I Caucasici

All’inizio era la Grande Madre Terra, ma col tempo gli uomini si resero conto che era l’acqua a renderla fertile, e nell’immaginario umano la dea prese la forma di un fiume, che con il suo scorrere sinuoso somigliava a un serpente, quindi la dea si trasformava in serpente per accoppiarsi con il suo amante, il serpente cosmico Ofione (Ofiuco, costellazione del Serpentario).

Si tratta di una tradizione continuata anche nella Grecia classica, infatti nella teogonia di Esiodo la Grande Madre che dal Caos crea l’universo è Gea, mentre Ofione diventa Uranos.

Nella tradizione dei danai la dea assume il nome di Danu, che nella lingua sanscrita (indiano ufficiale, la lingua più antica ancora parlata) ha il significato di pioggia o liquido, mentre in avestico (persiano antico) significava letteralmente: fiume, e non a caso il nome del fiume Danubio, oltre al teonimo Danu, contiene il greco “byos”, sinonimo di “vita”, quindi Danu è la Vita.

Dal nome avestico della dea possiamo dedurre che i danai erano un popolo di origine persiana, che in epoca primordiale migrò verso nord, attraversando l’Afghanistan, il Caucaso seguendo le rive del Mar Nero e del Danubio, fino a raggiungere il Nord Europa.

Nella tradizione più antica il serpentario era Varuna (Vrtra nella mitologia hindi), figlio e amante di Danu e signore delle acque, poi ripudiato in favore dell’altro figlio Indra, la costellazione del Toro.

Infatti, di fronte ai periodi di magra dei fiumi e alle successive piene che avvenivano dopo i temporali, tra gli uomini si fece strada la convinzione che Varuna fosse un demone che imprigionava l’acqua sui monti, mentre il dio dei fulmini e dei tuoni la liberava, pertanto Indra divenne l’amante della dea e dio della fertilità, mentre Varuna venne definito un demone

Da notare che la costellazione del Serpentario non ha mai costituito un segno astrologico, proprio perché lo zoroastrismo la considerava una divinità diabolica, mentre l’idea di una divinità benefica che fertilizza la terra, trova anche un riscontro scientifico nei temporali, in quanto bisogna considerare che i fulmini distruggono le molecole dei gas che attraversano, pertanto favoriscono la combinazione: ossigeno idrogeno, che porta alla pioggia.

Nasce così la cultura indoeuropea che avrà il Caucaso e il Mar Nero come epicentro e crocevia di popoli che pur appartenendo ad etnie diverse: europei, indiani, arabi, semiti, sumeri ed egizi, svilupperanno le loro culture partendo da un’unica divinità primordiale.

XII mila anni fa, l’Europa, che fino all’epoca di Tobleki Tepe, era abitata da gruppi sparsi di cacciatori, geneticamente africani, appartenenti agli aplogruppi patrilineari “E”, “F”, divenne meta delle popolazioni caucasiche, appartenenti agli aplogruppi “G” Europa occidentale, “I”, Balcani, Scandinavia e Inghilterra, “N”, Finlandia, nord della Russia europea e Siberia. Si tratta di gruppi genetici tutt’ora presenti nei paesi sopra citati, dove tranne l’Inghilterra e l’Europa occidentale hanno la discendenza più numerosa.

Fa eccezione il gruppo “G”, quello più antico, e padre della civiltà neolitica, il quale pur essendo in fase di estinzione è tutt’ora fortemente radicato in alcune isole genetiche, situate lungo il percorso principale della sua diffusione, e ancora oggi osservando la mappa della sua presenza si può ricostruire le tappe della sua espansione.

