” (inferno), dove Poseidone li imprigionò con una porta di metallo fabbricata apposta, e poi sigillata.

Mi sembra evidente che le leggende facevano riferimento all’isola del vulcano Thera, sede del culto della Grande Dea Madre e delle antiche divinità vediche, la cui esplosione con relativo lancio verso l’alto e conseguente ricaduta delle pietre, mise fine a un periodo di forte attività sismica, mentre lo sprofondamento di una parte dell’isola, venne attribuito all’opera di Poseidone che imprigionava i titani.

In realtà l’esplosione dell’isola Thera segnò l’inizio del regno di Poseidone, mentre Zeus divenne il re degli dei in qualità di fratello di Poseidone, solo sette secoli più tardi durante il medio evo ellenico, periodo del quale manca ogni testimonianza storica e letteraria.

In pratica la Titanomachia non è altro che un mito sincretico della tradizione vedica, con Poseidone come alter ego di Varuna signore delle acque, il quale detronizza la grande madre Thera (Danu nella tradizione vedica), e in seguito viene spodestato dal fratello Zeus, signore del tuono e del fulmine, alias Indra.

Una testimonianza della sovrapposizione di un culto semita a uno pelasgico avvenuta in Grecia, ce la offre la mitologia, secondo la quale: “Elleno”, il capostipite degli elleni, sposa la ninfa delle acque dei tessali, “Orseide”, che troviamo anche sul Damavand la terra dei danai, e che altri non è che “Artios”,  una delle matrone delle acque dei celti, l’Orsa che Domina la Frana e l’Alluvione”; adottata dai nuovi arrivati per convertire la popolazione autoctona alla religione della nuova casta dominante. Dal matrimonio tra il siriano Elleno e la pelasgica Orseide, nasceranno: Doro Eolo e Xuto, i tre capostipiti delle popolazioni del Peloponneso.

Sempre secondo la mitologia ellenica, Elleno era figlio di Deucalione, unico sopravissuto al grande dilavamento, assieme alla moglie Pirra, ma alcuni autori ne attribuiscono la paternità a Zeus; a sua volta Deucalione era figlio del titano Prometeo, il quale a sua volta, su incarico di Zeus, aveva forgiato l’uomo dal fango, e lo aveva animato per mezzo del fuoco, ma Zeus vedendo che gli uomini diventavano sempre più avidi e superbi, decise di sterminarli. Prometeo allora informò Deucalione sulla volontà di Zeus, e invitò il figlio a costruirsi un’arca allo scopo di mettersi in salvo.

In seguito Prometeo vedendo che senza il fuoco gli umani morivano, rubò il fuoco divino, per donarlo agli uomini, provocando nuovamente l’ira di Zeus che lo incatenò a una rupe sul monte El’Brus (la casa di El il creatore del mondo) mandando ogni giorno un’aquila a mangiarli il fegato, che gli ricresceva durante la notte.

Ovviamente tutto ciò è frutto della fantasia degli autori ellenici, in quanto il culto di Zeus si diffuse in Grecia durante l’età del ferro, quando il culto di Cassio, il suo alter ego persiano era già sbarcato in Albania e in Italia sette secoli prima.

Rino Sommaruga

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I Liguri. o Insubres

Quando si parla dell’epoca preromana si tende a generalizzare, attribuendo ai galli il territorio padano, una tendenza iniziata dai romani, i quali chiamavano Gallia Cisalpina la pianura Padana.

In realtà nella pianura Padana oltre alle incisioni rupestri della val Camonica risalenti all’8000 a.C., si sono trovate tracce della prima cultura di coltivatori affacciatasi sul Mediterraneo, detta “Cultura della Ceramica Cardiale”, risalente al 6500 a.C., e della contemporanea cultura dei “Vasi a Bocca Quadrata”, diffusa esclusivamente nella pianura Padana e in alcune enclave trans Alpine, quindi tracce di una evoluzione culturale superiore.

Mentre i galli erano solo gli ultimi arrivati prima della romanizzazione, i quali però pur essendo barbari, al contrario degli arabi semiti avevano l’umiltà di volersi adeguare alle culture più evolute.

Tra i popoli che a partire dal cultura della Ceramica Cardiale, tutti originari del Caucaso, che si sono insediati nella Padania, costituendo così una continuità culturale, possiamo citare i veneti allora chiamati “Wenedi” o “Windi”, = “I Bianchi”(Noi Celti e longobardi, Gualtiero Ciola), popolo di origine caucasica stanziato nell’attuale pianura veneta, l’Istria e le isole della Dalmazia, nelle quali sono sbarcati provenienti dalla Grecia, Albania e dall’Italia centrale, dove venti generazioni prima della nascita di Romolo, hanno fondato Albalonga, da ciò anche la tacita alleanza dei veneti con Roma, che non è mai stata messa in discussione.

In seguito colonizzarono le rive del mar Baltico, dalle quali a causa delle spinte generate da correnti migratorie provenienti dal Nord o dall’area del Volga e Don (i galli), gli anatolici si sono espansi verso il Nord Ovest della Francia, insediandosi nell’attuale Bretagna francese. 

Sull’origine troiana dei veneti pesa molto il dio Windos, (sinonimo di bianco) una divinità solare adorata in Anatolia dal cui teonimo avrebbe avuto origine sia il nome di Ilio, il fondatore di Troia (Wilusa) che quello di “Vinitia”, Venezia e Vienna la città Bianca.

Windos era una divinità solare e della salute, al quale in epoca romana era dedicato un tempio in nome di “Apollo Vindonnus”, situato sopra a una sorgente, nei pressi di Châtillon-sur-Senne in Borgogna; nelle fondazioni del tempio sono state ritrovate tre iscrizioni che lodavano il dio e la fonte. 

A Windo si può attribuire la sacralità su Vienna, in quanto il nome celtico della città era: “Windobona”; il significato della radice “bona” è incerto tra città, oppidum, o porto e sarebbe all’origine anche del toponimo “Bonomia”, oggi Bologna.

Windos è anche all’origine del nome della città di Lindo, sull’isola di Rodi, in quanto Helios la divinità alla quale era sacra l’isola e il suo colosso, era il teonimo ellenico corrispondente a Windos.

Il resto della pianura Padana con le Alpi, Prealpi ed Appennini, era occupata dai liguri, popolo di montanari e minatori, dediti prevalentemente all’estrazione di minerali (I Liguri E la Liguria, B. M. Giannattasio).

Popolo di incerta origine (secondo gli studiosi), ma il loro territorio i estendeva anche oltre le Alpi, nella Francia meridionale e si contraddistingue oltre che dalle tracce archeologiche, anche dalla presenza nei toponimi del prefisso “Var”, che li accomuna al culto di Varuna e alla cultura di Varna IV millennio a.C., terra situata in Romania e Bulgaria abitata dai potentissimi e ricchissimi, traci, un popolo dell’età del rame, forse mischiato con gli slavi (ceppo genetico I2)arrivati sulle Alpi in cerca di oro

In proposito, la conferma di ciò la possiamo trovare in una contraddizione, infatti tra gli studiosi di genetica, è diffusa la convinzione che la variante “U152” dell’aplogruppo “Y R1b”, sia dovuta all’arrivo dei galli, nella pianura Padana, quando invece questa variante è presente anche in Sardegna e Corsica dove storicamente i galli non sono mai arrivati,.

Nelle isole sono invece presenti le miniere di argento, alle quali erano fortemente interessati gli appartenenti alla potente cultura di Varna, quindi a mio parere la variante “U152”, farebbe riferimento ai minatori liguri di origine tracia, i quali oltre che nel territorio padano provenzale, erano insediati anche nelle due isole, dove appunto si riscontra la presenza di questa variante.

Geneticamente ed etimologicamente i liguri ci possono ricondurre a una popolazione primitiva originaria della valle dell’Indo, in quanto è attestata la presenza della cultura della ceramica cardiale, sviluppatasi nel Mediterraneo tra il VII e il VI millennio a.C., della quale si sono ritrovate tracce anche sulle Prealpi lombarde.  

Presumo che l’aplogruppo cromosomico patrilineare degli appartenenti a questa cultura corrispondeva al ceppo “G”, come risulta appartenere il coevo “Uomo di Similaun”, ritrovato sulle alpi, si tratta del ceppo genetico più antico, dopo gli aplogruppi africani e al ceppo “F”, e che ritroviamo ancora oggi presente in India, con alcune vere e proprie isole genetiche esistenti in Portogallo Spagna, Francia, Boemia, Sardegna, sulla catena alpina e appenninica, ma sicuramente in questa cultura erano presenti anche appartenenti al ceppo “R1b”. ed era stata preceduta da una cultura di cacciatori appartenenti ai ceppi genetici I1 e I2 vale a dire scandinavi e slavi.

Anzi, bisogna considerare che la cultura della Ceramica Cardiale, in Africa si è sovrapposta alla precedente cultura capsiana, la quale essendo di origine caucasica era sicuramente portatrice del cromosoma patrilineare “G”.

Pertanto possiamo associare alla cultura della Ceramica Cardiale anche i liguri, e gli Iberi portatori del cromosoma “R1b”,

I capsiani erano un popolo di pastori caucasici che aveva colonizzato la costa mediterranea dell’Africa a partire dal 10000 a.C., sovrapponendosi alla precedente cultura di “Mechta.Afalou”, e presumo che siano penetrati anche nei Balcani e in Italia.

Tracce genetico-linguistiche dei capsiani le possiamo identificare in Portogallo, nella regione della Lusitania, dove il 40% della popolazione discende dalla linea patrilineare “G”, e soprattutto parla una lingua che ha conservato spiccate caratteristiche pre indoeuropee, o pre iberiche.

La presenza dell’aplogruppo G è rilevante anche in Turchia, dove anche nei pressi del golfo di Smirne arriva al 40% mentre nel resto del paese si attesta al 20%. ed è ancora predominante nelle due Ossezie (Caucaso), e Pakistan, luogo d’origine del ceppo. L’aplogruppo “G” originatosi della valle dell’Indo si è poi diffuso a raggiera, anche nel sud della Cina e le isole del Pacifico, ma avrebbe avuto maggior successo in Europa, forse grazie ai cromagnoidi di tipo caucasico.

Da rilevare che in Sardegna, terra ligure, a fronte di un 15% della popolazione discendente dall’aplogruppo patrilineare “G”, se ne affianca un 37% appartenente al ceppo “I2a” caratteristico delle popolazioni slave, quasi assente nel resto d’Italia.

Questo dato è sicuramente dovuto al fatto che la Sardegna assieme alla Tunisia è stata l’ultima roccaforte del regno dei vandali, sulla quale si sono rifugiati dopo le sconfitte subite in Italia ad opera dei bizantini, determinando sull’isola un sovrappopolamento di gente slava, che come nelle precedenti invasioni si è insediata lungo le coste, mentre i primitivi hanno mantenuto il possesso dei monti, dove si trovano ancora oggi.

Il ceppo genetico “G” rimarrà dominante in Europa fino alla seconda metà del II millennio a.C., quando arriveranno altri popoli di origine caucasica iberi e albanesi appartenenti al ceppo “R1b”, ma meglio conosciuti come albani, pelasgi, greci, lidi, lici, ai quali seguiranno popolazioni di origine semita e africana, vale a dire i fenici e gli schiavi importati dai romani, i quali ridurranno la presenza del ceppo “G” a isole genetiche.

Contemporaneamente agli Iberi il cromosoma patrilineare “R1b” si diffonde nei Balcani con i danai, e gli Albani in Italia.

Si trattava di una penetrazione che aveva come punto di forza la cultura bulgara di Varna 4400 a.C., la cui necropoli, come testimonianza della potenza e ricchezza di quel popolo, ci ha restituito 297 tombe ricche di oggetti preziosi in oro e rame.

Nella lingua sanscrita Varna avrebbe il significato di “casta”, per alcuni indicherebbe la differenza di colore tra gli invasori Aryani e gli indigeni Hindi, ma bisogna considerare che il termine è più antico dell’arrivo dei bianchi in India e della introduzione delle caste.

In realtà Varna è una palese corruzione del teonimo Varuna e a questa divinità si deve il nome della Valacchia, la grande pianura Rumena che caratterizza il corso finale del Danubio, il fiume sacro a Danu madre di Varuna, e anche in Transilvania, troviamo la città di Oradea Mare, anticamente chiamata Gran Varadino, Magnovaradinum dai romani, Nagyvàrad dagli ungheresi e Großvardein in tedesco.

E sempre a Varuna e alla cultura di Varna si deve la diffusione nella pianura padana e nella Francia meridionale di toponimi che come Varese hanno il prefisso “Var”.

Quindi possiamo essere certi che la cultura di Varna è arrivata anche nella pianura Padana soprattutto se consideriamo che l’oro del monte Rosa e del Ticino, costituiva, una forte attrattiva per questo popolo di origine caucasica, non a caso i toponimi Alagna farebbero riferimento all’antica Alania, che in sanscrito significa “Casa della Neve”, una regione del Caucaso oggi chiamata Ossezia; attualmente lo stemma della regione, raffigura ancora le alte cime innevate del Caucaso.

Pertanto la fondazione delle due Alagna presenti in Italia, sarebbe avvenuta ad opera di cercatori d’oro, provenienti da quella regione, non a caso ad Alagna Valsesia, sono ancora presenti antiche miniere d’oro, mentre Alagna Lomellina è situata nelle vicinanze del Ticino, un fiume che anticamente veniva preso d’assalto dai cercatori d’oro.

Una traccia dell’antica presenza di popoli caucasici è la radice etimologica “gana” si tratta di un sostantivo che ritroviamo nella scrittura sillabica di sumeri e persiani con il significato di demanio, e la ritroviamo anche a Varese, terra ligure per eccellenza, nel toponimo “val Ganna”, valle dove i liguri hanno estratto grandi quantità di argento, rame e piombo.

La radice Gana è presente anche in vari toponimi alpini, come Susegana e Sugana, ma in modo inequivocabile nell’etimo longobardo “Vigano”, il quale indicava il demanio di un villaggio, quindi “vigano” significava:” Demanio del Villaggio”, in quanto etimologicamente, alla radice “gana” era stato anteposto il prefisso “Vi” derivante dal latino “Vicus”.

Nel XIII secolo a.C., tra i liguri emerse la cultura di Canegrate, situata in riva all’Olona, ma vicinissima all’aureo Ticino, e a testimonianza dei legami commerciali e culturali con la civiltà Egea, è di quel periodo, XIII secolo a.C., “il ripostiglio della Malpensa”, un ritrovamento nel quale tra i vari rottami, sono stati rinvenuti degli schinieri in bronzo, uno dei quali era identico nella forma e nel disegno a una copia di schinieri ritrovati ad Atene, in una tomba micenea della stessa epoca. Tramontata la cultura di Canegrate, sorse la civiltà di Golasecca, continuazione della prima.

In particolare Golasecca acquisiva un’importanza geografica molto rilevante in quanto essendo posta all’estremità sud del Verbanus nelle ore calde della giornata si poteva sfruttare il vento da sud che permetteva di navigare contro corrente con facilità fino ai piedi dei valichi alpini.

Nel contempo tra i liguri emergeva la tribù degli insubri, forse una federazione, della quale facevano parte i leponti, i camuni e i reti, si trattava di liguri insediati sull’arco Alpino e Prealpino tra il Sempione e il Brennero, i quali occupando gli altipiani tra l’Italia, Svizzera e Austria, potevano controllare gli scambi commerciali tra il Nord e il Sud delle Alpi, attraverso le quali transitavano minerali che estraevano anche dalle nostre montagne e l’ambra, diretti verso il sud, mentre manufatti cereali, vino e olio, provenienti dalla Grecia Medio Oriente e dall’Etruria, erano diretti verso il nord.

Il fatto di occupare una posizione in prossimità di due valli importanti come quelle del Reno e del Danubio, favoriva l’interazione degli insubri con i popoli del nord e dell’est Europeo, sui quali, grazie alla frequentazione di civiltà superiori come quelle etrusche, greche e fenicie, potevano vantare una superiorità culturale ed economica, quindi gli insubri rivestivano un ruolo dominante nei confronti dei celti, i quali si mettevano al loro servizio, sia come lavoratori che come guerrieri, ed il fatto che nel VII secolo a.C., i leponti disponessero già di un loro alfabeto, mi sembra indicativo di un livello culturale molto elevato che avevano raggiunto.

La lingua dei leponzi è stata riconosciuta come appartenente al ceppo gaelico, vale a dire il gruppo di lingue anticamente parlato nell’Europa nord occidentale, il che collega questo popolo al grande flusso migratorio iniziato dalla cultura della ceramica Cardiale (VI millennio a.C.) che ha dato inizio alla colonizzazione dell’’Europa da parte di popoli originari dell’area caucasica-persiana, e portatori della cultura Vedica.

L’unica testimonianza culturale di quella presenza la possiamo trovare nella toponomastica della Francia meridionale, e della Padania occidentale, dove spicca il prefisso “Var”, originato dal teonimo Varuna  signore delle acque e creatore dell’universo,  al quale era sacro il Piz Varuna, facente parte del gruppo del Bernina, e dall’aggettivo sanscrito “Varahi”, sinonimo di centro spirituale; pertanto si può dedurre con certezza che gli insubri o leponzi, erano sicuramente di cultura vedica, perciò assimilabili alla coeva cultura di Varna, 4400 a.C., la quale apparteneva alla civiltà dell’ascia da combattimento, una cultura di origine persiana, molto potente e diffusa soprattutto nei Balcani e nell’Est Europa, e che come testimonia la ricca necropoli bulgara, accumulava immense quantità di oro e metalli preziosi.

È da notare che l’ascia da combattimento dei persiani era chiamata sagura, un nome che ancora oggi in Lombardia è presernte nella forma diminutiva di Sigῡrìi.

E per gli insubri l’attività principale era costituita proprio dall’estrazione dei metalli, in particolare l’oro del monte Rosa e del Ticino, ma anche l’argento e il rame della val Ganna, attività alla quale associavano il dominio dei passi alpini e il conseguente controllo dei traffici commerciali tra il Nord e il sud delle Alpi.

Una testimonianza di quella cultura, potrebbe essere anche l’ipogeo presente sul monte Chiusarella, nome postumo di una montagna chiamata ancora oggi Motta Rossa; si tratta di un lungo cunicolo scavato dall’uomo, la cui esistenza era conosciuta già in epoca tardo romana, il quale penetra nella montagna apparentemente senza una ragione, anche perché secoli di frequentazioni hanno cancellato ogni traccia del passato.

Ma l’ipogeo potrebbe rientrare nella tradizione arcaica legata al culto della Grande Madre Terra, per adorare la quale i primitivi scavavano i loro templi nelle rocce, mentre il toponimo Motta Rossa è il sinonimo del vedico Aruna Chala, la montagna sacra a Danu, la Grande Madre, della quale Varuna era figlio.

Non trovando conferme nelle traduzioni del sanscrito e del avestico, devo concludere che “Chala” è una radice preindoeuropea dalla quale si è originato il celtico “Sala”, sinonimo di tempio o capanna, quindi a  mio parere nella lingua primitiva Aruna Chala avrebbe avuto il significato di “Casa Rossa”, oppure “Casa di Aruna”, intesa come casa della Rossa, pseudonimo dovuto alla caratteristica somatica dei persiani primitivi, probabilmente attribuita anche a Danu, una tradizione portata avanti dai celti con la Morrigan soprannominata “La Rossa”, la quale era la regina della palude, dotata di doppia entità, Rossa, come Grande Madre o Nera nelle vesti di Annunciatrice di Morte.

La tradizione della Motta Rossa si può associare alle Mutere del Veneto e alle Moot Hill della Scozia, colline artificiali sacre realizzate con l’argilla rossa a scopo religioso.

Tutto ciò potrebbe essere la continuazione di una cultura risalente al 9000 a.C., testimoniata dal sito archeologico di “Gobekli Tepe” (Collina Panciuta), dove un centro spirituale formato da megaliti sovrapposti a formare una T, e adornati da incisioni raffiguranti gli animali, è stato ricoperto con argilla rossa, fino a formare una collina artificiale alta più di 16 metri.

In oltre al passo della Rasa (Regina in sanscrito, ma si potrebbe sott’intendere: la dea rossa), che divide la Motta Rossa dal monte Velate appartenente al gruppo del Campo dei Fiori, sorge il fiume Olona, che in epoca medioevale era chiamato Urona, una palese corruzione di Aruna, considerato sacro alla Grande Madre, e nelle acque del quale gli insubri si immergevano per purificarsi durante la festa dell’Imbolc (purificazione).quindi il monte Velate ai piedi del quale sorge il fiume sacro, in origine doveva chiamarsi “Elate”, il nome greco antico dell’abete, albero sacro alla Grande Madre, la quale veniva identificata anche con il nome del suo albero sacro, o del fiume.

Essendo la sorgente dell’Urona situata al passo della Rasa, vale a dire ai piedi della montagna sacra alla dea, e considerando che nel dialetto lombardo con rasa si indica l’acqua regia, si può supporre che con il toponimo Rasa gli antichi indicavano il luogo dove sgorga l’acqua della regina, e con l’idronimo Urona, oppure Orona, si poteva intendere l’orina della dea, come sembra confermare la località di Orino, posta sull’altro versante della montagna, e situata nei pressi di un’altra sorgente, chiamata: Fontana della Rossa”.

Durante il secondo millennio a.C. l’Europa diventa meta di altri popoli di origine caucasica, portatori di una cultura vedica più evoluta, frutto del sincretismo religioso; una fase che avrà il suo apice con la diffusione della cultura del ferro, periodo Hallstattiano, conseguentemente ai toponimi primitivi che si conserveranno, se ne aggiungeranno altri originati dai teonimi di nuove divinità frutto del sincretismo teologico.

In particolare per gli insubri la divinità più importante era diventato Bel o Beleno, il Sole, (una forma sincretica di Mitra, figlio e fratello di Varuna), dal quale derivano molti toponimi con il prefisso Bel, ma molti altri toponimi facevano riferimento anche alle sorgenti, tra le quali possiamo trovare tracce di teonimi come Bormanus, Kephisos e Gramnos, tre alter ego di Varuna che hanno continuato la sua signoria sulle acque, ma erano considerati anche guaritori; un esempio di questi toponimi possono essere: Bormio, Borgaro, Barlam, oppure Ceppino o Cepina, in quanto l’acqua sgorga da una pietra chiamata Ceppo, che nella tradizione anatolica era la manifestazione del dio Kephisos, adorato anche in Grecia.

Esistevano anche tre divinità femminili dell’acqua che si chiamavano “Epona”, la dea che fa galleggiare le cose e protegge i cavalli a lei si deve il toponimo “Eporedia”, l’antica Ivrea, “Sulevia”, la dea che cura e disseta, e  “Artios”, l’Orsa che domina la frana e l’alluvione, Monte Orsera.

Particolarmente adorata da tutti, era Rethia Phora, la regina dei passaggi, e del popolo retico, identificata con la luna, e per questo considerata la guardiana della porta del cielo.

Il suo culto è stato sostituito dai cristiani con l’adorazione della “Madonna della Guardia”, con la costruzione di templi in suo onore, proprio sulle alture dove si celebravano i riti in onore di Rethia.

Un altro toponimo che può offrire indicazioni sull’origine degli insubri è Cassano, molto diffuso in Lombardia e in tutta Italia; trae origine dal culto della quercia, come è già attestato nel Caso di Cassano Magnago (Liber Notitiae Sanctorum Mediolani XIII d.C.).

Questi toponimi potrebbero anche trarre origine dalla presenza di comunità o empori cassiti, i quali erano adoratori di Cassio, il loro Giove, e che sarebbero giunti in Italia nella seconda metà del II millennio a.C., dove, dopo aver stipulato un trattato di alleanza con i latini (Foedus Cassianum) fondarono Ardea, erano i rutuli di Virgilio, Infatti i cassiti erano un popolo di origine persiana, i quali si distinguevano per i capelli rossi, da ciò la definizione latina di rutuli.

Come testimonianza dell’espansione commerciale in Italia dei cassiti è da considerare la via Cassia, la quale fu sovrapposta a una strada primitiva attribuita agli etruschi chiamata Veientana, la quale raggiungeva la località di “Forum Cassi”, situata ai piedi di una collina sulla quale sorge la città di Vetralla, e prosegue verso nord raggiungendo San Casciano dei Bagni, una chiara sovrapposizione cristiana a un toponimo che faceva riferimento a sorgenti sacre a Cassio.

Ovviamente a causa delle paludi e delle colline, la strada più agevole per raggiungere Forum Cassi da Ardea, passava dal territorio dove poi sarebbe sorta Roma, evento che ha cancellato le tracce della preistoria.

I cassiti conquistarono la Mesopotamia dopo aver sconfitto gli akkadi, in seguito furono a loro volta sconfitti dagli elamiti, (o susiani), e la loro casta si rifugiò in Italia e Grecia. A questa vicenda sono legate le leggende di Cassiope, Andromeda, Danae e Perseo (il Persiano).

Nel 6500 a.C., sull’atipiano iranico esisteva la città di Casian (oggi Kashan), situata ai piedi dei monti “Karkas”, terra di origine dei cassiti.

Occupando una posizione geograficamente dominante, tra le vallate del Reno e dell’Inn, gli insubri controllavano il traffico delle merci tra il nord e il sul delle Alpi, facendo così da tramite tra i popoli del nord Europa e le grandi civiltà del Mediterraneo.

Culturalmente, gli insubri erano affini ai carni che popolavano le Alpi Orientali e ai coti che dominavano le Alpi Occidentali con il territorio francese, e come tutti i popoli di origine caucasica adoravano le divinità del pantheon vedico, nelle loro manifestazioni materiali, come: alberi, montagne, pietre, sorgenti o stelle.

Nel corso del VI secolo a.C., in seguito alle pressioni esercitate dalle prime popolazioni galliche che scendevano dal Belgio, ci furono delle migrazioni verso la pianura Padana da parte dei coti francesi, i quali nel VI secolo a.C., fondarono Milano ed entrarono a far parte della confederazione insubrica.

In merito alla leggenda del principe Belloveso che condusse i galli in Italia e fondò Milano, bisogna precisare che: l’arrivo dei galli in Italia è attestato solo con la diffusione della cultura di La Tène, IV secolo a.C., e che: Belloveso non era un nome di persona, ma una locuzione che indicava un centro spirituale, che nel caso specifico significava “Dimora di Bell”, dal sanscrito “Vasu”, equivalente di dimora, da cui gli “Arta Vasu”, che nella tradizione vedica sono le dimore delle otto divinità principali: “Aria, Acqua, Cielo, Fuoco, Luna, Sole, Stelle, Terra, quindi Belloveso non era un gallico ma un discendente dei danai che durante l’età del bronzo avevano colonizzato il nord della Francia.

I galli arriveranno solo nel IV secolo a.C., con la cultura di La Tène e si inseriranno pacificamente nel contesto ligure, dando però inizio a un periodo di turbolente scorrerie nell’Italia appenninica, che si concluderà solo dopo due secoli, con la romanizzazione della Padania.

Il territorio insubre si ridurrà drasticamente dopo la sconfitta di “Clastidium”, (Casteggio Pavia), 222 a.C.ad opera del console romano Marco Claudio Marcello, il quale dopo la conquista di Milano stipulò un patto di alleanza con le popolazioni padane ad esclusione degli insubri e dei boi più irriducibili, i quali si erano arroccati sugli altopiani morenici del Varesotto del Comasco e sulle Alpi Elvetiche.

L’altopiano del varesotto si estende dalla riva del Ticino alla riva dell’Olona dove inizia il territorio comasc, il quale si estende fino alla riva del fiume Seveso, dove inizia la Brianza, che storicamente dopo la battaglia di Clastidium, ha sempre costituito una regione a se stante, in quanto i suoi abitanti si erano alleati con  gli orumbovi i e i veneti, diventando quindi clienti dei romani.

I liguri sono presenti anche nella grande storia, in quanto come mercenari parteciparono a molte guerre, in particolare si ricorda l’anno 480 a.C., quando presero parte al fianco del persiano Serse alla battaglia di Platea, nel tentativo fallito di conquistare la Grecia, in particolare Serse conquistò Atene grazie ad alcuni valorosi che approfittando della scarsa sorveglianza della rocca, durante la notte la scalarono e riuscirono a spalancare le porte della città, al grosso dell’esercito persiano, mi viene spontaneo pensare che quegli eroici scalatori, fossero i montanari liguri.

Contemporaneamente erano anche al servizio di Cartagine durante l’invasione della Sicilia orientale, dove nella battaglia di Imera furono sconfitti dall’esercito comandato da Gelone tiranno di Siracusa, aiutato da Terone tiranno di Agrigento (Le Storie Polibio).

L’espansionismo etrusco manifestatosi con la fondazione di “Felsina”, la futura Bonomia”, dei galli Boi (Bologna), e di altre colonie, come “Melpum” (Melzo), spostò i traffici commerciali dal Verbano a Como, dove sorse un’altra fiorente civiltà.

L’avvicinarsi delle colonie etrusche alle Prealpi, per gli Insubri dev’essere suonato come un campanello d’allarme, i quali sicuramente sospettavano la volontà etrusca di impadronirsi degli altipiani alpini, quindi hanno sicuramente usato il loro potere economico e l’influenza politica, per portare in Italia schiere di mercenari composte da guerrieri galli, tutti animati da una forte idiosincrasia verso gli etruschi.

La mia può sembrare una congettura, ma la coincidenza delle invasioni galliche con la fondazione di colonie etrusche nella trans Padania, ed il fatto che mossero guerra solo contro gli etruschi, rispettando l’Insubria, non può essere un caso, anzi, con l’arrivo dei galli, il confine dell’Insubria si spostò dalle Prealpi alla riva del Po.

Voglio ricordare che i senoni conobbero l’esistenza di Roma solo quando gli ambasciatori romani appartenenti alla famiglia dei Fabi, si intromisero in modo arbitrario in difesa degli Etruschi, violando l’obbligo di neutralità degli ambasciatori, uccidendo un principe dei senoni.

Chiaramente i Galli si integrarono con gli Insubri entrando a far parte della federazione insediandosi in pianura, dove fondarono i loro villaggi, e influirono soprattutto sull’accento della parlata. Gli archeologi sono restii ad ammettere che i nostri antenati liguri fossero indoeuropei, mentre la toponomastica e l’etimologia trovano scarsa considerazione, però rimane il culto della quercia, l’adorazione del dio solare Beleno e il culto delle cime a testimoniare l’opposto.

Pertanto sulla base delle leggende greche che vedono gli umbri come gli unici sopravvissuti al grande dilavamento, del quale archeologi e geologi, attribuiscono la causa all’esplosione dell’isola Santorino, un evento catastrofico che verso la metà del II millennio a.C., ha investito, direttamente l’isola di Creta, tutto il Mar Egeo il mediterraneo Orientale ed il sud Italia, mai testimoniato dagli storici antichi, ma comprovato da geologi ed archeologi, possiamo supporre che gli umbri come gli ariani erano coevi e a diretto contatto con i minoici quindi affratellati dalla stessa cultura tanto che lungo il Danubio sono state ritrovate iscrizioni sillabiche attribuite agli umbri, ma quasi identiche al “lineare a”, dei minoici, pertanto si può pensare agli umbri come a una popolazione di montanari egei migrati verso nord, per sfuggire alle calamità naturali come alluvioni e terremoti, eventi catastrofici che durante l’età del bronzo avevano reso difficile la vita nell’Egeo.

L’unica testimonianza dell’esplosione del vulcano Santorino, che con ogni provabilità ha ucciso tutti i testimoni oculari, ci viene dalla bibbia, dove tra le piaghe d’Egitto si citano anche: “la pioggia di ceneri ed il sole oscurato per tre giorni”, fenomeni caratteristici collegabili all’esplosione di un vulcano, documentati anche archeologicamente dalla presenza sul monte Sinai, nei sedimenti dell’epoca, di ceneri compatibili con quelle del vulcano Santorino, a ciò possiamo aggiungere anche il mito di Atlantide, le cui ricchezze sono state enfatizzate dal tempo e dal sensazionalismo moderno.

Anche se in modo poco chiaro Erodoto (Storie), colloca gli umbri sulle Prealpi, in quanto afferma: “dalla regione sopra gli umbri, si gettano nell’Istro (Danubio), il fiume Carpi (forse l’Isar) e un altro fiume l’Alpi, che scorrono entrambi verso nord”. A parte la confusione tra le Alpi e il fiume “Inn”, affluente del Danubio, errore forse generato dalla vicinanza dell’Alpenrhein (Reno Alpino), uno dei nomi del Reno, Erodoto si riferisce al fiume Inn, il quale attraversa il territorio degli Insubri, quindi è possibile che consideri gli insubri, come appartenenti alla stessa stirpe degli umbri.

A conferma di ciò, sulle Alpi retiche va segnalato il “Piz Umbrail”, e l’omonima: “Val Umbrail” (Giogo di Santa Maria), i quali dominano la val Müstair (valle Monastero), toponimi in lingua romancia, che continuano la cultura umbro ligure arrivata da queste parti nell’ultimo periodo dell’età del Bronzo. Una traccia del passaggio degli umbri la troviamo anche nel Cantone dei Grigioni, (Alpi Retiche), si tratta del fiume Albula, con l’omonimo gruppo montuoso dove sorge il fiume, la valle e il passo, si tratta di un affluente del Reno, che anticamente, prima della latinizzazione, condivideva il proprio nome con il Tevere, poi latinizzato con Tibrys.

L’Idronimo Albula trae origine da “Albus”, “L’Altissimo”, forse una forma maschilizzata dal teonimo caucasico “El”, una delle prime divinità materne alla quale era sacro il monte “El Brus”; Albus era meglio conosciuto come “Summano”, “Penninus”, o “Albiorix”, il re delle cime. Da Albus prendono il nome anche Albalonga e i colli Albani, i quali essendo composti da roccia vulcanica, non hanno niente in comune con il bianco e l’alba teorizzati dagli storici anzi, era tradizione dei caucasici fondare città su terreni di natura vulcanica, perchè li ritenevano creati appositamente dalla Grande Madre Terra “El”.

Altri idronimi Albula li troviamo a Tusculum e nelle Marche, luoghi un tempo frequentati dai reti, gli antenati dei reatini moderni, pertanto possiamo pensare che gli insubri erano umbri transpadani, il cui nome etimologicamente significa: “sono sopra i monti”, dal verbo dialettale lombardo “in” =”sono”, dalla preposizione lombarda “sù” = “sopra” e dal celtico “bri”, = “monti”, lo stesso suffisso “bri” lo troviamo nell’etimologia del nome degli umbri, dove il prefisso “um” è una particella indoeuropea che preceduta da un “h”, poi caduta con l’italianizzazione, significava “uomo”, da confrontare anche con il dialettale lombardo “om”, = “uomo”, quindi “uomini di montagna”, oppure con insubri si voleva anche indicare quelli che saliti sulle Alpi erano più in alto.

Ancora più significativa è l’etimologia del nome con il quale i greci chiamavano gli umbri:” hombrìkoi”, un nome composto dalla radice “hombrì”, = “uomini”, (hombre in spagnolo, hommes in francese), e da “koi” = “colli”, un sostantivo rimasto immutato nel dialetto veneto, mentre per gli storici, hombrìkoi sarebbe un riferimento alla pioggia e all’ombrello.

Sull’altipiano di Asiago troviamo una traccia degli umbri nel monte Summano, toponimo originato dal nome del loro dio delle vette, si tratta di una montagna dalla forma conica con due vette che si affacciano sulla pianura vicentina, uno splendido omphalos (centro spirituale) naturale, sul quale oltre a resti di origine tardo neolitica, nei pressi della cima più alta è stato ritrovato un luogo di culto datato al V secolo a. C.

Da citare in Toscana nella val di Nievole, anche il monte Sommano, collina di 340 m s.l.m., dove è sorta l’antica Monsummano Terme. Un altro riferimento a Summano lo troviamo in provincia di Lecco, sopra uno sperone roccioso dalla sommità pianeggiante, dominata dalla rocca dell’Innominato si trova Somasco, (nome antico Sumasca), frazione di Vercurago, nei pressi della rocca sono avvenuti ritrovamenti archeologici risalenti alla cultura di Golasecca, interessante anche il toponimo di Vercurago, originato dall’antico Vercuriaco, da cui il prefisso “Ver” a indicare un ontano sacro, mentre “riaco” indicherebbe il lago di Garlate o il fiume Adda, oppure indicherebbe un villaggio di Vertemocori situato sulla riva del lago.

Un’altra traccia dell’affinità culturale tra umbri e lombardi è il monte Somazzo,”Sumaz” in dialetto, una collina che segna il confine tra la provincia di Como e il Canton Ticino, ed ancora sul versante opposto della valle, di fronte al monte Somazzo e sopra a un altipiano sulle falde del monte Generoso, troviamo anche un paese chiamato Somazzo, si tratta di una frazione di Mendrisio, “Mendrìs” in dialetto, un toponimo nel quale troviamo la radice “dris” dal greco “drys” = “quercia”, ma anche il prefisso “Men”, il quale mi suggerisce il bretone “menhir”, “pietra grande, il che rispecchia il fatto che Somazzo si erge sopra a un lungo altipiano roccioso che domina la sottostante Mendrisio, quindi considerando anche la vorticosa sorgente che sorga ai piedi dell’altipiano, con “Mendrìs” si intendeva un menhir sacro, sul quale era posta una quercia sacra a Summano, una divinità delle cime, come potevano essere i liguri “Albiorix” o ”Penninus”

. All’abbondante sorgente che sgorga ai piedi del monte Generoso, si deve l’epiteto “Generoso”, dovuto al dio delle vette, ed è rimasto come nome della montagna, anticamente preceduto da un ipotetico “Summano Generoso”.

Penninus era anche il nome ligure del “Gran San Bernardo”, che in epoca romana fu rinominato in onore di Giove Pennino, e sul passo sarà costruito un tempio e diventerà Col de Mont Jupiter (Monte di Giove), e in seguito a causa delle differenziazioni linguistiche: “Col de Mons Joux. Qui è importante sottolineare l’affinità etimologica tra i toponimi Alpe e Appennino, mi sembra evidente che Appennino sia stato preceduto dalla forma “Alpennino”, un diminutivo di Alpe.

A testimonianza dell’importanza storica della piccolissima Somazzo c’è da segnalare il ritrovamento di una necropoli romana sotto la chiesa di San Giuseppe e un sentiero che raggiunge Somazzo, chiamato “Strada Cassana”, Cassano è il nome primitivo della quercia, quindi una testimonianza diretta, dell’antica presenza di un albero sacro.

La strada Cassana parte da un paesino posto prima di Somazzo chiamato “Salorino”, un toponimo originato dall’aggettivo antico: “sala”, sinonimo di capanna o casa, quindi “la casa del rio”, riferendosi a una grotta carsica, dove il rio scompare all’interno della montagna.

Da Salorino parte un altro sentiero chiamato “giro di Campora”, il quale risale la montagna, compiendo un lungo giro attorno a una valle, utilizzata come pascolo, per poi ridiscendere a Somazzo. Nella lingua dei celti Campora aveva il significato di “Campo di Phora”, in quanto la radice “pora”, sarebbe un riferimento a “Rethia Phora”, la principale divinità dei reti, il cui nome significava: “Regina dei Passaggi”, derivato dal greco pre ellenico “Phoros“, sinonimo di passaggio, e veniva identificata con la luna, e per questo considerata la guardiana della porta del cielo e quindi protettrice delle porte e dei passaggi, con il cristianesimo il suo culto è stato sostituito con la devozione alla “Madonna della Guardia”, i cui santuari sorgono proprio sulle colline dove si celebrava il culto di Rhetia Phora, ancora oggi chiamati Colle della Guardia.

Il prefisso “Camp” indica invece il campo, un etimo continuato dal dialetto lombardo e dalla lingua inglese, quindi Campora indicava un campo sacro alla dea dei passaggi.

A conferma del legame cultuale tra i liguri e gli umbri, nel comasco alle spalle del monte Somazzo troviamo anche Albiolo, un villaggio che ha preso il nome da “Albios”, l’altissimo, meglio conosciuto come “Albiorix”, il dio delle cime dei celto liguri alpini, corrispondente dell’umbro Summano, mentre sempre nei pressi del confine c’è la collina sulla quale sorge Drezzo (Drez in dialetto), un toponimo originato sempre dalla radice greca “drys”, forse ellenica, sinonimo di quercia.

Asiago è un toponimo che come Asia deriverebbe dalla radice sanscrita usbas”,= “aurora”, nella lingua greca “Asia”, significava: “il Paese del Sol Levante”, ed Asiago occupa una posizione geografica che la vede stretta tra due catene montuose, le quali, nel periodo invernale lasciano passare i raggi solari solo da est e da qui il giusto paragone con il paese del sol levante, a conferma dell’assenza di sole ad Asiago, la cittadina detiene il record della città più fredda “ – 31° ” stabilito più volte nell’inverno del 1942, un record da paragonare al freddo siberiano. Da considerare anche il finale in “ago” del nome italiano, il quale dovrebbe derivare dal ligure lak, quindi il nome antico potrebbe essere “Asiach”, ed indicherebbe un lago a oriente.

L’altipiano di Asiago è aggirato e diviso dalle Alpi dalla Valsugana, una valle che mette in comunicazione la pianura Padana con la piana di Trento Il toponimo Valsugana è originato direttamente dal nome della divinità fluviale Sequana, la personificazione del fiume Senna, quindi in epoca primitiva “Gana” aveva il significato di demanio, è da ritenere che Sugana indicava il demanio sacro alla dea Sequana.