Originario della valle dell’Indo (Pakistan), dopo aver tentato di inseguire il sogno umano di allora: “Arrivare alla casa del dio Sole”, la presenza di questa linea genetica è attestata nel sud della Cina e nelle isole del Pacifico, forse ostacolati dai popoli che li hanno preceduti, si rivolsero verso il Caucaso, attraversando la mezzaluna fertile, da dove grazie al fatto che l’Europa era scarsamente abitata, dilagarono verso il nord-ovest.La loro prima meta fu il Caucaso, dove ancora oggi in Ossezia (Georgia e Russia), la presenza dell’aplogruppo patrilineare “G” si aggira in percentuali tra il 20 e il 40%,dopo di che osservando una mappa che visualizza la sua distribuzione: WWW.eupedia.com/europe/haplogrup-G2a- si nota una larga fascia che indicando una percentuale minima del 15% attraversa l’altipiano Anatolico, dirigendosi verso il golfo di Smirne dove le presenze risalgono al 40%, mentre nel resto della Turchia si attestano al 10%, percentuali altissime se si considera l’antichità delle migrazioni, ma forse giustificate dalla vicinanza dell’Ossezia, dalla quale le migrazioni potrebbero essere continuate fino ai giorni nostri.

In merito all’Ossezia è molto indicativo il fatto che anticamente era chiamata “Alania”, che in sanscrito la lingua più antica ancora parlata sulla terra, significa: “Casa della Neve”, ed ancora oggi le cime innevate del Caucaso sono raffigurate nello stemma dell’Ossezia.

La comunità anatolica più antica di cui si ha notizia, è il popolo di “Hatti”, è citato in documenti accadi, risalenti al XXXVI secolo a.C., erano pastori ed avevano addomesticato il cane, ma sapevano anche lavorare il metallo, la ceramica e navigare. Impossibile affermare se appartenessero al ceppo genetico primitivo “G”, o al più recente “R1b” che gli stava subentrando per mezzo degli ittiti, una popolazione originaria della steppa nord caucasica, con la quale si sono integrati. Quello che è certo è che durante la battaglia di Kadesh, XIII secolo a.C., gli egiziani li distinguevano dagli ittiti per l’aspetto differente.

Si può supporre che la differenza somatica fosse nel colore della pelle o dei capelli,infatti si può ritenere che vivendo migliaia di anni sugli altipiani, dove l’atmosfera rarefatta riduce notevolmente il filtraggio dei raggi solari, tra la popolazione del gruppo “G” si sia prodotta una selezione naturale che ha favorito le persone di carnagione scura, come gli hindi per esempio, mentre è noto che i popoli della steppa, tradizionalmente hanno la pelle chiara e i capelli biondi, anche se a quel tempo la definizione di biondo era alquanto estemporanea, e spesso si confondeva con il rosso caratteristico dei persiani.

Oggi in Anatolia nonostante che l’aplogruppo R1b”, si sia sovrapposto al “G” è scarsamente diffuso, infatti lo troviamo in proporzioni che variano dal 20% lungo la costa del Mar Nero al 10% nel resto del paese, e completamente privo di enclavi genetiche, mentre è concentratissimo in Europa, dove è arrivato seguendo le rive dell’Adriatico e le coste del Mediterraneo.

Degli Hatti ci rimane la città più antica fin’ora scoperta Catal Hüyük, 5700 a.C:, le cui case erano costruite muro contro muro, con l’accesso dal tetto, e senza porte e finestre.

Lasciato il golfo di Smirne, il ramo genetico “G”, riaffiora sulle rive tessaliche dell’Egeo; terra famosa per essere stata abitata dagli eoli, il primo popolo ellenico a raggiungere la Grecia e prima ancora dalle popolazioni che hanno colonizzato l’Italia durante l’età del bronzo, come i mitici: pelasgi, gli iapigi, gli enotri, i dauni ecc.

In Tessaglia emerge la cultura di Sesklo 6850 a.C., oggi considerata postuma alla cultura della ceramica “cardiale”, la quale fa riferimento a un sistema di decorazione dei vasi, ottenuta attraverso l’uso come stampini di particolari tipi di conchiglie. La ceramica cardiale risulta diffusa anche a Catal Hüyük, e sulle coste del Libano, ma la sua maggior diffusione avviene sulle coste Balcaniche e in Italia, Francia e Spagna, quindi la possiamo considerare come caratteristica del proto europeo occidentale. Un particolare molto significativo è che in Spagna e Francia questa cultura emerge nei luoghi dove sono presenti toponimi simili a quelli della cultura ligure, Murcia, Valencia Albacete, Baleari, Catalogna, Provenza e valle del Rodano.