Il Brenta, il cui idronimo in lingua celtica era il sinonimo del latino medioevale “Borgo”, vale a dire: “città fortificata”, il che farebbe riferimento all’attuale Borgo Valsugana, la quale in epoca medioevale era proprio una città fortificata; la fortificazione del luogo è una vocazione dell’ambiente circostante, causata dal naturale restringimento della valle; un’altra Brenta (Colle), la troviamo nei pressi del lago di Caldonazzo, dove il fiume nasce come emissario dei laghi di Caldonazzo e Levico, anche questa Brenta ha una posizione dominante sulla valle.

Dall’epoca romana sono attestati due idronomi, “Medoacus Major”, e  “Medoacus Minor”, che gli studiosi attribuiscono a due rami del Brenta, ma con ogni provabilità Medoacus era una forma latina che aveva sostituito un idronimo ligure indicante un “lago sacro”, un idronimo che seguendo il modello “Mediolanum”, si potrebbe ricostruire in “Mediolak”.

Sempre in provincia di Vicenza ci sono i monti Berici, citati da Plinio il vecchio come roccaforte dei liguri reti il cui nome deriverebbe dai “beruenses”, che assieme ai “feltrini” e ai “tridentini, occupavano le Alpi retiche orientali ma non si può escludere che i beruenses fosse il nome latinizzato di una tribù di iberi. In particolare l’origine dell’idronimo del fiume Agno e l’omonima valle collinare sono da attribuire al dio del fuoco vedico “Agni”, figlio del dio della guerra Indra.

Nei pressi di Padova i colli Euganei trarrebbero il nome dai liguri “ingauni” o “albingauni”, i quali in un secondo momento si sarebbero ritirati sulle Prealpi, mischiandosi con i reti. La presenza sui colli Euganei degli Ingauni, tribù di navigatori, originaria del territorio di Albenga, con ogni provabilità è dovuta alla loro attività di pirateria, a causa della quale sarebbero stati costretti a fuggire, per evitare ritorsioni da parte degli etruschi e dei cartaginesi, i quali allora dominavano il mar Ligure, e per lo stesso motivo, poi sarebbero entrati in contrasto con i veneti, fino a dover abbandonare anche i Colli Euganei.

Da ricordare anche i monti Lessini, nella cui toponomastica locale sono evidenti le tracce del culto degli alberi in località come: “Boscochiesanuova”, “Campodalbero”, “Campofontana”, “Camposilvano”; “Selva di Progno”, “Cerro Veronese”, “Velo Veronese”, “Rovere Veronese”.

Anche Rovereto, città trentina che ha conservato la quercia nel suo stemma, in quanto trae il suo nome dai boschi di rovere che la circondavano. La città è situata nel basso corso dell’Adige, chiamato Valgarina, un toponimo la cui radice “garina”, dovrebbe indicare una quercia ibrida che cresce nei querceti disboscati.

La presenza degli umbri sulle Prealpi venete, fa pensare che siano penetrati in Italia attraverso i valichi alpini e non dall’Istria, come sarebbe logico pensare, infatti attraverso il san Gottardo arriveranno anche in Francia, per poi scendere lungo la valle del Rodano (Rhône), da confrontare con il nome tedesco del Reno (Rhein), ma soprattutto con il nome antico del Po: “Eridano”, “Eridàa” in lombardo, in quanto nella forma italiana Rodano ed Eridano sono costruiti entrambi sulle consonanti “rdn”, il che mi farebbe pensare a un idronomo primitivo con il significato nella forma di “Rhein Danu”, vale a dire “Fiume di Danu”.

Il nome di Danu lo ritroviamo anche negli idronomi dei fiumi Danubio e Don, in particolare il suffisso “bio” che compone l’idronimo Danubio, sarebbe originato dal greco “Byos” sinonimo di vita, pertanto il nome del fiume era un chiaro riferimento a colei che con le sue acque era fonte di vita. Pertanto possiamo ritenere che all’inizio del neolitico, comunque già prima del VII millennio a.C., Danu era la massima divinità indoeuropea.

Danu era una divinità primordiale della mitologia indiana, e l’influenza del suo nome sull’idronomia europea mi fa pensare che sia stata la Grande Madre alle origini della cultura indoeuropea. Nella lingua sanscrita Danu è intesa come liquido, mentre nell’avestico (antica lingua iranica) indica il fiume, sia in forma maschile che femminile.

Teniamo presente che il culto di Danu si praticava già nel paleolitico, quindi migliaia di anni prima della formazione di lingue come il sanscrito e l’avestico, e nella sua forma originale Danu, era considerata la Grande Madre Terra che si trsformava in serpente (il fiume) per accoppiarsi con il serpentario e generare la pioggia, la quale cadendo dal cielo aveva indotto gli umani a credere che il Serpentario (Ofione) fosse un fiume cosmico.

Pertanto si può ipotizzare che con iltempo il nome di Danu sia stato associatoall’acqua o al fiume

Nel Rigveda Danu è la personificazione delle acque primordiali e la madre dei “Danava”, indicati anche come “Asura”, il panteon divino primordiale, che con l’avvento degli ariani fu sostituito dai “Deva” (induismo) e declassato a demoni. Tra gli asura possiamo citare Varuna, la divinità maschile che ha superato per importanza la Grande dea Madre Danu, e che lascerà molte tracce del suo nome nella toponomastica ligure, “Mitra”, il dio del sole, che con Varuna creatore del mondo e signore delle acque, e Indra dio del fulmine, del tuono, della pioggia e della magia, formava la prima Sacra Trimurti.

In seguito Indra diventerà il “Monarca Universale”, mentre Varuna sarà declassato a demone, re dei “Naga”, demoni dalle sembianze di uomini serpente, e Mitra perderà molta della sua importanza.

Anche nel territorio ligure il culto della Madre Terra fu sostituito da quello di Varuna, e a lui si devono i toponimi con il prefisso “Var”, mentre sulle Alpi Retiche c’è il “Piz Varuna” una montagna che gli era sacra.

In seguito il culto di Varuna sarà sostituito da quello di Indra, le cui tracce in provincia di Varese, sono costituite dal monte Monarca, titolo riservato a Indra, ai piedi del quale troviamo la località di “Induno”, un toponimo costruito sul nome di Indra e la radice celtica “Duno”, sinonimo di “Forte”, quindi “Forte di Indra”.

In particolare è molto allusivo il nome della località elvetica di “Indemini” situata in valle Veddasca nei pressi del passo del Neggia, dove inizia il sentiero che porta sulla cima del monte Tamaro, la montagna sacra a Zeus e alle divinità del toro come Indra.

Un altro indizio sulla parentela tra umbri e liguri, potrebbe essere il nome della città di Rieti, un toponimo che alcuni attribuiscono al greco “Rheino”, sinonimo di acqua che scorre, ma considerando che la città di Rieti sorge sull’antico fondale del lago Velino, poi prosciugato dai romani, trovo più convincente ed interessante il fatto che nella parte bassa del suo stemma, c’è una rete che sbarra il passaggio ai pesci, mentre il campo superiore è rosso e vi appare una dama che porge una bandiera a un cavaliere antico, il quale è dotato di uno scudo rotondo, come quelli in uso dai veliti dell’esercito romano e dei celti, e non a caso lo scudo ci riporta al lago Velino prosciugato dai romani, quindi lo stemma di Rieti è un simbolo di passaggio, e la città sarebbe stata sacra a Rhetia Phora la dea dei passaggi adorata dai reti.

Da notare che il reatino era la terra dei sabini, i quali sono considerati appartenenti alla stirpe degli umbri, coi quali però erano frequentemente in guerra, quindi non si può escludere la loro provenienza dalla Rhetia, in quanto etnonimo sabini potrebbe indicare un popolo arrivato dalle rive del lago Sebino, infatti si tratta di un idronomo e un etnonimo che avrebbero avuto origine dal nome del sebuino (Bos Indicus), meglio conosciuto come Zebù, il bue sacro per antonomasia, che da il nome al Gran Zebrù (nome celtico), una delle cime più alte delle Alpi Retiche..

Il nome del lago Velino potrebbe invece essere originato dal fatto che nell’esercito romano i veliti erano soldati armati alla leggera, utilizzati per portare il primo assalto, e per questo scopo erano reparti costituiti da reclute e da indigeni romanizzati, ma non ancora sufficientemente addestrati, pertanto il compito di bonificare il lago velino sarebbe toccato ai sabini arruolati tra i veliti, e da ciò il nome del lago e del luogo sacro a Rhetia Phora.

Il lago di Piediluco è ciò che rimane dell’antico Velino, e come il villaggio situato sulle sue rive, prende il nome dal fatto di essere situato ai piedi di un monte chiamato Luco, un toponimo derivato dal latino Lucus, sinonimo di bosco o luogo sacro, sulla cima del quale troviamo i resti di una rocca chiamata Albornoz.

La sacralità di questo monte potrebbe essere collegata alla leggenda del drago Tyrus, per placare le ire del quale si tenevano riti propriziatori, diventato poi simbolo della città di Terni, e forse anche il toponimo sarebbe derivato dal nome del drago.

Il mito di Tyrus potrebbe essere collegato a Thybris, l’antica divinità fluviale del Tevere, in quanto il fiume Nera che attraversa Terni è un suo affluente, anche la vicina Narni ha il drago nello stemma, quindi suppongo si trattava di due divinità delle acque alter ego di Varuna, il serpente figlio e amante della Grande Madre e Signore delle acque, poi ripudiato perché ritenuto responsabile dei periodi di siccità o delle alluvioni, per cui identificato come un demone dalle sembianze di drago.

Secondo la leggenda Tyrus sarebbe stato ucciso dopo essere rimasto abbagliato da un raggio di sole riflesso dall’armatura di un giovane guerriero.

Nel guerriero si può riconoscere: Lug il Lucente, che nella tradizione irlandese è nipote di Balor il Sole, e che con il cristianesimo diventerà san Giorgio uccisore dei draghi.

Voglio sottolineare il nome del cardinale spagnolo Albornoz che fece costruire la rocca, in quanto evidenzia l’antica parentela esistente tra gli iberi e gli albani, due popoli provenienti dal territorio della catena montuosa degli Alburz, che si estende tra l’Azerbaijan e la Persia.

Un altro legame tra le culture italiche con la Grecia e il mondo persiano le troviamo al confine tra la Lombardia e la provincia di Bolzano, dove nel gruppo del Cevedale troviamo L’Ortles, “Ortler” in tedesco e, “Ortèl” in lombardo, nomi di origine greca con il significato di “Monte Lontano” da oros = monte e, “tèle” = lontano, forse un riferimento a un monte ai piedi del quale vivevano gli antenati dei reti. In particolare è da citare il Gran “Zebrù”, un riferimento al bue Himalaiano zebù, quindi si tratta di una montagna che anticamente era sacra al bue, confermato soprattutto dal nome tedesco, “Kònigsspitzze”, vale a dire: “Pizzo del Re, questo significa che i reti, avevano radici almeno persiane o pakistane, mentre, l’origine Himalaiana del nome Gran Zebrù, è suggerita anche dalla forma piramidale della montagna, la quale assomiglia all’Everest, mentre il nome Himalaia è originato dal sanscrito “hima” corrispondente di “neve”, con “àlaya”, che indica dimora o casa, dal quale si origina anche il toponimo Alagna, non a caso situata ai piedi del “Sass Gross”, quindi Alagna era la casa della neve.

Sempre in merito all’origine dei liguri si possono considerare le tracce sulla provenienza dei taurini, i mitici fondatori della città di Torino, il cui etnonimo sembra originato da Tauride, uno dei toponimi utilizzati dai greci per indicare la Crimea, terra dove si adorava il Toro, ma interessata anche dalla cultura di Varna.

In realtà il nome primitivo della Crimea era Chersoneso e si divideva in Chersoneso Taurico abitato dai tauri e Chersoneso Scitico, abitato dai cimmeri, dai quali discenderebbero i cimbri.

Considerando che i greci fondarono una colonia sui resti di una città pre esistente chiamandola Cherson (Oggi Sebastopoli), etimologicamente il suffisso di Kersoneso (eso), mi fa pensare al sanscrito “Vasu” o “Vasus”, il quale significa “dimora”, da cui il celtico “Weso”, continuato ancora oggi dal francese “maison”, quindi Chersoneso significa: “Dimora di Cherson”, e chi poteva essere questo Cherson se non una divinità taurina come Cernunnos? In oltre il nome di Sebastopoli ha il suffisso “poli”, che nei toponimi assume il significato di “polis”, sinonimo di città, quindi con il prefisso Seba sinonimo di sebuino Sebastopoli indicherebbe la città dei taurini.

Da ciò possiamo dedurre che nel Chersoneso Scitico si adorava Cherson nella forma di cervo, mentre nel Taurico era rappresentato dal toro.

Chersoneso è un toponimo diffuso in tutta l’area egea, anche in Sicilia, si tratta di una città perduta, anticamente situata nei pressi di Siracusa, e in Piemonte con Cherasco in provincia di Cuneo, un toponimo che significa: “Cherson Nascosto”, vale a dire un luogo dove: per sfuggire alla “Santa Inquisizione”, si celebravano riti segreti in onore di Cernunnos”, che il cristianesimo aveva indicato come “demone”.

Ancora più convincente è il Chersoneso Cimbrico, vale a dire la penisola dello Jutland, cioè la Danimarca, la terra dove migrarono liguri e danai, dai quali ha preso il nome. Il toponimo Danimarca contiene la radice franca “Marca”, che nel Medio Evo sarà il marchesato, vale a dire una regione di confine, quindi era la regione dei “Dani o Danai”.

Tra le città italiane fondate da gente proveniente dal Chersoneso, possiamo citare anche Olbia e Neapolis (Napoli), la cui fondazione viene attribuita ai greci durante l’età del ferro, ma sicuramente è avvenuta su insediamenti pre esistenti fin dall’età del bronzo.

Tra i siti archeologici della Olbia sarda, spicca il “Pozzo sacro di Sa Testa”, uno dei tanti templi sardi che accomunano la cultura sarda ai golasecchiani, che a Como realizzarono il pozzo sacro della “Mojenca”. In particolare bisogna citare il pozzo sacro di Gàrlo in Bulgaria che accomuna la cultura dei Traci con la Sardegna e la cultura ligure.

Da aggiungere che il Chersoneso era compreso tra due fiumi, anticamente chiamati “Hypania”, oggi “Boug Meridional”, proveniente dalla Podolia (centro Ucraina), e il “Kouban”,il quale sorge sul monte El’Brus, la montagna sacra degli iberi caucasici, quindi Hypania è un idronimo da mettere in relazione a una divinità fluviale appartenente alla cultura ibera, dal quale si sarebbe originato anche il nome della Spagna.

In particolare bisogna sottolineare l’etimologia del toponimo Podolia, in quanto il suo territorio era una vastissima palude oggi quasi completamente bonificata, dalla quale si alimenta il Boug, lo stesso vale anche per la confinante Polesia, ancora oggi la più grande palude d’Europa attraversata dal Pryp”jat’ (chiamato anche Pina), perchè tutto ciò ci riconduce al Po, al polesine e alla valle Padana, che a sua volta anticamente era una vasta palude, quindi abbiamo fiumi e pianure che traggono il proprio nome da radici etimologiche comuni.

Etimologicamente trovo molto indicativo il sanscrito “Apadana”, è un termine che indica una grande sala ipostila, vale a dire: chiusa su tre lati e completamente aperta sul lato frontale, praticamente un tempio o una sala del trono dove il popolo poteva adorare gli dei o ossequiare il sovrano dall’esterno. Quindi con apadana, sia dal punto di vista etimologico che figurativo, possiamo già individuare un padiglione, come potrebbe essere la pianura Padana, con le Alpi e gli Appennini a fare da colonne sui tre lati e il Monviso a fare da altare, trono o podio, come dimostra il suo nome Viso, originato dal sanscrito “Wasu” sinonimo di dimora del re, mentre il lato aperto si affaccia sul mare e la pianura veneta.

L’origine dell’aggettivo è indoeuropea e deriva dal sillabico elamita “ha-ha-da-na”, continuato dal sumero “ap-pa-da-an”, ma aveva anche il significato di: “arrivare a”, “magazzino”, “nascondiglio”, per poi diventare definitivamente palazzo. Considerando che Apadana contiene il teonimo Danu, il significato primordiale doveva essere palazzo di Danu, all’interno del quale scorreva il “Fiume di Danu” chiamato appunto “Rheino Danu”.

Allo stesso modo il nome moderno del Po è derivato dalla radice sanscrita “Pà” va inteso come il padre che nutre e protegge, per cui abbiamo il persiano “Pad”, sinonimo di protettore, da cui il latino Padus, e “Padshiah”, sinonimo di Pascià, vale a dire: “Padre e Monarca”, chiamato “Baal”, che gli akkadi chiamavano “Bèlu”, Beel o Beleno per i liguri, per i quali sostituito la Grande Madre Danu, per cui Beel sarebbe il monarca che dimora sul monte Viso

Originariamente Baal o Bèlu significava solo “Dio”, che divenne il nome del dio dei fulmini dei semiti, mentre per i liguri divenne una divinità solare chiamata Beel o Beleno.

I galli invece arrivano alla spicciolata a partire dal IV secolo a.C., forse in aiuto dei Liguri pressati dall’espansionismo etrusco.

Gli storici si limitano ad assimilarli alla cultura di “La Thene”, ma La Thene o Halstat, sono solamente siti archeologici dove miracolosamente si sono conservate tracce del passato, quindi punte di iceberg sommersi dal tempo, che rappresentano un fenomeno di vasta portata, del quale non possiamo conoscere la vera origine.

Anche la questione legata alla cultura celtica deve essere chiarita in modo definitivo, perché la si continua attribuire ai Galli, quando questi erano solo gli ultimi arrivati

In ogni caso la civiltà di “La Thene rappresenta un’epoca preistorica sicuramente coeva all’espansione dei galli, i quali però si distinguevano fortemente dai celti e dai liguri, per una cosa fondamentale, non sopportavano il sole, il caldo e la fatica, mentre i liguri erano famosi per essere guerrieri e lavoratori infaticabili, ancora peggio andava quando i galli bevevano il vino, del quale erano golosi all’inverosimile, ma su di loro la bevanda aveva un effetto opposto a quello della “pozione magica di Asterix”, e tranne qualche caso di escandescenze, li rendeva praticamente inoffensivi, da ciò le loro disastrose sconfitte dopo aver assaporato il … “calice” della vittoria”.

Tito Livio racconta (Storia Di Roma dalla Sua Fondazione) che il cartaginese Asdrubale, dopo aver sorpreso i componenti dell’intero corpo di guardia gallico, in preda ai fumi dell’alcol (avevano rubato il vino dalla dispensa), li fece trucidare direttamente sul posto.

I galli venivano descritti: alti, biondi, occhi azzurri e bellissimi, praticamente il prototipo del modello ariano, quindi considerando che la loro cultura era ariana, in quanto esistono tracce che legano la cultura gallica alla civiltà di Samara, una cultura molto antica VII millennio a.C., che trae il nome dalla città di Samara, situata alla confluenza dell’omonimo fiume nel Volga, e che l’archeologa e linguista lituana, Marija Gimbutas, indicò come la patria della lingua indoeuropea.

Pertanto devo ritenere che i galli facessero parte della IV° ondata kurgana, che come le precedenti, durante l’età del ferro partì dalle rive del Volga , ma che trovando l’area mediterranea ormai costellata da potenze in grado di ostacolare nuove intrusioni, costringerà le tribù nordiche, quindi non acclimatate alle temperature del Mediterraneo a  scendere verso Ovest e a mischiarsi con le tribù scandinave e slave, che allora popolavano l’area baltica, e il nord dei Balcani, da dove in seguito invaderanno le due britannie e l’Italia.

Ciò ci viene dimostrato anche dalla vicenda dei Boi, i quali pur essendo giunti in Boemia e in Baviera, per entrare in Italia, dovettero prima fare il giro delle Alpi.

Giro che fecero anche i senoni, i quali furono più fortunati, perché giunsero in Italia con la benevolenza dei liguri, forse in funzione preventiva, prima che la pianura Padana fosse romanizzata, ed operarono le loro scorrerie sempre a sud dell’Appennino.

La loro massima divinità era “Lug”, il Lucente, e come Varuna gli era sacra la quercia e si incarnava nel cinghiale, che era chiamato “Varaha”, (Mocco per i cristiani), ma molto probabilmente si trattava di un condottiero che i galli hanno divinizzato, in quanto: Lug, o “Lugal” era un titolo nobiliare che i sumeri attribuivano alla massima autorità, al quale erano attribuiti: sia le funzioni di capo temporale che spirituale.

Infatti non bisogna dimenticare che la cultura indoeuropea si è sviluppata dalla stessa radice dalla quale sono nate anche la cultura sumera e quella semita.

A ricordo della loro terra d’origine, i galli porteranno in Francia il nome Samara, attribuendolo a un fiume oggi chiamato Somme, e chiameranno Samarabriva (Ponte sulla Samara) la loro capitale, oggi Amiens.

Il toponimo Samara è arrivato anche in Italia portato sempre dai galli, i quali hanno fondato l’italiana Samarate, “Samarà” in dialetto, cittadina situata in riva all’Arno di Gallarate, il che rafforza la mia convinzione che Samara era il nome di una divinità fluviale.

Un altro legame tra i galli e il mondo ariano, è la leggenda sulla nascita del loro dio Lug, la quale fondamentalmente ricalca la vicenda di Perseo e della madre Danae.

A Lug verrà attribuito un figlio semidio chiamato Sètanta, ma soprannominato Cù Chulain il quale era un guerriero invincibile, dotato di una forza straordinaria, ma che come Ercole morirà giovane avvelenato.

Dopo la sconfitta di Clastidium gli insubri formarono una linea fortificata che si estendeva da Somma Lombardo, in riva al Ticino, dove il fiume scorre profondo, fino a Cermenate, nella valle del Seveso, altrettanto profonda, scavalcando la valle Olona, sfruttando  un ciglione naturale alto una trentina di metri, la cui fresatura nei luoghi fortificati permetteva di ricavare una parete verticale di almeno quattro metri, ai quali si aggiungevano le numerose paludi alimentate dai torrenti che scendevano dall’altipiano, rendendo così il territorio sottostante impraticabile.

Gli storici romani raccontano che gli insubri fondarono 28 cittadelle fortificate e chiamarono a presidiarle altri 50000 galli, ma non ci forniscono i nomi di queste città.

Una delle 28 cittadelle fortificate fu certamente Cardano al Campo, “Magus Cardunum”, nella lingua dei celti, il cui toponimo era un sinonimo di: “Campo Fortificato dai Carri”.

A Cardano al Campo gli insubri dovettero isolare un ronco che si estendeva verso sud, declinando nella pianura, il quale favoriva un eventuale attacco, e a questo scopo fu scavata un’ampia trincea, dove oggi passa la superstrada per la Malpensa, ed il materiale di risulta fu ammucchiato sul fianco destro della val d’Arno, con lo scopo di collocare il villaggio ancora più in alto.

Dopo qualche anno gli insubri tornarono ad occupare la pianura grazie all’arrivo di Annibale e del suo esercito, il quale fondò una base logistica nel territorio di Busto Arsizio, allo scopo di arruolare mercenari e acquistare ferro dal nord Europa, per fabbricare armi, utilizzando come merce di scambio i cereali della pianura Padana.

Non a caso gli archeologi, hanno riscontrato nel territorio bustese tracce di un’intensa attività metallurgica, che può essere confermata anche dal nome della vicina Busto Garolfo, il cui toponimo avrebbe il significato di “Bosco Garo”, oggi comunemente chiamato “Gariga”, un bosco formato da cespugli come la quercia garina,  un cespuglio che ricresce sui ceppi delle querce tagliate, un fenomeno che ha dato origine anche al toponimo “Vallagarina”, una valle del trentino anticamente ricca di querceti, dove come nel bustese si è svolta un’intensa attività di disboscamento, tanto che ancora oggi lo stemma della città di Rovereto è costituito da una quercia.

Un riscontro sulla presenza di una gariga lo troviamo nella vicina Villa Cortese, un villaggio fondato dai romani, in quanto lo stemma del paese ritrae un ceppo di quercia, sul quale sta ricrescendo un ramo.

Purtroppo non esistono notizie sull’origine dello stemma e nemmeno su eventuali nobili del luogo, se non i feudatari della Burgaria, gli stemmi dei quali non contenevano riferimenti alla quercia o ai suoi ceppi; quindi il ritrovamento di un sarcofago romano del I secolo d.C., con il toponimo Villa, caratteristico delle case coloniche romane, ci dice che il luogo era abitato da un latifondista Romano, i cui beni si estendevano sull’attuale Busto Garolfo, il quale avrebbe imposto al latifondo e al villaggio dove vivevano i suoi schiavi il nome di Bosco Garo.

Toponimi come Borsano e Sacconago, facenti parte del comune di Busto Arsizio, fanno riferimento alla città vecchia di Cartagine, che la regina Didone avrebbe chiamato “Bozra” sinonimo fenicio del greco “Byrsa”, il quale indicava una borsa a forma di sacco, in ricordo di un sacco pieno d’oro, con il quale la regina pagò la terra acquistata dagli indigeni.

Nel centro storico di Busto Arsizio sono state ritrovate tracce di armi romane e fondamenta di torri che gli archeologi hanno attribuito agli etruschi, un ipotesi che a mio parere andrebbe rivista, in quanto dopo il ritorno di Annibale a Cartagine ci fu un generale cartaginese di nome Amilcare, il quale guidò gli insubri alla conquista di Piacenza, uno dei granai romani, e subito dopo venne ucciso mentre tentava di conquistare anche Cremona, l’altro granaio, quindi dobbiamo supporre che le torri facessero parte di una città fortificata dei cartaginesi, i quali essendo fenici, le tracce della loro cultura potevano essere facilmente confuse con quelle degli etruschi, un popolo italico ma di cultura fenicia.

Sconfitta definitivamente Cartagine i romani tornarono a Milano e andarono alla conquista definitiva dell’”Ager Insubres”: la terra degli insubri, poi chiamata “Sibrium”, e italianizzato in “Seprio”.

Tito Livio racconta che dopo la conquista di Como le 28 cittadelle si arresero, ma in realtà la vicenda non può essersi svolta in questo modo, in quanto per arrivare a Como i romani dovettero prima superare la linea fortificata che vi ho appena descritto, per poi assediare una città posta sopra a un colle circondato da una grande palude e penetrabile solo dai monti posti alle sue spalle, un’impresa impossibile, per cui considerando le notevoli concessioni ottenute dagli insubri, nel trattato di pace, possiamo ritenere che in realtà si è trattato di un compromesso pacifico, che però ha visto degli scontenti tra gli insubri, i quali si sono ritirati ancora più in alto, nelle Alpi svizzere.

La stessa migrazione si ripeterà nel III secolo d.C., quando per sfuggire alle persecuzioni dei cristiani, molte persone di religione vedica fuggirono in Svizzera, mentre quelli che cercarono rifugio sul Campo dei Fiori, furono sterminati durante la battaglia di Velate, grazie alla compiacenza e ambiguità del governatore di Milano Aurelius Ambrogius, poi proclamato santo.

In realtà la strage degli ariani sarebbe stata compiuta da una legione cristiana di origine africana, come dimostra la Madonna Nera posta da sant’Ambrogio sul monte Velate, che fino ad allora era sacro alla Grande Madre Vedica.

Gli eventi di quel periodo sembrano dimostrare che si trattava della legione mauritana, allora comandata da: Magno Massimo, detto anche Massimiano, un generale di origine iberica, proclamato Imperatore delle Gallie, dalle legioni che si erano ribellate, perché i legionari ariani (alani e goti) arruolati nel caucaso dall’imperatore Teodosio erano pagati di più.

È attestato che i ribelli si misero in marcia verso Mediolanum, la città capitale e più ricca delle Gallie, per affermare il potere, di Magno Massimo, con il quale Sant’Ambrogio tentò di mediare la pace per conto dell’Imperatore Teodosio I, contro il quale i mauritani poi si mossero, incontrandolo ad Aquileia, dove furono sconfitti e Magno Massimo fu condannato a morte e giustiziato nel 388 a.C.

Quindi è ipotizzabile che la strage di Velate, della quale si ha  solo un ricordo verbale legato alla Madonna Nera posta nel sito dopo la strage, sia stata opera di un esercito in rivolta per questioni economiche, e inferocito anche dall’odio religioso, in quanto il monte Velate essendo un luogo di culto ariano da molti secoli, per non dire millenni, i suoi santuari dovevano essere tra i più ricchi di tutto il mondo vedico, pertanto è plausibile credere che i mauritani li avrebbero depredati proprio in segno di rivalsa economica.

Tutto ciò è plausibile anche in funzione del fatto che secondo le tradizioni delle religioni pagane, profanare i templi era un sacrilegio punito dalla vendetta degli dei, invece secondo le tradizioni cristiane ed ebraiche, chi profanava un tempio pagano e rubava il tesoro delle divinità vediche, doveva portare il bottino al tempio dove veniva purificato e tramite un’offerta a dio, questi li avrebbe protetti dalla vendetta degli dei.

(Una tradizione occulta ma ancora in uso nel mondo cattolico, che paralizza i tribunali della giustizia civile)

A tale ragione che san Calimero vescovo di Mediolanum, nel 280 d.C. venne condannato perché istigava i giovani a profanare i templi pagani.

La ragione per la quale in una città fondata sulla libertà di culto cristiani ed ebrei erano perseguitati; una dura verità che loro negheranno all’infinito.

In seguito alle vicende sopra descritte il Sibrium rimase una regione sovrappopolata da persone culturalmente affini tra loro, dove non fu possibile introdurre colonie romane fino all’arrivo dei cristiani, ciò permise la continuazione di una cultura che riemerse nel medio Evo durante le Guerre tra Milano e il Barbarossa, e in tutta Italia nelle lotte tra guelfi e ghibellini.

Infatti Carlo Magno, pur dichiarando il cristianesimo religione di stato e proibendo i culti pagani, nel proclamare il Sacro Romano Impero, reintrodusse il principio romano della sacralità dello stato e quindi dell’imperatore, ma il fondamento si perse dopo la sua morte a causa del figlio Ludovico il Pio, il quale come dice il soprannome, regnava con il sostegno della chiesa, a scapito dei fratelli deceduti anzitempo.

Sopravvisse però una forma di pensiero chiamata “Gallicanesimo”, che vagheggiava la laicità dello stato, il quale ispirò le lotte tra guelfi e ghibellini, e la nascita delle religioni protestanti, le quali riconoscevano l’imperatore come massima autorità.

Ed è in questo contesto che ha origine la guerra tra Milano e il Barbarossa, con il Sibrium, Como, Pavia, novara, Vercelli e i popolani milanesi, alleati dell’imperatore contro lo strapotere del patriarcato Ambrosiano, sostenuto dal papa e dalla repubblica Veneziana.

Rino Sommaruga

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La Bretagna E Le Invasioni dei Gaelici

I primi europoidi ad abitare le isole britanniche sono stati i pitti, un popolo misterioso del quale si è perso traccia, e sono rimasti solo pochi ricordi spesso incoerenti con le evidenze storiche e archeologiche.       

Roberto D’Amico in “Il Segreto dei Pitti”, cita alcune tradizioni medioevali sui pitti, per esempio: nell’anno 731 d.C. in “Storia della Chiesa” (Britannica), il venerabile Beda racconta che i pitti, giunti in Irlanda dalla lontana Scizia, ottennero dagli Scotti della terra al nord della Britannia, ma siccome i Pitti erano senza donne, gli Scotti offrirono loro anche le figlie.


      Nel secolo XII, lo storico Islandese Snorri Sturlasson in “Historia Norvegiae”, descrive i pitti come dei pigmei che vagavano di mattina e di sera, mentre a mezzogiorno si nascondevano dentro a buche scavate nel terreno.

Nel De Bello Gallico, Giulio Cesare raccontava che i pitti avevano l’abitudine di dipingersi il corpo; Cassio Dione ed Erodiano, due storici greci del terzo secolo d.C., parlano dei caledoni, i pitti che abitavano il nord della Gran Bretagna, come di gente insensibile al freddo e alla fame, che girava nuda e si immergeva frequentemente nell’acqua, rimanendovi anche per giorni interi, non usavano corazze o elmi, non conoscevano l’oro, il ferro era il loro simbolo di ricchezza, con il quale fabbricavano le “Torque”, ornamenti che portavano al collo (i galli le portavano d’oro).

Tacito invece parla degli harii, una popolazione germanica di origine proto finnica, spesso confusa con gli ariani indoeuropei, i quali avevano l’abitudine di dipingersi il corpo di nero e di attaccare il nemico di notte.

La tradizione popolare vuole che si coprissero con una pelle di orso, animale sacro per le popolazioni proto finniche; ancora oggi simbolo della Russia, e che vivessero in caverne, si cita anche la ferocia di questa gente, che attaccava tutti, creando problemi pure ai vichinghi.

Altre tradizioni greche ed irlandesi vogliono, che i pitti, originari della Scizia, siano emigrati dalla Tracia e dopo aver circumnavigato la Spagna siano giunti in Irlanda e nel Galles, ma come abbiamo già visto i pitti erano la popolazione autoctona dell’irlanda, mentre gli immigrati dalla Spagna erano gli iberi, conosciuti nelle 2 Bretagne anche come “Milesi.

I galli provenienti dalla Scizia invece venivano definiti: alti, biondi, occhi azzurri e bellissimi, praticamente il prototipo del modello ariano, quindi affermare che i Pitti o i finnici fossero i galli è impossibile, in quanto esistono tracce culturali che legano le tradizioni galliche alla civiltà di Samara, che l’archeologa e linguista lituana, Marija Gimbutas, indicò come la patria della lingua indoeuropea.

La civiltà di Samara è una cultura molto antica, che trae il nome dal fiume Samara, alla cui confluenza nel Volga, sorgeva l’antica città. 

L’idronimo Samara è arrivato in Francia con i galli ambiani, i quali hanno chiamato Samara il fiume francese Somme, e Samarabriva (Ponte sulla Samara) la loro capitale, oggi Amiens.

       Il toponimo Samara è arrivato anche in Italia portato sempre dai galli, i quali hanno fondato l’italiana Samarate, “Samarà” in dialetto, cittadina situata in riva all’Arno di Gallarate.
        A conferma dell’esistenza di una divinità fluviale indoeuropea chiamata Samara si può citare anche una coeva civiltà di Samarra, situata nella Mesopotamia medio alta, lungo la riva est del Tigri.

La Presenza di ceramica cardiale tra le pietre dei santuari megalitici inglesi, mi fa pensare che un piccolo gruppo di agricoltori caucasici provenienti dalla Francia abbiano acculturato e avviato all’agricoltura i primi abitanti delle isole Britanniche i così detti Pitti o Britti da cui il toponimo Britannia, ma non si può escludere anche l’arrivo dei pastori capsiani.

Ciò sembra essere simboleggiato dal sito archeologico di Avebury, datato 5000 a.C., il quale potrebbe simboleggiare la fusione di due culture, un’ipotesi che trarrebbe conferma dal mito legato al culto di Ethniu, una Grande Madre, che avrebbe favorito la fusione dei pitti (o Fomoriani) con i figli di Mil, e in seguito con i Tuata de Danann.

Ciò sembra avvalorato dal fatto che il teonimo Ethniu, è etimologicamente affine al greco “Èthnos”, sinonimo di etnia, quindi ritengo sicura la teoria che si trattava di una divinità multietnica, come il norico Teutatis.

Gli esami antropologici dei resti umani ritrovati nei santuari, e risalenti a quel tempo, ci dicono che i pitti erano una popolazione dolicocefala, quindi, considerando che gli appartenenti al ceppo genetico “R”, in origine erano brachicefali, posso dedurre che si trattava degli scandinavi, i quali sono portatori di un ceppo genetico più antico, classificato con la sigla “I”, in pratica si trattava dei primi cacciatori raccoglitori neolitici che hanno colonizzato il nord Europa.

La successiva costruzione di Stonehenge, si rese necessaria anche come strumento per poter seguire il corso della natura e determinare con precisione il momento della semina.

Stupisce il fatto che in epoche primordiali la gente riuscisse a occuparsi di opere faraoniche, ma bisogna considerare che la società agricola primitiva, era fondata sulla collettività, tutto apparteneva alla dea Natura, per cui sotto la direzione del sacerdote, tutti dovevano contribuire con il lavoro e tutti partecipavano alla divisione dei frutti.

Una condizione che permetteva l’utilizzo della massa lavoro in modo flessibile, secondo i tempi dettati dalla natura, quindi esauriti i lavori nei campi, c’era il tempo per dedicarsi alla propria casa, orto e pollaio, ai lavori pubblici come strade e canali per l’irrigazione, e il tempo da dedicare al tempio.

Nel dialetto lombardo è sopravissuto il sostantivo di origine persiana: “Magütt”, il quale in origine indicava i braccianti che lavoravano nei campi, ed è composto da: “Magus”, sinonimo di campo, e, “üt” o “aüt”, equivalente di aiuto.

Il termine è ancora utilizzato nei cantieri edili per indicare la manovalanza, che come da tradizione millenaria, proviene dall’agricoltura.

Un altro etimo antico sopravissuto in Lombardia al passare del tempo è il sostantivo “Magana”, il quale contenendo la radice “gana” indicava un campo sacro alla dea, e quindi un fondo appartenente al demanio pubblico.

Con l’inizio del II° millennio a.C., in Irlanda e poi nella Grande Britannia arrivano gli Iberi, una popolazione di origine caucasica come i capsiani e gli appartenenti alla cultura della ceramica cardiale, che dopo aver colonizzato il nord Africa e la Spagna erano riusciti a penetrare nelle isole britanniche e in Francia.

A quei tempi gli iberi si definivano Milesi o figli di Mil, però erroneamente il venerabile “Beda” nella sua “Istoria ecclesiastica gentis Anglorum”, con la quale ha tentato di raccogliere le più antiche tradizioni celtiche, tramandate di bocca in bocca dai bardi, era convinto che Mil sia stato il re che ha condotto i Milesi alla conquista dell’Iberia, quando in realtà Mil era il nome di una Grande Madre della natura, chiamata come nei tempi più antichi, i caucasici chiamavano il miglio: “Mil”, il quale fu uno dei primi cereali ad essere coltivato e quindi divinizzato nelle figura della Grande Madre, e pertanto gli iberi si identificavano come figli di Mil; da notare la simbiosi di Mil con l’italica “Cerere”, la dea dei cereali.

Un esempio di queste divinizzazioni la troviamo anche nel Nord America, dove il Manitoba, uno dei cereali più pregiati è stato divinizzato dagli Indiani come il Grande Padre Manitù.

Tracce del passaggio dei milesi le possiamo trovare anche nella toponomastica della Sicilia, in particolare la città di Milazzo, capoluogo di una valle fertilissima dove abbondano i toponimi con il prefisso Mil, segno evidente di un’antica adorazione di una divinità che rispondeva a questo nome.

Infatti, Milazzo fu fondata dagli abitanti di Mileto, una potenza Anatolica che gli ittiti chiamavano “Millawanda”, vale a dire: “Regina Mil”.

Ma in tutto questo il venerabile Beda e la mitologia irlandese si scontrano con una forte contraddizione in quanto associano l’arrivo degli iberi alla guerra tra le divinità Fomori (le divinità dei pitti), e i nuovi arrivati i “Tuatha de Danann”, (Figli di Danu) le divinità dei danai, vinta da questi ultimi, quando in realtà all’arrivo dei danai pitti ed iberi si erano già integrati.

Il cambiamento religioso è confermato anche dalle più recenti indagini strumentali sulle pietre di Stonehenge, le quali hanno accertato che il monumento è stato edificato e modificato in due epoche diverse, quindi adattati alle esigenze di una nuova religione.

Comunque bisogna rimarcare l’identità culturale e genetica dei figli di Mil con i figli di Danu, mentre in realtà i danai arrivano nella grande Britannia solo tra l’VIII e il VI secolo a.C., e sono i portatori della cultura del ferro (Halstat), i quali si scontrano con i pitti e riescono a conquistare solo la parte orientale dell’isola dove fondano il regno di Alba.

Nel IV secolo a.C., i galli, forse alleati con i danai (Scoti), hanno maggior fortuna conquistano il Galles e spingono i pitti all’estremo nord, in quella che i romani chiameranno Caledonia.

Di ciò ne traggono vantaggio anche gli scoti, i quali estendono il regno di Alba fino alle rive del fiume Forth dove in seguito, l’imperatore Antonino contando sulla loro alleanza costruirà un vallo.

Ma che perderanno con il ritiro dei romani e riconquisteranno nel Medio Evo sotto la guida di Kennet Mach Alpin.

Quindi il passaggio di Stonehenge e Avebury ai Tuatha de Danan sarebbe avvenuto solo con l’arrivo dei galli.

Le divinità Fomori potevano essere gli Æsir della tradizione scandinava ma di origine indiana, ma forse erano il frutto di un compromesso tra i sacerdoti pitti e quelli iberi, mentre i Tuatha de Danann erano gli Asura originari della valle dell’Indo (Pachistan), quindi originate da una cultura comune differenziate dal tempo e dalla lontananza.

La fusione dei tre popoli avrebbe generato un’altra divinità unica comune a tutte e tre etnie, chiamato “Lug”, il Lucente.

Infatti Lug è figlio della dea “Ethniu”, a sua volta figlia del re “Balor” (probabilmente il dio solare dei fomori, tanto che Lug viene soprannominato il lucente), mentre il padre è un Tuatha de Danann sconosciuto, “Cian”, ma è figlio di “Dian Cecht” il dio della salute dei Tuatha de Danann.

Questa leggenda è una testimonianza della continuità culturale tra i greci primitivi e i popoli Britannici, in quanto anche Ethniu come Danae fu imprigionata in una torre dal padre, il quale temeva che il figlio che sarebbe nato da lei lo avrebbe ucciso, ed infatti Ethniu, come Danae nonostante fosse prigioniera rimase gravida e diede alla Luce Lug.

Qui la leggenda si differenzia in quanto Acrisio re di Argo abbandona in mare Danae con il figlio Perseo, Ethniu invece partorisce tre gemelli che Balor fa abbandonare in mare, ma la druida “Birog” complice di Ethniu e Cian riesce a salvarne uno, Lug, che nasconde nell’isola di Môn (Man).

Altra analogia dei due miti è il fatto che Danae era una principessa di Argo, Argos in greco classico, che significa: “Bianco”, o “Lucente”, come appunto era soprannominato Lug.

Quindi Lug e Perseo sono un unico personaggio figlio della continuità culturale delle tradizioni vediche, ma che essendo tramandate da popoli diversi, finivano per essere adattate alle necessità correnti.

Bisogna anche tener presente che i galli provenivano dall’area del Volga e si sono mischiati con i danai, che provenivano dalla Persia, e che dopo aver popolato la Grecia e l’Anatolia, avevano colonizzato anche il nord Europa diffondendo la cultura indoeuropea differenziandosi dagli indoeuropei della steppa nella lingua, nel grado di civiltà e anche geneticamente.

Quindi possiamo dire che le caratteristiche del ceppo danaide ed iberico corrispondevano al cromosoma R1b, nelle lingue tribali, definite centum, e da un’indole pacifica, mentre il ceppo Sciita era portatore del cromosoma R1a parlava ligue tribali definite satem e avevano un’indole spiccatamente guerriera

Non bisogna però dimenticare che nella tradizione sumera e forse trasmessa anche ai persiani, il nome Lug o Lugal indicava il re sacerdote o re sacro, il quale deteneva sia il potere materiale che quello spirituale, quindi è possibile che un condottiero come Perseo, in possesso delle funzioni di Lugal, sia stato divinizzato con il nome di Lug.

Giulio Cesare annotava nel De Bello Gallico che il luogo più importante dove si riunivano i druidi dei galli era nel Galles, il luogo venne identificato solo nel 61 d.C., nell’isola di “Môn”, che i romani chiamavano Mona.

Infatti il motto dei gallesi era “Môn Mam Cymru”, che significava “Môn Madre del Galles” in quanto Cymru era il nome tribale dei gallesi.

In seguito a questa informazione il governatore della Britannia, Svetonio Paolino ne approfittò per organizzare una spedizione militare con lo scopo di sterminare i druidi, colpevoli di istigare il popolo alla ribellione.

Con il loro sterminio i druidi porteranno nella tomba tutto il sapere del loro tempo, del quale erano gli unici depositari, causando la fine della cultura celtica, ed indirettamente creando le basi per la futura penetrazione del cristianesimo.

Si racconta che l’isola Mona fosse il luogo natale di Lug, non a caso i celti con il nome Môn si riferivano alla Grande Madre e ai luoghi che la simboleggiavano.

Oggi il nome dell’’isola è stato maschilizzato in Man, ma gli inglesi preferiscono chiamarla Anglesey, sinonimo di chiesa proprio per le sue tradizioni antiche, che si sono conservate anche nel suo stemma, infatti, il Triscele che la rappresenta non è altro che il simbolo di Madre Natura e rappresenta le tre fasi della vita vegetale o biologica: “Semina, Raccolto e Rigenerazione”.

La quarta stagione, cioè l’autunno, sarebbe stata introdotta quando l’uomo imparò a coltivare il frumento, che come è noto si semina in autunno, quindi un’altra stagione della semina.

Lo stesso stemma lo possiamo identificare con l’insegna della Sicilia chiamato “Trinacria”, forse un legame tra i Milesi di Milazzo e i Milesi irlandesi?

IL triscele lo troviamo anche come stemma della città di Füssen in Baviera situata in Algovia lungo le rive del fiume Lech.

Il nome primitivo della città era Foetes ed era attraversata dal via Claudia Augusta, ma il triscele dovrebbe ricondurre al nome del fiume, in quanto secondo le leggende Lech sarebbe il nome del capostipite del popolo polacco, pertanto si tratterebbe di un teonimo femminile maschilizzato, in quanto il territorio circostante è costituito da un ampio altipiano, oggi parzialmente sommerso da un lago artificiale che in epoca primitiva era sicuramente il regno di una divinità primitiva della natura o dei fiumi, chiamata Lech.

Recentemente, i satelliti della Nasa hanno fotografato una collina, poi risultata artificiale, e datata VIII secolo a.C., si tratta di una Moot Hill a forma di Triscele, situata nel centro del Kazakistan, praticamente nella culla della cultura caucasica.

Il toponimo Mona lo troviamo anche nel nome della città di Monmouth, situata nei pressi di Newport, e nell’idronomo del fiume che la attraversa, il Monnow.

L’origine del toponimo sarebbe dovuta alla presenza di una collina sacra alla Grande Madre, quindi Monmouth indicava il Monte Mona, che dovrebbe trattarsi del colle sul quale oggi sorge il castello di Monmouth, in quanto si erge all’interno di un’ansa del fiume Monnow.

Il nome gallese della città: Trefynnwy ci porta alla leggenda di Cerridwen e di Taliesin.

Nella leggenda medioevale il nome della maga Cerridwen nasconde per motivi religiosi il ricordo di una dea dei cereali, chiamata “Gwyn”, vale a dire “Bianca”.

La maga aveva due figli, uno dei quali era brutto, deforme e ignorante, pertanto la maga decise di creare una pozione che lo rendesse bello e intelligente come l’altro figlio.

Quindi dopo aver raccolto tutti gli ingredienti necessari li mise a bollire nel pentolone magico, dove il composto avrebbe dovuto rimanere in ebollizione per un anno intero.

Ovviamente per fare ciò si avvalse dell’aiuto di un ragazzo Gwion Bach, il quale si occupava di mescolare l’intruglio.

Ma al termine dell’ebollizione le tre gocce bollenti della pozione che erano rimaste nel pentolone schizzarono sulla mano di Gwion scottandolo, istintivamente il ragazzo si leccò le scottature e acquisì istantaneamente una grande bellezza e altrettanta saggezza.

Ceridwen inferocita lo inseguì per ucciderlo, ma Gwion si trasformò in una lepre, e quindi Ceridwen in un levriero, ma Gwion diventò un pesce e si tuffò in un fiume. Ceridwen diventò una lontra, Gwion diventò un uccello e Ceridwen un falco, ma poi Gwion si trasformò in un chicco di grano, ma non poté più scappare, Ceridwen allora diventò una gallina e lo mangiò, ma rimase incinta.

Sapeva che era Gwion e decise di uccidere il bambino non appena nato, ma il bambino che nacque era così bello che Ceridwen non riuscì ad ucciderlo, pertanto lo chiuse dentro un sacco in pelle e lo gettò nell’oceano.

Il sacco vagò sulle onde fino a spiaggiarsi sulla costa gallese (secondo molte versioni presso Aberdyfi, dove fu soccorso dal principe Elffin ap Gwyddno, con il quale Il bambino crebbe e divenne il leggendario bardo Taliesin.

Quindi il toponimo gallese Trefynnwy farebbe riferimento ai tre figli della Grande Madre Gwyn uno dei quali: Taliesin sarebbe diventato Lug, il Lucente.

Della contea di Monmoutshire fa parte anche la città di Cwmbran, il cui nome significa: Valle del Corvo, com’era chiamato Bran il dio che resuscitava i guerrieri morti eroicamente in battaglia, immergendoli nel suo calderone magico.

La valle era abitata dai Silures, una tribù molto bellicosa, dalla pelle scura e i capelli ricci, che secondo Tacito erano discendenti dei primi iberi che sbarcarono nel Galles.        Etimologicamente l’etnonimo Siluri deriverebbe dal celtico “silon” sinonimo di seme, quindi significherebbe figli del seme, e ci ricollegherebbe alla leggenda di Taliesin figlio del seme inghiottito da Cerridwen, come i figli di Mil della tradizione irlandese.

Il toponimo Môn lo troviamo come prefisso anche nel nome del “Monviso (terra dei coti), il monte dove sorge i fiume “Eridano”, nome antico del Po.

Infatti il toponimo Monviso contiene anche una corruzione dell’etimo sanscrito “Vasu”, sinonimo di “Dimora”, quindi il nome primitivo della montagna indicava la: “Dimora di Môn”; questo mi fa pensare che i primitivi identificavano la Grande Madre Môn con la luna (“Moon” in inglese), in quanto approssimativamente la luna tramonta dietro al Monviso.

A conferma dello stretto legame tra coti e danai, anche l’antico idronimo del fiume Eridano (oggi Po) ha origini gaeliche in quanto avrebbe avuto il significato di “Rhein-Danu”, ovvero “Fiume di Danu” oppure: “Danu che Scorre”, se si intende l’acqua come manifestazione della dea.

Da citare in Inghilterra anche l’isola di Arran situata più a nord di Môn alla quale gli studiosi attribuiscono molta importanza, da notare che il toponimo dell’isola potrebbe essere originato dal teonimo “Arianna” ed è omonimo a quello di una città anatolica Harran, situata al confine con la Siria, che è tra le più antiche, e che ovviamente la bibbia non potendo dare importanza a un toponimo di origine pagana, cita come “Carre”, una città dove si praticava il culto della luna, e dove visse Abramo.

Ma in questo caso si trattava di una divinità maschile, infatti dopo “Ur” città natale di Abramo, Carre era il centro spirituale più importante dove si celebrava il culto della luna, identificata con il dio sumero “Nanna” divenuto Sin per i semiti, “Hubal”, per Abramo e gli arabi, i quali adorano ancora il suo simbolo, la pietra nera, ritrovata da Ismaele su ordine di Abramo, quindi dobbiamo supporre che prima dell’arrivo dei sumeri, a Carre (Harran), i caucasici celebrassero il culto di Aryanna.

I gaelici che invasero la Britannia com’era tradizione degli albani la chiamarono “Alba”, ciò conferma la loro provenienza caucasica mentre i popoli indigeni li definirono “Scoti”, e “Scotia” il territorio che occuparono, cioè “Scozia”, vale a dire: “Terra degli Scoti”.

Con ogni provabilità i nomi scoti e Scozia derivano dal nome celtico del Kilt il gonnellino che gli scozzesi indossano ancora oggi con orgoglio come simbolo distintivo, mentre i galli e i pitti portavano le brache, che li distinguevano dagli scoti.

Infatti, etimologicamente gli etnici Scoti e Scozia, sono affini al lombardo-ligure “Scusà”, sinonimo di grembiule, continuato ancora oggi dal francese “Cotte”, e dal veneto “Cotoa”.

Ricordiamoci che alcune tribù venete si erano stanziate lungo le rive dell’attuale Normandia e del mar baltico, e sicuramente parteciparono anche loro all’invasione della Britannia.

Gli scoti fondarono la loro capitale: “Edimburgo” (Dùn Eideann), sopra a un vulcano spento, com’era tradizione degli albani, Ardea e Albalonga, per esempio.

Etimologicamente il nome gaelico di Edimburgo: “Dùn Eideann”, è un riferimento alla dea “Ethniu” (chiamata anche Eriu o Eri), identificata con la luna, si trattava della matrona d’Irlanda, una potente divinità della guerra e della fertilità, che aveva favorito la conquista dell’isola da parte dei gaelici provenienti dalla Spagna, quindi Dùn Eideann, aveva il significato di: forte della Luna Eriu.

Il toponimo Eideann contiene la radice “Ann”, sinonimo di Anna, regina, o che potrebbe essere il teonimo Danu, mentre Eriu ci riporta all’italico Eridano con il prefisso Rhein che significa fiume, ma non si può escludere che si tratti di una fusione per difetto di pronuncia, tra il soggetto: Dea Anna o Danu, e il corrispondente celtico dell’articolo “La”.

Pertanto il toponimo Dūn Eideann aveva il significato di: “Forte sul Fiume di Danu”, oppure Forte della Dea Anna (o Danu), e ancora oggi il fiume si chiama “Forth.

A testimonianza indelebile dell’invasione dei gaelici, in Inghilterra troviamo: le “Danae Hills”, (le colline dei Danai), le “Pennine Chain” (la catena Pennina), e le “Cotswold Hills”, (le colline piane dei coti), tre toponimi che ricordano i nomi delle tre tribù celtiche che hanno invaso la Bretagna.

Da notare che ancora oggi tra gli anglofoni i nomi di: Danu e Penninus, sono tra i più diffusi, nella forma di Dana e Penny.

Sulle Cotswold (La terra dei coti), un gruppo di altipiani ricoperti da numerosi laghetti, sorge il Tamigi, il cui idronimo è originato dal nome della dea fluviale “Tamesis”, forse un teonimo derivato da una corruzione di Tamara a sua volta prodotto per difetto di pronuncia da “Samara”.

Si tratta di una divinità sconosciuta, ma che io suppongo sia stata una divinità delle acque ariana, in quanto con questo nome abbiamo un fiume affluente del Volga, e alla sua confluenza i resti di una città tra le più antiche, che gli archeologi chiamano Samara, e che l’archeologa e linguista lituana, Marja Gimbutas ha indicato come la culla della lingua Indoeuropea.

Un’altra corruzione di Samara la possiamo trovare in Galizia, dove esiste un fiume oggi chiamato Tambre, ma che i galli spagnoli chiamavano Tamara.

Tamara sarebbe un nome di origine ebraica, ma è molto diffuso in Russia, tanto che nel XI secolo d.C., è stato il nome di una regina della Georgia, la terra d’origine delle lingue gaeliche, Quindi devo supporre che Tamara, Tamesis e forse anche Sequana erano divinità che continuavano il culto primitivo di Samara

L’esistenza del teonimo Tamara trova riscontro anche nella forma maschile “Tamaro”, la quale fa riferimento a due monti particolarmente interessanti nello studio della preistoria.

Infatti un Tamaro lo troviamo in Italia al confine con la Svizzera, dove costituisce il vertice della valle Veddasca, la quale si affaccia sul lago Maggiore, un tempo chiamato Verbanus.

Siamo nella terra dei leponti un popolo che parlava una lingua gaelica, i quali hanno lasciato traccia della loro presenza con numerose incisioni rupestri, che si riferivano in particolare a una divinità solare, al quale era sacro un laghetto ancora oggi chiamato “D’Elio” situato a 930 metri di quota tra, il monte Borgna (toponimo originato dal teonimo Bormanus), e il monte Cadrigna.

Mentre la valle, essendo stretta ed impervia quindi di difficile accesso, ha costituito uno degli ultimi rifugi della cultura ariana, e non a caso il suo toponimo Veddasca significa “Veda Nascosto”, in quanto i suffissi asca e asco presenti in numerosi toponimi di origine Lepontia, dovrebbero avere il significato di nascosto, continuati dall’italiano: ascaridi (funghi che crescono nascosti).

Il toponimo potrebbe riferirsi a un luogo nascosto ma non si può trascurare il fatto che il monte Tamaro pur essendo il più alto (1940 m) è nascosto alla vista da valle dalla presenza del monte Gradiccioli 20 metri più basso.

Quindi Veda Nascosto potrebbe indicare una montagna sacra che non si vede.

Invece il Tamaro più famoso e riconosciuto ufficialmente come una montagna sacra (oggi chiamato Tomaros), appartiene al gruppo del Parnaso (Grecia), dove alle sue pendici sorgeva il tempio dell’oracolo di Zeus (Dodona), il più importante e il più antico, il quale sarebbe stato usurpato all’inizio dell’età del ferro (1000 a.C.)  a una Grande Madre pre ellenica il cui culto risalirebbe al III° millennio a.C.

Nel luogo dove aveva sede l’oracolo di Dodona, sono state ritrovate tracce di frequentazione risalenti alla fine del III° millennio a.C., ciò conferma la presenza di culti pre ellenici, quindi la prima Grande Madre del Tamaro, poteva essere solo una divinità indoeuropea proveniente dalla steppa, associabile alla cultura di Varna che a sua volta essendo di origine kurgan, aveva contatti con l’area del Volga.

Questa divinità entrerà a far parte del panteon olimpico come amante di Zeus e madre di Afrodite (un’altra divinità pre ellenica) con il nome di Dione.

Considerando che il toponimo Tamaro ha una certa affinità etimologica con il nome primitivo del Don: “Tanais” e quello della città dove allora sfociava nel mar d’Azov: “Tana”, due toponimi che in forma tribale o per difetto di pronuncia o traduzione, potrebbero portarci a identificare i danai come gli abitanti delle rive del fiume, e Danu come la divinità che adoravano, che a sua volta si potrebbe identificare con la Dione degli elleni.

Quindi possiamo supporre che i vari teonimi: Tana, Tamara, Samara, Tamesis, Dione, i vari idronomi che ne derivano come Tamigi, Tamre, Tanaro, Tamara, Tanais, Samara, e i monti Tamaro facessero tutti riferimento a un’unica Grande Madre Indoeuropea: Danu.

di Wilusa, la Troia Omerica identificato da Omero con Apollo, che provabilmente in Anatolia era chiamato “Wilios” o “Uillos, da cui il nome del fondatore della città “Ilio”.

Un altro indizio sulle   radici comuni di liguri e scozzesi ce la fornisce Tacito, il quale cita il fiume Bodotria (Agricola), oggi “Forth” (fiume nero), sul cui lungo e profondo estuario si affaccia la capitale della Scozia Edimburgo, “Dùn Eideann”, in gaelico, la lingua degli antichi scozzesi.

L’idronimo Bodotria ci porta al ligure “Bodio”, o “Bodii”, nomi di alcune località rivierasche fondate dai leponzi, e sinonimi di profondo, da citare anche “Bodinco”, = “fiume profondo”, forse il nome leponzio del Po.

Il Bodotria (Forth) è dominato dallo “Stirling Castle”, una rocca della quale tre lati non sono accessibili, quindi il suffisso “tria” è un riferimento ai tre lati inaccessibili della collina, e che con ogni provabilità Bodotria era anche il nome della rocca.

Etimologicamente Bodotria è affine anche a Bodrum, il nome moderno dell’antica Alicarnasso, mancando indizi sull’origine del toponimo devo supporre che anticamente Bodrum fosse il nome della penisola sulla quale sorgeva Alicarnasso, la quale a causa di uno sviluppo urbanistico spropositato, l’antica polis potrebbe essere stata inglobata in un toponimo comune a tutto il territorio.

Nel VI secolo d. C., la rocca di Sterling era il caposaldo nord della “Northumbria”, una contea che ancora oggi mantiene il suo toponimo primitivo e che tradisce l’origine umbro ligure; ma non si può escludere il gaelico Cymru nome tribale degli scoti.

Si tratta di un territorio che si estendeva lungo la costa est, dal Bodotria al Tanao oggi Tweed, citato anche da Tacito, l’idronimo Tanao si accomuna al nome antico del Don: “Tanai”, alla cui foce sorgeva la città greca di “Tana”, due toponimi originati dalla corruzione per difetto di pronunci del tribale “danai” e dal teonimo “Danu”, la città di Tana era un emporio nel quale i greci commerciavano con gli Sciti.

I nomi di questi fiumi sembrano conciliarsi anche con la presunta divinità celtica “Tamara”, dalla quale avrebbe origine anche il nome del fiume italiano “Tanaro”, un idronimo che secondo alcuni studiosi sarebbe originato dal teonimo “Taranus”, in Piemonte lungo le rive del Tanaro, è attestata l’antica presenza del culto di Taranus che per i celti era una divinità con gli stessi attributi di Giove, Zeus e del primitivo Indra. anche qui non si può escludere una divinità femminile, poi maschilizzata dalla casta guerriera.   

Sempre nel VI secolo d. C., il caposaldo di Stirling venne conquistato dai caledoni discendenti dei primitivi pitti, i Northumbri riconquistarono la roccaforte e la Caledonia nel IX secolo d. C., sotto la guida di “Kennet Mach Alpin” primo re di Scozia.

A partire da Kenneth Mach Alpin, tutti i re di Scozia sono stati incoronati sulla: “Pietra del Destino”, un parallelepipedo di arenaria rossa, che secondo la tradizione cristiana sarebbe appartenuto a Giacobbe, sulla quale ebbe una visione divina.
In seguito la Pietra fu donata da Mosè a Galamh, il re dei milesi, al quale aveva profetizzato la conquista della Spagna.

In realtà il parallelepipedo in arenaria rossa è un altare della tradizione vedica che sostituisce le Moots Hill.

Il nome di Kenneth Mach Alpin”, tradisce l’origine albanese dei coti ed è la testimonianza del loro forte attaccamento dei alle loro tradizioni e alla terra d’origine, il che mi fa pensare anche ai numerosi Cozzi presenti nel legnanese, i quali potrebbero essere i discendenti degli antichi coti, che con la romanizzazione avrebbero adottato il nome tribale come cognome.

Anche Kenneth è un nome di origine cotia, infatti nel gaelico irlandese è “Cinàed”, che significa “Nato dal Fuoco”, mentre la forma scozzese è “Coinneach”, significa “Bello o Attraente”, quindi si tratta di riferimenti alla divinità solare “Bel”.

Nonostante che i linguisti considerino il nome William di origine germanica, attribuendogli il significato di Elmo, da cui Guglielmo, anche lui va considerato di origine gaelica, Infatti William è la continuazione del teonimo anatolico “Wilios” divinità solare e sinonimo di “Bianco” o “Lucente”, dal quale ha origine il nome “Ilio”, il fondatore di Wilusa, la Troia Omerica.

“Ilio”, è un nome che ritroviamo anche nella civiltà di Golasecca nella forma di “Uini”, “Vin”, e, “Uenia”, mentre in Francia, tra i resti di un tempio celtico scavato attorno alla sorgente sacra di “Douix”, situata nei pressi Châtillon-sur-Senne in Borgogna, è stata ritrovata una dedica al dio, Apollo Windonnus pegno di un voto esaudito a un certo Uillo, nome dal quale sarebbe nata la pronuncia Will, poi britanizzata in William.

Apollo, Vindonnus Elios e Bel erano sempre la stessa divinità, alcuni ritengono che anche Gramnos fosse una divinità solare, ma il nome gli deriva dalla roccia granitica che compone il monte Bianco, ai piedi del quale era adorato, quindi è ipotizzabile che il colore chiaro della roccia abbia indotto la gente a credere che il monte Bianco fosse la casa di Wilios, alias Gramnos.

Un altro fiume citato da Tacito è il “Clota”, oggi “Clyde”, un idronimo che ricorda i coti, si tratta di un’altra insenatura profonda, situata sul versante occidentale della Britannia, che con il Bodotria restringe l’accesso al nord dell’isola, tra le quali l’imperatore Antonino fece costruire un primo vallo per ostacolare le incursioni dei Pitti.

In Scozia sono molto diffuse le “Moots Hill”, chiamate anche “Colline Controvoglia”, in quanto si tratta di alture artificiali dell’altezza di qualche metro.

Nella lingua inglese Moots Hill significa: “Collina della Discussione”, e non a caso nel Medio Evo queste alture erano usate come luogo riservato alle assemblee dei villaggi, ma i ritrovamenti archeologici fanno pensare che siano più antiche, quindi potevano essere cumuli di terra che sostituivano i massi erranti e le montagne, come centri spirituali, non a caso Moots è una voce che mostra una forte affinità etimologica con il provenzale “Mots”, il francese “Mot”, il tedesco “Motz”, e l’italiano Motto, i quali hanno il significato di “Parola”, con i quali possiamo elencare il ligure “Mota”, che indicava una collina sacra.

La stessa tradizione delle Moots Hill la troviamo anche nella cultura dei paleoveneti, i quali costruivano delle colline in terra rossa che chiamavano Altnoi, sinonimo di altare.

La stessa funzione la doveva avere anche la Pietra del destino di re Galamh, forse utilizzata come altare nei luoghi isolati.


Rino Sommaruga

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I Caucasici

All’inizio era la Grande Madre Terra, ma col tempo gli uomini si resero conto che era l’acqua a renderla fertile, e nell’immaginario umano la dea prese la forma di un fiume, che con il suo scorrere sinuoso somigliava a un serpente, quindi la dea si trasformava in serpente per accoppiarsi con il suo amante, il serpente cosmico Ofione (Ofiuco, costellazione del Serpentario).

Si tratta di una tradizione continuata anche nella Grecia classica, infatti nella teogonia di Esiodo la Grande Madre che dal Caos crea l’universo è Gea, mentre Ofione diventa Uranos.

Nella tradizione dei danai la dea assume il nome di Danu, che nella lingua sanscrita (indiano ufficiale, la lingua più antica ancora parlata) ha il significato di pioggia o liquido, mentre in avestico (persiano antico) significava letteralmente: fiume, e non a caso il nome del fiume Danubio, oltre al teonimo Danu, contiene il greco “byos”, sinonimo di “vita”, quindi Danu è la Vita.

Dal nome avestico della dea possiamo dedurre che i danai erano un popolo di origine persiana, che in epoca primordiale migrò verso nord, attraversando l’Afghanistan, il Caucaso seguendo le rive del Mar Nero e del Danubio, fino a raggiungere il Nord Europa.

Nella tradizione più antica il serpentario era Varuna (Vrtra nella mitologia hindi), figlio e amante di Danu e signore delle acque, poi ripudiato in favore dell’altro figlio Indra, la costellazione del Toro.

Infatti, di fronte ai periodi di magra dei fiumi e alle successive piene che avvenivano dopo i temporali, tra gli uomini si fece strada la convinzione che Varuna fosse un demone che imprigionava l’acqua sui monti, mentre il dio dei fulmini e dei tuoni la liberava, pertanto Indra divenne l’amante della dea e dio della fertilità, mentre Varuna venne definito un demone

Da notare che la costellazione del Serpentario non ha mai costituito un segno astrologico, proprio perché lo zoroastrismo la considerava una divinità diabolica, mentre l’idea di una divinità benefica che fertilizza la terra, trova anche un riscontro scientifico nei temporali, in quanto bisogna considerare che i fulmini distruggono le molecole dei gas che attraversano, pertanto favoriscono la combinazione: ossigeno idrogeno, che porta alla pioggia.

Nasce così la cultura indoeuropea che avrà il Caucaso e il Mar Nero come epicentro e crocevia di popoli che pur appartenendo ad etnie diverse: europei, indiani, arabi, semiti, sumeri ed egizi, svilupperanno le loro culture partendo da un’unica divinità primordiale.

XII mila anni fa, l’Europa, che fino all’epoca di Tobleki Tepe, era abitata da gruppi sparsi di cacciatori, geneticamente africani, appartenenti agli aplogruppi patrilineari “E”, “F”, divenne meta delle popolazioni caucasiche, appartenenti agli aplogruppi “G” Europa occidentale, “I”, Balcani, Scandinavia e Inghilterra, “N”, Finlandia, nord della Russia europea e Siberia. Si tratta di gruppi genetici tutt’ora presenti nei paesi sopra citati, dove tranne l’Inghilterra e l’Europa occidentale hanno la discendenza più numerosa.

Fa eccezione il gruppo “G”, quello più antico, e padre della civiltà neolitica, il quale pur essendo in fase di estinzione è tutt’ora fortemente radicato in alcune isole genetiche, situate lungo il percorso principale della sua diffusione, e ancora oggi osservando la mappa della sua presenza si può ricostruire le tappe della sua espansione.

Originario della valle dell’Indo (Pakistan), dopo aver tentato di inseguire il sogno umano di allora: “Arrivare alla casa del dio Sole”, la presenza di questa linea genetica è attestata nel sud della Cina e nelle isole del Pacifico, forse ostacolati dai popoli che li hanno preceduti, si rivolsero verso il Caucaso, attraversando la mezzaluna fertile, da dove grazie al fatto che l’Europa era scarsamente abitata, dilagarono verso il nord-ovest.La loro prima meta fu il Caucaso, dove ancora oggi in Ossezia (Georgia e Russia), la presenza dell’aplogruppo patrilineare “G” si aggira in percentuali tra il 20 e il 40%,dopo di che osservando una mappa che visualizza la sua distribuzione: WWW.eupedia.com/europe/haplogrup-G2a- si nota una larga fascia che indicando una percentuale minima del 15% attraversa l’altipiano Anatolico, dirigendosi verso il golfo di Smirne dove le presenze risalgono al 40%, mentre nel resto della Turchia si attestano al 10%, percentuali altissime se si considera l’antichità delle migrazioni, ma forse giustificate dalla vicinanza dell’Ossezia, dalla quale le migrazioni potrebbero essere continuate fino ai giorni nostri.

In merito all’Ossezia è molto indicativo il fatto che anticamente era chiamata “Alania”, che in sanscrito la lingua più antica ancora parlata sulla terra, significa: “Casa della Neve”, ed ancora oggi le cime innevate del Caucaso sono raffigurate nello stemma dell’Ossezia.

La comunità anatolica più antica di cui si ha notizia, è il popolo di “Hatti”, è citato in documenti accadi, risalenti al XXXVI secolo a.C., erano pastori ed avevano addomesticato il cane, ma sapevano anche lavorare il metallo, la ceramica e navigare. Impossibile affermare se appartenessero al ceppo genetico primitivo “G”, o al più recente “R1b” che gli stava subentrando per mezzo degli ittiti, una popolazione originaria della steppa nord caucasica, con la quale si sono integrati. Quello che è certo è che durante la battaglia di Kadesh, XIII secolo a.C., gli egiziani li distinguevano dagli ittiti per l’aspetto differente.

Si può supporre che la differenza somatica fosse nel colore della pelle o dei capelli,infatti si può ritenere che vivendo migliaia di anni sugli altipiani, dove l’atmosfera rarefatta riduce notevolmente il filtraggio dei raggi solari, tra la popolazione del gruppo “G” si sia prodotta una selezione naturale che ha favorito le persone di carnagione scura, come gli hindi per esempio, mentre è noto che i popoli della steppa, tradizionalmente hanno la pelle chiara e i capelli biondi, anche se a quel tempo la definizione di biondo era alquanto estemporanea, e spesso si confondeva con il rosso caratteristico dei persiani.

Oggi in Anatolia nonostante che l’aplogruppo R1b”, si sia sovrapposto al “G” è scarsamente diffuso, infatti lo troviamo in proporzioni che variano dal 20% lungo la costa del Mar Nero al 10% nel resto del paese, e completamente privo di enclavi genetiche, mentre è concentratissimo in Europa, dove è arrivato seguendo le rive dell’Adriatico e le coste del Mediterraneo.

Degli Hatti ci rimane la città più antica fin’ora scoperta Catal Hüyük, 5700 a.C:, le cui case erano costruite muro contro muro, con l’accesso dal tetto, e senza porte e finestre.

Lasciato il golfo di Smirne, il ramo genetico “G”, riaffiora sulle rive tessaliche dell’Egeo; terra famosa per essere stata abitata dagli eoli, il primo popolo ellenico a raggiungere la Grecia e prima ancora dalle popolazioni che hanno colonizzato l’Italia durante l’età del bronzo, come i mitici: pelasgi, gli iapigi, gli enotri, i dauni ecc.

In Tessaglia emerge la cultura di Sesklo 6850 a.C., oggi considerata postuma alla cultura della ceramica “cardiale”, la quale fa riferimento a un sistema di decorazione dei vasi, ottenuta attraverso l’uso come stampini di particolari tipi di conchiglie. La ceramica cardiale risulta diffusa anche a Catal Hüyük, e sulle coste del Libano, ma la sua maggior diffusione avviene sulle coste Balcaniche e in Italia, Francia e Spagna, quindi la possiamo considerare come caratteristica del proto europeo occidentale. Un particolare molto significativo è che in Spagna e Francia questa cultura emerge nei luoghi dove sono presenti toponimi simili a quelli della cultura ligure, Murcia, Valencia Albacete, Baleari, Catalogna, Provenza e valle del Rodano.

In Italia c’è da segnalare il ritrovamento sulle Alpi della mummia di Similaun, la quale si è accertato che apparteneva all’aplogruppo “G”, e la presenza di due località chiamate Alagna situate in luoghi frequentati dai cercatori d’oro liguri  prova di una sicura relazione tra i liguri e l’Alania caucasica. Queste popolazioni inizialmente vivevano in grotte, ma impararono rapidamente a, coltivare, allevare e navigare; in realtà benché vivesse in grotte, si trattava di una società molto evoluta, per la quale vivere in case scavate nella roccia era un’usanza religiosa, in quanto adoravano la “Grande Madre Terra”, una tradizione paleolitica, le cui tracce le troviamo ancora oggi nei “Sassi di Matera”, dove il toponimo Matera significa proprio “Madre Terra”. Questa cultura viene associata alla diffusione in Europa dell’aplogruppo “G”, del cromosoma “Y”, infatti oggi le maggiori concentrazioni di questo ceppo genetico le troviamo proprio al di la del canale d’Otranto, sulle Murge, i monti calabresi, e gli Appennini centro-meridionali, Sicilia, Sardegna, Spagna Portogallo, sull’arco alpino e in Boemia; la ceramica cardiale è associata anche ad alcuni monumenti megalitici dell’Europa nord-occidentale, presso i quali sono stati ritrovati alcuni manufatti.

Contemporaneamente al ceppo “G” anche l’aplogruppo “I” originario dell’India, inizia la colonizzazione dell’Europa, risalendo il corso del Danubio e del Don, dove emerge la cultura di Karanovo datata VI-VII millennio a.C., anche questa cultura adorava la Grande Madre Terra.

Da citare la tribù dei Cocuteni-Trypillian, V millennio a.C., la quale costruiva città da 10-14 mila abitanti, che bruciavano ogni 60-80 anni per trasferirsi altrove. Questa usanza mi fa supporre che si trattava di un popolo di pastori, o contadini, che praticavano la rotazione dei campi, ragion per cui è ipotizzabile che la terza generazione creasse nuovi insediamenti, mentre il villaggio antico con la morte degli anziani, veniva bruciato in segno di purificazione, ma anche per rigenerare la terra.

Contemporanea al Karanovo è la cultura di Starcevo dal VII a lV mila a.C., Serbia, agricoltori e cacciatori, alla quale succede la cultura di Vinca 5.500 a.C. 15 Km da Belgrado, lavoravano il rame con strumenti molto progrediti

Anche Belgrado era soprannominata la: “Città Bianca”, infatti nel Medio Evo il suo nome fu spesso cambiato in “Alba Bulgarica”, o Alba Greca”, ma il tutto era dovuto al dio solare Windo adorato dagli albani e dagli juli con il nome di Bel, infatti il toponimo Belgrado significa appunto “Monte di Bel”, in quanto la città primitiva, o forse il centro spirituale, era posto su una collina situata alla confluenza della Sava nel Danubio.

Nel III secolo a.C., Belgrado era nota con il nome di “Singidūn” un toponimo che con il suffisso “Dūn”, farebbe riferimento a un luogo fortificato, mentre il prefisso “Singi” potrebbe essere un verbo celtico dal quale si sarebbero originati il tedesco “singe” e l’inglese “sing”,  i quali hanno il  significato di: “canto”, evidentemente il toponimo faceva riferimento a una fortezza situata in un luogo dove si manifestavano le “brontidi; si tratta di brontolii provenienti dal sottosuolo, la cui bassa tonalità li farebbe somigliare a un canto, un fenomeno che ancora oggi si manifesta lungo le rive del fiume Ombrone, e che gli antichi consideravano la voce della dea del fiume.

Questo mi porterebbe anche a pensare che Dūn sia il nome di Danu la dea del Danubio, e quindi Singidūn avrebbe avuto il significato di “Canto di Danu”; in oltre Dūn sarebbe l’etimo che ha originato anche il nome del fiume Don.

Alla cultura di Vinca apparterrebbero anche le tavolette di Tartaria, una località della Transilvania situata nei pressi di Alba Iulia, una città fondata dai romani con il nome di Apulus, in onore di Apollo e per questo chiamata anche “Città Bianca”, il che presuppone l’esistenza di un villaggio primitivo sacro a Windo.

Le tavolette fanno parte di reperti rinvenuti in un contesto archeologico datato III millennio a.C., ma che un recente esame al radio carbonio ha stabilito che la loro origine risale al 5500 a.C. e sarebbero quindi la testimonianza della più antica forma di scrittura mai ritrovata. (WWW Tavolette di Tartaria Wikipedia).

A parte le ipotesi avanzate da vari gruppi di studiosi, a mio parere le pietre potrebbero essere amuleti conservati per secoli, oppure realizzate con materiale di recupero, ma quello che conta è il significato delle incisioni, che nessuno è ancora riuscito a decifrare.

In una delle tavolette appare un animale con collo e corna lunghi da sembrare un cervo o un caprone, ed è presente un albero, mentre in basso ci sono piccole incisioni che sembrano raffigurare la crescita dell’erba o dei cereali, mentre alla sinistra di chi guarda, si nota una figura confusa che presenta due linee sinuose, le quali sembrano raffigurare un fiume con un suo affluente.

A mio parere quella tavoletta sembra un omaggio alla dea del fiume che nutre la natura, ma volendo valutare pure le cinque tacche presenti in alto a sinistra, si potrebbe pensare anche alla quinta luna, corrispondente al mese di maggio, la luna durante la quale secondo le tradizioni antiche, la natura si risveglia e il toro feconda la Grande Madre. Altre due tacche appaiono ben distanziate dalle prime e potrebbero raffigurare le lune in cui avviene il raccolto: settembre ed ottobre

Il tema sembra ripetersi anche nella tavoletta più piccola, la quale presenta un foro e un diametro di 6 cm. che la fanno sembrare a un medaglione.

Nel medaglione ritroviamo le cinque tacche, che questa volta sono barrate, come a indicare un ciclo trascorso, mentre appare la lettera “D”, ripetuta 3 volte la quale mi sembra un chiaro riferimento alla dea Danu o Dūn, In oltre, sono presenti altri simboli piuttosto complessi che sembrano raffigurare le lettere “X, H, E, R”. ma che al momento non sono in grado di collegare a tradizioni antiche.

Nella terza tavoletta, praticamente indecifrabile, sembra apparire una figura antropomorfa dal corpo filiforme, vicino al volto di un suino, forse lo sciamano con la sua scrofa?  Ma non si può escludere che l’immagine simboleggi lo spirito del dio che si incarna nel suino.

L’animale appare in un’altra parte della tavoletta in forma miniaturizzata, completo e di profilo, ma il contesto non è riconoscibile. Si potrebbe pensare al cinghiale semilanuto o alla sua femmina, alla quale facevano ricorso i sacerdoti del culto di Varuna (Signore delle Acque) e in seguito anche i druidi celti, per attirare la benevolenza del dio; pertanto le tavolette sarebbero state incise durante l’età del rame o comunque nel più tardo paleolitico, quando il culto di Varuna era già in auge.

La diffusione del cromosoma “Y” ceppo “I” continua in Polonia con i cacciatori della cultura del Maglemosiano, Mullerup in Danimarca, 7.500 a.C., per poi diffondersi nella Germania nell’est Europa in Inghilterra e Scandinavia, cultura di Cangemose 6.000 a.C., alla quale seguirà la cultura di Ertebolle, 5.300 a.C.

Infine dobbiamo citare l’aplogruppo patrilineare “N”, originario dell’indocina 20.000 anni fa si è diffuso in tutto il nord euroasiatico, dalla Siberia alla Finlandia.

Importantissima è la cultura di Varna datata 4600 a.C., la quale oggettivamente è un’evoluzione del Karanovo, ma il toponimo ci dice che spiritualmente il culto di Varuna ha preso il sopravvento su quello della Grande Madre. Questa cultura potrebbe testimoniare l’arrivo sui Balcani dell’aplogruppo patrilineare “R1b”, portatore del culto di Varuna.

Varna è un toponimo originato da un difetto di pronuncia, che ha provocato la caduta della “u” trasformando il teonimo “Varuna”, nel toponimo “Varna”, città sacra a Varuna. A Varna si registra il ritrovamento di 296 tombe a inumazione, molte delle quali erano ricche di sofisticati gioielli in oro.

La ricchezza delle tombe e il riferimento a Varuna mi fanno pensare all’arrivo di un popolo di guerrieri, forse gli antenati dei traci, che hanno assunto il ruolo di casta dominante, riducendo la popolazione autoctona al ruolo di “slavi”, vale a dire servi o schiavi. Dei Traci si hanno notizie a partire dalla tarda età del Bronzo, le quali li indicano come un popolo numeroso e potentissimo, i ritrovamenti archeologici li indicano ricchi ed abilissimi nella lavorazione dell’oro, quindi erano sicuramente continuatori della cultura di Varna.

I traci dell’età del rame proprio perché numerosi migreranno verso nord risalendo il corso di fiumi come il Danubio e il Don, raggiungendo la pianura Padana e la Danimarca.

Da sottolineare che tanto ai fiumi che alle regioni che andranno ad occupare, daranno nomi originati dal teonimo “Danu”,la madre di Varuna e degli asura le prime divinità vediche. Nel rigveda Danu è solamente la personificazione delle acque che viene divorata dal demone serpente “Vrtra” divinità del cielo (costellazione del Serpentario), il quale a sua volta viene ucciso da Indra (pianeta Giove), che diventerà il re degli dei vedici, mentre i suoi attributi dio del tuono del fulmine della pioggia ecc. saranno attribuiti a tutte le divinità preminenti tra i popoli indoeuropei e semiti: Zeus, Giove, Tinia, Taranis.

In realtà Vrtra è Varuna, inizialmente adorato come: “signore del cielo della terra e delle acque”, poi retrocesso a re dei naga (uomini serpente), e tradizionale nemico di Indra. Questo scambio di nomi probabilmente è dovuto al fatto che il culto di Varuna è molto più antico del rigveda e pertanto i suoi estensori possono aver confuso il nome.

La tradizione vedica è una evoluzione delle credenze paleolitiche, secondo le quali: “La Grande Madre dopo essere emersa dal caos, si accoppia con il serpente Ofione (Costellazione del serpentario), e dalle uova che depone scaturisce la vita”, in seguito Ofione sarà ripudiato e sostituito dal Toro.

Nella eterodossia della mitologia greca Varuna diventa Uranos, dio del cielo, figlio e marito di Gea, dea della terra, la Grande Madre, la quale lo avrebbe concepito da sola, in seguito per volontà di Gea sarà spodestato dal figlio Crono (la continuazione della tradizione vedica), il quale regnerà con la moglie e sorella Rea. In seguito anche Crono sarà spodestato dal figlio Zeus, il quale possedeva gli attributi di Indra.

Piuttosto complessa è la presenza alla foce del Danubio del toponimo Histria, in quanto fa riferimento a una città fondata dai milesi, per commerciare con i Traci, e a una regione slava confinante con l’Italia, ma che nella forma maschile: “Histro”, era anche il nome del Danubio.

In realtà Histro e Histria sarebbero originati dal greco “strygos”, il nome della civetta, l’uccello totemico della dea Athena, potentissima divinità pre ellenica, che rimase matrona di Atene anche con l’arrivo dei semiti elleni, la quale era raffigurata con la civetta sulla testa e veniva chiamata anche” Strigòs”, da ciò il tracio e proto padano “Hi Stria”cioe: “ la strega”, da cui anche Stiria e Austria, e anche nel dialetto lombardo trovamo Stria come sinonimo di strega.

Quindi il Danubio era chiamato Histro in onore della dea Athena la matrona dei popoli che succedettero ai Danai lungo le rive del fiume che caratterizza l’Austria, e lungo il suo corso in territorio ungherese troviamo anche la città di Strigonio sede di una fortezza romana dove avrebbe risieduto anche Marco Aurelio.

A conferma del fatto che questi toponimi, facciano riferimento ad Athena Strygòs, troviamo anche il monte “Palla Bianca”, la montagna più alta delle Alpi Venoste la quale era sacra ad “Athena Pallade”, colei che scaglia l’asta, per ciò soprannominata anche “Palla”.

Tra le numerose tribù trace, possiamo citare i Bitini e i Tini due tribù gemelle, le quali con ogni provabilità adoravano Tinia, il re degli dei etruschi, il cui teonimo concorre a formare i nomi di alcuni fiumi situati nel territorio ligure, quindi posso supporre che queste due tribù hanno partecipato alla colonizzazione della Padania e del territorio del Rodano, un altro idronomo che contiene la radice Danu In quanto precedentemente colonizzato dai danai.

Gli studi sulla genetica ci dicono che l’aplogruppo ”R1b” apparso 9000 anni fa inizialmente si rivolse verso la valle del Nilo attraverso la quale penetrò l’Africa fino a raggiungere l’attuale Camerun, dove questo ceppo è ancora presente tra la popolazione di pelle nera. Contemporaneamente questo ceppo genetico iniziò una lenta colonizzazione delle coste mediterranee, fino a raggiungere lo stretto di Gibilterra, dove è ancora presente tra le popolazioni berbere, per poi raggiungere la Spagna e il nord Europa.

Erano gli, iberi una popolazione caucasica proveniente dall’attuale Georgia, che come gli albanesi, provenienti dalle attuali Azerbajan e Armenia, appartenenti allo stesso aplogruppo “R1b”, e si potevano definire la coda dell’immigrazione danaide, ai quali poi seguiranno le migrazioni dei semiti.

Gli albanesi che storicamente conosciamo come “danai”, via mare colonizzarono anche l’Italia a partire dalla Puglia dove ancora oggi esistono testimonianze del loro passaggio.

Nel corso del terzo millennio, gli iberi seguendo le tradizioni pastorizie, avrebbero progressivamente colonizzato il nord Africa, mandando avanti nuovi clan formati dai secondogeniti, terzogeniti e figli successivi, i quali con nuove mandrie occupavano nuovi spazi, e considerando l’aridità del Nord Africa, potrebbero aver raggiunto abbastanza rapidamente la Spagna, da dove poi raggiunsero L’Irlanda, L’Inghilterra, la Francia e forse L’Italia.

Questa migrazione è testimoniata dal “Libro delle invasioni”, un testo elaborato nel XI secolo d.C., da uno sconosciuto monaco irlandese, si tratta di un libro che, a parte qualche incongruenza biblica, dovuta al fatto che l’estensore del libro era un monaco cristiano, trova svariate conferme a livello archeologico e genetico.

Infatti l’autore racconta che gli antichi gaelici, partiti dalla Scizia (Il Caucaso), quindi discendenti di Jafet figlio di Noè, arrivarono in Egitto dove il loro re “Galamh”, sposò la principessa Scota figlia del faraone Amenofi, ma quando il faraone annegò nel Mar Rosso, i gaelici (appellativo derivato dal fatto che parlavano il gaelico, la lingua dei celti) dovettero abbandonare l’Egitto, e prima di arrivare in Spagna vagarono per diversi anni lungo le coste africane del Mediterraneo.

A parte l’incongruenza della vicenda del faraone che annega nel mar rosso, considerando che il nome Scota è di chiara origine caucasica, ritengo più plausibile che la principessa fosse una sorella andata in sposa al Faraone.

In proposito Giuseppe Flavio (Antichità Giudaiche libro XIX) cita un Coti, re degli armeni che rende omaggio al re dei giudei Erode Agrippa; ma una testimonianza del passaggio degli iberi lungo le coste africane, sono anche le città di Susah in Cirenaica e Susa in Tunisia, due toponimi di origine caucasica, che fanno riferimento alla regione di Shushi (Sowsi) in Azerbaijan terra di provenienza degli iberi e degli albani che hanno diffuso in nome Susa anche in Italia e in Europa
Un’altra traccia del passaggio dei caucasici nella toponomastica dei luoghi, sono i nomi dell’isola di Alboran e dell’omonimo mare che divide il Marocco dalla Spagna.

Scizia era considerato anche il territorio dell’attuale Georgia, che in epoca storica era diviso tra la mitica Colchide e una regione chiamata Iberia, che erano situate ai piedi del monte più alto del Caucaso, l’El’brus (5642 m s.l.m.), il quale, in considerazione delle più antiche tradizioni indoeuropee, è da ritenere che nell’antichità fosse considerato la dimora di una divinità.

Il monte El’Brus dà il nome anche alla catena montuosa “Elburz”, o “Alburz”, la quale inizia poco più a sud dei monti caucasici, e che separa il mar Caspio dall’altipiano iranico, la sua montagna più alta si chiama “Damavand”, (2671m slm.) un altro vulcano (spento), il cui nome richiama una dea madre “Damatira”, adorata dai messapi in puglia.

Tanto il Damavand che l’El’Brus sono due vulcani spenti, una caratteristica anche del monte Albano, erano considerate la dimora di una divinità.

Ciò mi fa pensare che secondo le credenze popolari più primitive: “ La Grande Madre Terra, avrebbe creato l’universo, attraverso un’eruzione vulcanica scaturita dal Caos”.

Ciò sembra confermato anche dalle tradizioni Hindu, secondo le quali un antico monte El’Brus, oggi chiamato “Hara” o “Meru”, (6660 m slm.) facente parte della catena dell’Himalaya, dai cui ghiacciai nasce il Gange, sarebbe il polo terrestre del “Axsis Mundi”, l’asse cosmico che collega la terra alla luna, attorno al quale ruota l’universo, ma in questo caso non si tratta di una montagna nera.

Naturalmente le tradizioni induiste sono una eterodossia postuma alle più antiche mitologie vediche, inizialmente penetrate in India nella valle dell’Indo, oggi Pakistan, e successivamente diffuse nel resto del sub continente indiano, probabilmente sotto il controllo di una casta dominante, che le ha dogmatizzate dogmatizzate nel Rig Veda.

Un esempio è la grande sacralità del monte Kailâs, che lo rende inviolabile agli appassionati di alpinismo, sul quale ci sono le sorgenti dell’ Indo, il primo fiume sacro della cultura vedica.

Da notare l’affinità etimologica del toponimo Kailâs con il Kasio siriano.
lo stesso vale per Varuna, che per gli induisti era solamente il re dei naga, gli uomini serpente, mentre per i popoli europei era la massima divinità vedica, perciò tutto va valutato con il beneficio d’inventario.

Valutando che il fiume più importante della Spagna è chiamato Ebro, “Iber”, in gaelico, che i romani chiamavano “Iberius”, dal quale è derivato il toponimo “Iberia” e l’etnico “iberi”, e considerando l’affinità etimologica tra: il nome del monte El’brus, con l’Ebro spagnolo, sulla base delle tradizioni cultuali indoeuropee, si può ipotizzare una relazione religiosa tra le due iberie e quindi anche etnica.

La relazione culturale tra le due iberie è indicata anche dal nome antico del fiume georgiano Kouban, anticamente chiamato “Hypania”, (da cui Espania), il quale sorge proprio sul monte El Brus.

La radice “ebro” la troviamo anche nell’etnonimo “ebreo”, il che apre la strada a migliaia di ipotesi, che andrebbero affrontate in un contesto specifico.

Allo stesso modo dobbiamo considerare l’antichissima città di Ebla, che gli studiosi ritengono che appartenesse ai semiti, quando: oltre all’affinità etimologica del suo nome con l’idronimo Ebro, la sua fondazione risale al 4500 a.C., cioè quando i danai provenienti dalla Persia e dall’Afghanistan attravesavano la Siria per raggiungere il Mediterraneo, quindi possiamo supporre gli iberi provenissero da questa città, successivamente abitata dai semiti, che solo nel 1700 a.c., gli avrebbero cambiato il nome in Mardikh in onore della nuova divinità mesopotamica Mardukh che si stava affermando in quel periodo.

Da valutare anche l’affinità del toponimo El’brus con il nome delle Alpi, dell’isola e del fiume Elba, ma come testimonianza del legame culturale tra i liguri e gli iberi è molto significativa la presenza sullo spartiacque tra la Liguria e la provincia di Alessandria, di una montagna chiamata Ebro (1700 m. slm.), un toponimo che richiama il fiume iberico Ebro e il monte caucasico El’Brus.

Nella preistoria il monte Ebro dell’Appennino era sicuramente una montagna sacra, sede di un guru molto importante, in quanto domina la valle del Curone, un toponimo cristiano che ha sostituito l’indicativo ligure “Valle del Guru”.

Il nome della vicina valle Ossona indica la presenza di gente appartenente alla tribù ligure degli “oxsubii”, provenienti dalla Provenza, quindi sicuramente imparentati con gli iberi.


Contrariamente alle affermazioni del libro delle invasioni, nessun faraone è mai morto annegato nel mar Rosso, mentre l’ultimo Amenofi (Akhenaton), è morto nel suo letto nel 1350 a.C., e la sua morte scatenò un periodo di persecuzioni, in quanto Akhenaton era il faraone monoteista che abolì tutti gli dei, imponendo il culto di Aton.
Alla sua morte, la reazione violenta dei sacerdoti di Ammon e della nobiltà, provocò l’abbandono di Akhetaton, (La città di Aton), oggi chiamata Amarna, conosciuta dagli archeologi come la città abbandonata, una vicenda archeologicamente attestata, che potrebbe aver ispirato la leggenda dell’esodo biblico, quindi gli sciti, se fossero stati amici di Akhenaton, per non essere coinvolti nelle vendette dei sacerdoti di Amon avrebbero preferito allontanarsi dall’Egitto.

Ma il passaggio degli iberi potrebbe essere avvenuto due secoli prima, al tempo della cacciata degli hyksos, quando il faraone Seqenenra Ta’o (antenato degli Amenofi), fu ucciso in battaglia, (1555 a.C.). Alla morte di Seqenenra Ta’o, e del primogenito ancora bambino Kamose, salì al trono il fratello Ahmose, padre di Amenofi I, il quale ci offre due spunti per collegare gli hyksos al libro delle invasioni ed anche alla bibbia, in quanto l’unico figlio maschio di Amenofi “Amenemhat” muore ancora bambino, mentre nella tomba del faraone è stato ritrovato un vaso con un’iscrizione della principessa “Herit” sorella del faraone degli Hyksos “Ipepi”, una circostanza che fa supporre il matrimonio di Herit con qualche antenato di Amenofi, mentre nella necropoli romana di “Almuñecar in Spagna, è stato ritrovato un altro vaso di fattura egizia, recante un’iscrizione che cita un fantomatico re, chiamato Aauserra figlio di Ra, e una sorella del re Ipepi chiamata “Tjarudjet, ma in questo caso non i può escludere che Aauserra fosse un hyksos.

Hyksos è il nome attribuito dagli egizi agli invasori del delta del Nilo e considerando le differenze linguistiche tra i due popoli, non si può escludere che si tratti della corruzione egizia di un etnico gaelico, derivato dalla radice “iber”.

Per gli studiosi, gli hyksos sono un popolo sconosciuto, ma si sa che il faraone Seqenenra Ta’o li definiva asiatici, i quali nel XVIII secolo a.C., si erano impadroniti del delta del Nilo, fondando un proprio regno, ed esigevano tributi dal faraone di Tebe.

Si sa che gli hyksos adoravano Teshup, il dio del cielo urrita, il quale era adorato dagli hatti con di Taru, Tarhun per gli ittiti e Taranis per i celto liguri; ma in Egitto gli hyksos adorarono anche Seth il dio delle tempeste, in quanto era alleato di Ra (il sole) nella lotta contro il serpente Apopi, ciò dovrebbe indicare che nutrivano anche un particolare affetto verso il sole, come nella tradizione ligure.

Da notare che dal teonimo Teshup, che in origine significava solo Dio, etimologicamente derivano altri teonimi che si riferiscono a divinità sincretiche di Teshup, come Taru Tarhun e Taranis, per i popoli di lingua proto europea, mentre nelle lingue semite possiamo identificare Zeus e Yeshua.

Il fatto che gli egizi nutrivano una particolare avversione verso le persone dai capelli rossi, in quanto considerati figli di Seth, il dio cancellato dal panteon divino egizio perché adorato dagli hyksos, può far pensare che gli hyksos avevano i capelli rossi.

Recentemente è stato accertato che Ramsete II (nato nel 1303 a.C.), i cui bisavoli erano contadini di Avaris (la città capitale del regno hyksos), aveva la carnagione bianca e i capelli rossi, che tingeva, e anche sul volto della sua statua, sono evidenti i lineamenti caratteristici degli eurasiatici.

In oltre i genetisti hanno accertato che anche il cromosoma “Y” dei faraoni della XVIII dinastia vale a dire Tutankhamon, Amenofi, Ahmose, ecc., apparteneva all’aplogruppo “R1b” originario dell’Iberia caucasica e oggi diffuso in tutta Europa, conseguentemente il capostipite della XVIII dinastia Ahmose essendo un discendente della XVII dinastia ci dimostra che anche questi ultimi avevano origini iberiche, ciò coincide anche con le affermazioni dello storico egiziano Manetone il quale sosteneva che: alcuni faraoni della XVII dinastia erano hyksos.

Manetone pur essendo nato 1300 anni dopo l’epoca degli hyksos, aveva a disposizione notizie più attendibili di quanto ne abbiano oggi gli archeologi, pertanto è da prende in considerazione più di tutti, perché quello della XVII dinastia, fu un periodo politicamente molto instabile, tanto che oggi gli studiosi faticano a identificare i veri componenti di quella stirpe e delle precedenti, pertanto le affermazioni di Manetone, con il DNA di Ahmose (R1b1a2 SNP R-M269) , attribuiscono una notevole credibilità alla leggenda di “Galambh”, che sposa la figlia di un faraone, e come dice il DNA diventa re dei tebani, forse non sarà stato “Galambh”, in persona, ma un suo discendente, ma indubbiamente gli hyksos erano caucasici, e uno di loro è diventato faraone di Tebe.

Un altro punto a favore dell’origine indoeuropea degli hyksos, è il carro da guerra trainato dai cavalli, del quale i caucasici della steppa erano gli inventori, un’arma allora sconosciuta agli egizi e ai semiti, la quale fu determinante nella conquista dellla Siria, del Retenu da parte dei Mitanni e quindi avrebbero conquistato anche il delta del Nilo.

Tanto che gli egizi, per riconquistarloil delta dovettero a loro volta dotarsi del carro da guerra, e se per gli hyksos era stata una scelta di ordine pratico, per gli egizi fu una soluzione di alta ingegneria, in quanto con un sapiente posizionamento dell’asse delle ruote, riuscirono a ottenere una maggiore velocità del mezzo.

Il legame degli hyksos con i cavalli, mi fa pensare che sia all’origine del loro etnonimo, infatti alcuni lemmi greci che sono radici anche di parole italiane come Ippico ed equestre, presentano un’affinità etimologica dell’etnonimo Hiksos con con gli aggettivi e i sostantivi che fanno riferimento al mondo dei cavalli come per esempio lo ionico “ikkos”, e l’eolico “ikfos”, oppure il sanscrito “akuas”, o “akvas”, da cui il greco “okù-s”, sinonimi di veloce, un riferimento alla velocità dei cavalli, ai quali possiamo  aggiungere anche il latino “equus”, e il celtico “epos”, sinonimi di cavallo, e a ciò bisogna associare anche il suffisso “os” caratteristico delle lingue indoeuropee pre elleniche

Tecnologia a parte, i caucasici prima di arrivare in Egitto si insediarono in Siria e nel Retenu (Cananea o Palestina), regioni allora popolate dai semiti, i quali com’era nelle loro tradizioni si lasciavano integrare dalle civiltà superiori.

Come succedeva a tutti i popoli, a migrare erano sempre le nuove generazioni, tranne i primogeniti, i quali rimanevano con gli anziani, perpetuando la loro cultura attraverso i figli e i loro discendenti, i quali a loro volta potevano integrarsi con altri popoli.
Una testimonianza di ciò cono i filistei, nome ebraico di un popolo che gli egizi chiamavano Peleset, sinonimo di pelasgi, mentre i fenici sono stati un esempio di integrazione tra semiti e pelasgi.

Milesi sta per “ Figli di Mil Espàina” cioè “figli del soldato Espàina”(Galamh), al quale Mosè avrebbe profetizzato la conquista della penisola iberica, da parte dei suoi discendenti, che in suo onore chiameranno Spagna.

In proposito va ricordato che a Scone (Perth) in Scozia, è conservata la “Pietra del Destino”, un parallelepipedo di arenaria rossa, sul quale, secondo la tradizione cristiana, Giacobbe avrebbe avuto una visione divina, mentre la frattura che la contraddistingue, le sarebbe stata causata da Mosè, mentre tentava di trasformarla in un contenitore di acqua.

Questi Figli di Mil sono gli stessi iberi che avrebbero vissuto in Spagna indisturbati per almeno mille anni, fino all’arrivo dei cartaginesi, dei romani e dei galli, conseguentemente a ciò, la loro lingua rimase per molti secoli senza subire influenze di lingue aliene, tanto che ancora oggi, la lingua spagnola, anche se latinizzata, risente in modo evidente il retaggio di una lingua affine al greco, dotata del caratteristico suffisso “os” comune anche alla lingua greca antica e moderna.

Da considerare anche l’affinità etimologica tra “Iberia” e il nome celtico dell’Irlanda “weri”, dal quale deriva l’attuale Eire; “Hibernia”, per greci e romani.

In realtà Mill e milesi sono una forzatura latina di un termine gaelico, che oggi si può trovare nel nome di persona gaelico scozzese “Maoilios”, che significa “servo di Gesù, dove il prefisso “Maoil”, significa: “Discepolo”, “Devoto”, o “Servo”, mentre mi sembra evidente che il suffisso ios voglia indicare un dio o specificatamente Wilios, quindi in origine Maoilios indicava un servo o un guerriero al servizio di dio, se non direttamente lo stesso “Wilios, poi diventato Gesù con il cristianesimo.

Un esempio ce lo possono offrire gli Ittiti, un popolo coevo e culturalmente affine agli iberici dell’età del bronzo, i quali avevano l’abitudine di adottare le divinità dei popoli conquistati, pertanto nelle loro preghiere li citavano con la frase: “I Mille Dei”, un esempio è la città di Mileto, che nel XIII secolo chiamavano “Millawanda”, sinonimo di mille regine”.

Bisogna considerare che Milesi sono anche i cittadini di Mileto, città fondata nel X secolo a.C. in Anatolia in riva all’Egeo, ma esistono documenti ittiti del XIII secolo a.C., che citano una città della Caria, chiamata “Millawanda”.

Considerando che durante l’età del ferro Mileto ha fondato numerose colonie, è possibile che i milesi siano arrivati in Irlanda solo IV secolo a.C., con i danai e i liguri.
Sull’origine del Toponimo Mileto, la leggenda vuole che sia quello del suo fondatore, un figlio di Apollo, e forse siamo vicini alla realtà in quanto essendo Mileto in Anatolia,  il dio sarebbe  Windos , per cui potrebbe chiamarsi  Mil o Milios mentre per assonanza si può fare riferimento al monte Micale, situato di fronte alla città, indicato come sacro a Poseidone dio del mare, e dei cavalli, ma Poseidone non era una divinità Anatolica quindi Micale doveva essere il nome del fondatore di Mileto o il suo nome primitivo, precedente alla colonizzazione ellenica.

Ma nel territorio circostante a Milazzo, una colonia di Mileto risalente all’età del bronzo, dove tra la Valle del Niceto e il fiume Crati, troviamo la pianura più fertile di Sicilia, dove abbondano i toponimi con il prefisso Mil, quindi bisogna anche considerare che in epoca pre ellenica mil era il nome del miglio, uno dei primi cereali ad essere coltivato, da ricordare anche una varietà di frumento chiamata: Tritum Militinae, pertanto Mil poteva essere il nome di una divinità del miglio, poi sostituita da Cerere la dea dei cereali.

A fronte di quanto ho quì sopra disquisito, devo rilevare che l’aggettivo “Kòti”, nella lingua bengalese (lingua di origine indo ariana), indica un’unità del sistema di numerazione indiano, che corrisponde a dieci milioni, e non a caso si traduce in inglese e francese nella forma di “million”, “millionen”, in tedesco, ” mhilliùn”, in irlandese, “millean”, in scozzese, “miliwin”, in gallese, fa eccezione l’italiano, nel quale kòti si traduce in “crore”, un aggettivo che comunque mostra una affinità etimologica con il greco coti uno degli etnonimi che i greci hanno attribuito alle varie popolazioni di origine caucasica.
Pertanto si può concludere che i gaelici si definivano “Milesi” come figli di una divinità dei cereali chiamata Mil, i danai come figli di Danu mentre “coti”, “danai”, “albani”, “liguri” “achei”, “iberi”, ecc., fanno riferimento a divinità tutt’ora sconosciute.

Invece gli appartenenti all’aplogruppo “R1a”, che i greci chiamavano Sciti, sarmati o alani, si diffondevano lungo il bacino del Volga e l’India.

. Di questo ramo indoeuropeo, ci rimane solo una forte testimonianza nella civiltà di Samara, una città risalente al 6500 a.C., situata alla confluenza dell’omonimo fiume nel Volga, da dove parti la IV ondata kurgan cioè i Galli, che risalirono il bacino del Volga fino a raggiungere il Baltico, e da li si espansero, spingendo i danai verso la Francia, e gli scandinavi sempre più a nord,  andando a formare con gli scandinavi, gli slavi e i danai rimasti nel territorio, quello che diventerà il popolo dei germani vale a dire dei fratelli.

In tema di genetica, bisogna fare i conti anche con le madri, infatti, l’Europa possiede una linea genetica materna esclusiva, che si identifica con l’aplogruppo mitocondriale “H”, ancora oggi presente nella popolazione dei vari stati europei in una percentuale che varia tra il “40 e il 50 %”; nel Galles si arriva anche al 60% della popolazione, Sardegna 50 e Italia 40. Si tratta di un gruppo antico originatosi anch’esso durante l’era glaciale, quindi come gli scandinavi e gli alpini fortemente acclimatato al freddo.

Rino Sommaruga

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Il Diluvio Universale

I ritrovamenti avvenuti in questi ultimi anni sulle pendici della catena montuosa del Tauro, oltre a dimostrare l’esistenza di città e civiltà fondate 10000 mila anni prima di Cristo, stanno attribuendo una notevole importanza alle varie teorie sui cataclismi che hanno colpito la terra, i quali avrebbero generato il mito del diluvio universale, tramandato da tutte le religioni antiche.

Tra tutte trovo molto interessante la teoria relativa al crollo dell’istmo che nel IX millennio a.C. permise alle acque del Mediterraneo di entrare nel Mar Nero, che fino ad allora era solamente un lago di acqua dolce, la cui superficie era cinquanta metri più bassa di quella del Mediterraneo, il quale non essendo ancora terminato lo scioglimento dei ghiacciai, a sua volta doveva ancora recuperare una ventina di metri nei confronti del suo livello attuale.

Oggi la salinità del Mar Nero è poco meno della metà di quella del Mediterraneo, dal quale riceve 200 miliardi di metri cubi di acqua salata all’anno (ma esiste anche una corrente superficiale di acqua salmastra che si riversa nel Mediterraneo) a fronte dei 320 miliardi di metri cubi d’acqua dolce, che ogni anno riceve dai fiumi, ai quali bisogna aggiungere gli oltre 2000 metri di profondità, che favoriscono la decantazione dei sali presenti nell’acqua.

Trattandosi allora di un grande lago di acqua dolce, il Mar Nero era frequentato da numerose mandrie di animali selvatici, perciò eraanche una specie di paradiso terrestre dei cacciatori, i quali non avevano bisogno di inseguire le mandrie.

È di quel periodo la costruzione del tempio di Göbekli Tepe, situato al confine tra l’Anatolia e la Siria, secondo gli archeologi la sua edificazione sarebbe iniziata attorno al 9500 a.C., mentre nel 8000 a.C., fu abbandonato e ricoperto deliberatamente dall’uomo con una coltre di terra alta più di 15 Metri.

Ritrovato nel 1993 grazie all’affioramento di pietre lavorate, nel corso degli scavi sono stati rinvenuti numerosi megaliti sovrapposti tra loro, in modo da formare tante “T” alte dai 3 ai 6 metri, con incisioni rupestri che raffiguravano numerosi animali. Probabilmente la “T” era il simbolo che rappresentava il loro dio, che considerando l’epoca della fondazione del tempio, poteva essere solo la “Potnia Therron”, primordiale, vale a dire la Signora degli Animali, per i cacciatori e i pastori, mentre per i contadini diventerà la:“Grande Madre Terra”, “Thira”, o “Thera”, per i greci arcaici, Thiresia era il nome dei suoi sacerdoti.

In merito alla sepoltura del tempio, ritengo che si sia trattato di un atto rituale, dovuto al fatto che secondo la tradizione paleolitica, Thera emerge dal cono di un vulcano ed inizia a creare il mondo, da qui l’antica sacralità dei vulcani e delle montagne rosse, vedi i vulcani “Thera “, “El’Brus”, e le “Arunachala” della tradizione vedica, senza dimenticare le “Moot Hill”, della Scozia, e le “Mutere”, del Veneto, colline artificiali sacre, realizzate con argilla rossa.

Quindi i primitivi in onore della dea avrebbero realizzato un tempio sotterraneo del quale emergevano sulla cima della collina i simboli della divinità, e non è escluso che alla base della collina artificiale, ci fosse un cunicolo che raggiungeva la stanza dove era depositato il tesoro della regina.

Potnia Theròn

La Signora degli Animali, chiamata anche Cibele.

 Statuetta votiva ritrovata a: Catalhöyük 6000-5500 a.C. Copyright della foto Stanislaw Nowak Roweromaniak

Anche se non condivido la traduzione del teonimo (preferisco Signora Terra), si tratta comunque di una divinità degli animali, sicuramente la stessa adorata nel tempio di Göbekli Tepe dai cacciatori paleolitici e dai primi pastori neolitici.

In seguito sarà gradualmente sostituita dalle grandi madri tribali dei coltivatori ariani.

I greci pre ellenici laidentificavano con il vulcano Thera, la cui esplosione (1650 a.C.) mise definitivamente fine al suo regno nell’Egeo; ma continuerà ad essere adorata dai frigi, un popolo della Tracia, che in seguito migrerà in Anatolia come alleato degli Ittiti e dei Troiani, nella guerra contro gli invasori elleni.

Catalhöyük è un insediamento che presenta 18 livelli abitativi che vanno dal 7500 a.C., al 5000 a.C.; le sue abitazioni erano costruite una addosso all’altra senza porte e finestre, evidentemente per motivi di sicurezza, mentre la gente si spostava camminando sui tetti.

Il loro interno era costituito da un locale adibito a ripostiglio e da un dormitorio rifugio, con al centro un focolare, circondato da piani rialzati che fungevano da sedili e letti.

Anche la leggenda di Ali Baba sembra trarre origine da quelle antiche tradizioni e sembra essere la manipolazione di una maledizione indoeuropea, in quanto contiene diversi riferimenti che si collegano alla cultura matriarcale.

Il primo tra tutti è il nome dell’abile schiava Morgiàna che etimologicamente ci porta alla Morrigan, la regina della palude, divinità dal doppio aspetto, nera se annunciatrice di morte, rossa se portatrice di Vita.

La grotta è invece il tempio sacro dove si celebravano i riti, e venivano conservate le offerte votive, pertanto la parola magica “Sesamo” rientrava in queste tradizioni, in quanto in epoca primordiale, il sesamo oltre ad essere alla base dell’alimentazione umana era anche oggetto di offerte votive, il sesamo bianco per esempio, era simbolo di immortalità, mentre allo scopo di favorire il passaggio dei defunti nell’aldilà. venivano offerti alla dea 4 vasi di sesamo nero.

Quindi l’offerta del sesamo era la parola magica che induceva il sacerdote Kasim, il “ricco” fratello di Ali Baba, ad aprire il cancello che sbarrava l’accesso al tempio, il quale verrà poi ucciso.

Mentre l’inumazione della salma di Kasim e la morte dei 40 ladroni per mano della schiava Morgiàna sarebbe la punizione della Grande Madre su chi ha osato profanare il suo tempio.

Un toponimo molto indicativo sull’esistenza di un istmo  tra il Mar Nero e il Mar di Marmara, (mare amaro?) è il nome del Bosforo, che nella lingua greca antica significava: “Passaggio del Bue”, quindi il nome del Bosforo indica un luogo che essendo l’unico collegamento tra le due rive opposte permetteva il passaggio delle mandrie, che si spostavano tra i pascoli e le rive del lago.

Ciò sembra confermato anche dallo studio della genetica bovina (Deker 2013), i quali hanno rilevato un’ibridazione introgressiva dal toro africano dei bovini italiani ed iberici (ibrido fertile in grado di ibridarsi con altri ibridi).

Ciò ha indotto alcuni studiosi a considerare l’ipotesi che la pastorizia fosse già praticata nel paleolitico, ma considerando che i cacciatori paleolitici inseguivano le mandrie che migravano verso nord, trovo più plausibile l’ipotesi che il toro africano sia giunto in Europa guidato dal proprio istinto, proprio attraverso il Bosforo o anche nuotando nello stretto di Gibilterra.

È interessante anche il nome dei Monti Tauri, i quali potrebbero aver preso il nome dal passaggio delle mandrie di tori provenienti da sud in cerca di pascoli migliori, e lo stesso si può affermare della Tauride l’attuale Crimea, un’altra regione che allora aveva una forte concentrazione di mandrie taurine.

Quindi esistevano due regioni ad alta concentrazione bovina, poste alle due estremità opposte dal Mar Nero, come se quel mare fosse stato lo spartitraffico del flusso migratorio, di mandrie provenienti dai territori in fase di desertificazione.

È interessante il fatto che il toponimo Bosforo si sia tramandato incorrotto per diecimila anni, ma ancora più interessante, è che anche il nome del “Mar Nero”, è di origine primitiva, in quanto sarebbe la corruzione dell’indoeuropeo “Mornera”, che significava “terra coperta d’acqua”, usato come sinonimo di “Palude”, ma forse originato dal ricordo dell’innondazione che causò l’innalzamento del livello del Mar Nero e la conseguente sommersione perenne di una grossa porzione di terra.

Dalla batigrafia del fondale odierno http://WWW.fmboschetto.it, si nota una vasta pianura a – 66 m dal livello del mare, la quale si estende lungo la costa europea fino a coinvolgere il bacino del Dnepr e tutto il mare d’Azov, sulla quale emerge solo la penisola di Crimea, che in epoca classica era chiamata Tauride; invece lungo le rive Anatolica e Caucasica l’arretramento della costa è stato modesto.

La Tauride era chiamata anche Kersoneso la cui capitale Kerson (Sebastopoli) era una colonia greca.

Kersoneso è un toponimo che i greci hanno diffuso dappertutto, anche la Danimarca, dove erano arrivati i danai, che era chiamata Kersoneso, pertanto mi sembra giusto sottolineare che la sua etimologia ci riporta al toro, in quanto “Kerson” potrebbe derivare dalla stessa radice che ha originato il nome di “Cernunnos”, il dio celtico, metà toro e metà cervo, mentre il suffisso “eso” significherebbe “weso”, sinonimo di dimora, quindi Kersoneso significherebbe: “Dimora di Kerson”.

            A parte i circa 80 o 100 mila chilometri quadrati di costa persi dagli insediamenti umani, il vero danno fu la partenza delle mandrie, le quali si sarebbero allontanate dalle acque salate del Mar Nero, seguendo il corso dei fiumi, o attraverso il Caucaso, inseguite dai cacciatori, i quali dispersero o diffusero quella cultura nell’arco di 360 gradi.

Quindi il Mar Nero ed il Tempio di Göbekli Tepe, potrebbero essere stati l’anello di congiunzione culturale tra l’Europa e l’India, che ha portato alla formazione della cultura indoeuropea, che in seguito all’abbandono delle rive del Ponto, si è diffusa lungo le rive del Danubio, dell’Eufrate, del Tigri, e la valle del Caucaso fino a raggiungere la Mesopotamia, l’Egitto, le steppe orientali e l’Europa.

Tracce di questa migrazione ce la forniscono gli antropologi, i quali sostengono che i sumeri, la civiltà più antica finora conosciuta, giunsero in Mesopotamia passando dai monti Tauri, mentre gli archeologi sono concordi nel ritenere che: Harappa nella valle dell’Indo e le città dell’alta Mesopotamia sono più antiche di quelle del regno di Sumer, vale a dire Aratta, Eridu, Lagash, Ur, Uruc, situate più a sud, sul livello del mare.

Ma molto significativa è la diffusione nel continente nero del cromosoma genetico “Y” “R1b(V88)”, di origine caucasica, avvenuta in un periodo concomitante con l’abbandono di Göbekli Tepe, quando il Sahara era ancora una savana.

Questo aplogruppo oggi è presente tra i Fulani (Camerun e Nigeria) per il 54%, tra i Kirdi (Nigeria), con frequenze che variano dal 30 al 95%, in Sudan, Coopti 15% e Hausa 45%, berberi libico egiziani 23%, Egitto 5% ebrei 4%.

Nella migrazione verso l’Egitto e il Camerun si potrebbe identificare la stirpe camitica e collegare la catastrofe del Mar Nero con il diluvio biblico.

Ciò sembra confermato anche archeologicamente, in quanto nello stesso periodo è attestata la diffusione della cultura Capsiana, si tratta di pastori che progressivamente hanno colonizzato le coste mediterranee dell’Africa per poi arrivare in Spagna, dando inizio alla cultura iberica.

I capsiani, dal nome della città antica di Capsa, oggi Gafsa si sovrapposero alla precedente cultura dell’uomo di Mechta- Afalou un tipo di Cro-Magnon arcaico, 20000 a.C., più basso e minuto del caucasoide.

Lo stesso si potrebbe dire dei semiti, ma questi pur appartenendo al tipo antropico: “Bianco Caucasico”, e provenienti dal Caucaso, non appartenevano allo stesso gruppo genetico dei caucasici migrati in Africa.

Infatti i semiti appartengono all’aplogruppo “J”, il quale è una delle due linee evolutive dell’aplogruppo “K”, dal quale si è originata anche la linea evolutiva “I”, Scandinavi, da cui le differenti nomenclature “I” e,“J”.

Bisogna sottolineare che in origine si trattava di piccoli gruppi composti da un centinaio di persone, dove l’accoppiamento tra consanguinei era abbastanza frequente, condizione che favoriva lo sviluppo di una morfologia caratteristica dell’elemento dominante del gruppo, ed una eventuale diversificazione dell’evoluzione genetica.

Da ciò i caratteristici capelli biondi degli scandinavi e le capigliature nere degli arabi i quali le avrebbero acquisite dai sumeri, popolazione di probabile origine Hindi con i quali i semiti hanno convissuto in Mesopotamia migliaia di anni fino ad integrarli.

Questa tesi è dimostrata anche dal fatto che i sumeri amavano distinguersi dai semiti definendosi “Teste Nere”, e che la loro cultura essendo estremamente meritocratica non escludeva il fatto che anche i servi e gli schiavi semiti potessero salire nella scala sociale e sposarsi con una donna sumera, trasmettendo ai propri discendenti anche i caratteri sumeri.

Questo macro gruppo sarebbe originario dell’India orientale, dalla quale si è spostato nel Caucaso, dove forse a causa del sovrappopolamento delle rive del Mar Nero, alcuni di loro hanno iniziato a risalire il Danubio, popolando i Balcani, l’Italia, e in seguito il nord Europa, innescando una propria linea evolutiva oggi denominata “I”, vale a dire i proto europei, i quali a loro volta si evolveranno in altri due gruppi lo “I1” oggi riconducibile agli scandinavi e lo “I2” che contraddistingue gli slavi.

Dopo il cataclisma del mar Nero, gli appartenenti alla linea evolutiva “J”, sotto la guida di un capo mitologico, che poteva anche chiamarsi Sem, si sarebbero spostati verso la penisola arabica, che allora come il Sahara assomigliava più a una savana che a un deserto, e anche loro si separarono, infatti quelli che penetrarono nella penisola araba diedero vita a una propria linea evolutiva indicata con la sigla “J1”, mentre quelli che si fermarono nel territorio siriano formarono il ceppo generico “J2”, che in seguito si diffuse nel mediterraneo orientale.

            Le stesse teorie sull’inondazione del Mar Nero, vengono avanzate anche nei confronti dello stretto di Hormuz e del Golfo Persico, e sono senz’altro valide per quanto riguarda l’innalzamento del livello del mare, che è stato nell’ordine massimo di 120 metri, infatti la profondità media del golfo di 50 metri, ci dice che allora il golfo era un territorio completamente emerso attraversato da un fiume, che riuniva il Tigri e L’Eufrate e quindi abitato, ma la sua attuale profondità massima di 180 metri, per di più nei pressi dello stretto di Hormuz, a sua volta profondo 200 metri m’impedisce di pensare all’esistenza di una barriera che separava i due mari e di un lago, che attirava lungo le sue rive numerose mandrie di animali.

Ciò andrebbe messo in relazione anche con il processo di desertificazione, iniziato durante l’era glaciale, che ha progressivamente allontanato dalla bassa Mesopotamia la vegetazione e i grandi mammiferi.

Anche il mar Caspio presenta caratteristiche che possono far pensare a un diluvio originato da un improvviso aumento del flusso idrico.

Ciò è dovuto al fatto che questo lago salato è posto all’interno della “Depressione Caspica”, ragion per cui il livello delle sue acque è di 28 metri sotto il livello del mare, mentre il fondale scende dai 6 metri nel bacino settentrionale, con una profondità media di 25 metri, ai 1025metri del bacino meridionale, nei pressi della costa della fertile valle dell’Hyrcania, situata ai piedi del vulcano Damavand,  pertanto con un fondale inclinato verso sud si può supporre che durante l’era glaciale il livello delle acque fosse  ancora molto più basso, e quindi  la depressione caucasica  fosse un ampio territorio abitato.

Le stesse ipotesi valgono anche per il mar Rosso, anche se la sua profondità massima 2200 m e media 500, lasciano poco spazio alle ipotesi.

A ciò bisogna aggiungere le frequenti bufere di sabbia che si scaricano sull’acqua, causando il progressivo innalzamento del fondale.

Lo stretto di Bab el Mandeb (Porta del lamento funebre), che separa il mar Rosso dall’oceano Indiano, con la sua profondità inferiore ai duecento metri ha dato luogo alla leggenda di un mitico re che fece abbattere la montagna che separava i due mari.

Un’altra leggenda parla di un terremoto catastrofico che causò la separazione della costa africana da quella arabica e l’annegamento di molte persone.

 

Rino Sommaruga

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