In Italia c’è da segnalare il ritrovamento sulle Alpi della mummia di Similaun, la quale si è accertato che apparteneva all’aplogruppo “G”, e la presenza di due località chiamate Alagna situate in luoghi frequentati dai cercatori d’oro liguri  prova di una sicura relazione tra i liguri e l’Alania caucasica. Queste popolazioni inizialmente vivevano in grotte, ma impararono rapidamente a, coltivare, allevare e navigare; in realtà benché vivesse in grotte, si trattava di una società molto evoluta, per la quale vivere in case scavate nella roccia era un’usanza religiosa, in quanto adoravano la “Grande Madre Terra”, una tradizione paleolitica, le cui tracce le troviamo ancora oggi nei “Sassi di Matera”, dove il toponimo Matera significa proprio “Madre Terra”. Questa cultura viene associata alla diffusione in Europa dell’aplogruppo “G”, del cromosoma “Y”, infatti oggi le maggiori concentrazioni di questo ceppo genetico le troviamo proprio al di la del canale d’Otranto, sulle Murge, i monti calabresi, e gli Appennini centro-meridionali, Sicilia, Sardegna, Spagna Portogallo, sull’arco alpino e in Boemia; la ceramica cardiale è associata anche ad alcuni monumenti megalitici dell’Europa nord-occidentale, presso i quali sono stati ritrovati alcuni manufatti.

Contemporaneamente al ceppo “G” anche l’aplogruppo “I” originario dell’India, inizia la colonizzazione dell’Europa, risalendo il corso del Danubio e del Don, dove emerge la cultura di Karanovo datata VI-VII millennio a.C., anche questa cultura adorava la Grande Madre Terra.

Da citare la tribù dei Cocuteni-Trypillian, V millennio a.C., la quale costruiva città da 10-14 mila abitanti, che bruciavano ogni 60-80 anni per trasferirsi altrove. Questa usanza mi fa supporre che si trattava di un popolo di pastori, o contadini, che praticavano la rotazione dei campi, ragion per cui è ipotizzabile che la terza generazione creasse nuovi insediamenti, mentre il villaggio antico con la morte degli anziani, veniva bruciato in segno di purificazione, ma anche per rigenerare la terra.

Contemporanea al Karanovo è la cultura di Starcevo dal VII a lV mila a.C., Serbia, agricoltori e cacciatori, alla quale succede la cultura di Vinca 5.500 a.C. 15 Km da Belgrado, lavoravano il rame con strumenti molto progrediti

Anche Belgrado era soprannominata la: “Città Bianca”, infatti nel Medio Evo il suo nome fu spesso cambiato in “Alba Bulgarica”, o Alba Greca”, ma il tutto era dovuto al dio solare Windo adorato dagli albani e dagli juli con il nome di Bel, infatti il toponimo Belgrado significa appunto “Monte di Bel”, in quanto la città primitiva, o forse il centro spirituale, era posto su una collina situata alla confluenza della Sava nel Danubio.

Nel III secolo a.C., Belgrado era nota con il nome di “Singidūn” un toponimo che con il suffisso “Dūn”, farebbe riferimento a un luogo fortificato, mentre il prefisso “Singi” potrebbe essere un verbo celtico dal quale si sarebbero originati il tedesco “singe” e l’inglese “sing”,  i quali hanno il  significato di: “canto”, evidentemente il toponimo faceva riferimento a una fortezza situata in un luogo dove si manifestavano le “brontidi; si tratta di brontolii provenienti dal sottosuolo, la cui bassa tonalità li farebbe somigliare a un canto, un fenomeno che ancora oggi si manifesta lungo le rive del fiume Ombrone, e che gli antichi consideravano la voce della dea del fiume.

Questo mi porterebbe anche a pensare che Dūn sia il nome di Danu la dea del Danubio, e quindi Singidūn avrebbe avuto il significato di “Canto di Danu”; in oltre Dūn sarebbe l’etimo che ha originato anche il nome del fiume Don.

Alla cultura di Vinca apparterrebbero anche le tavolette di Tartaria, una località della Transilvania situata nei pressi di Alba Iulia, una città fondata dai romani con il nome di Apulus, in onore di Apollo e per questo chiamata anche “Città Bianca”, il che presuppone l’esistenza di un villaggio primitivo sacro a Windo.

Le tavolette fanno parte di reperti rinvenuti in un contesto archeologico datato III millennio a.C., ma che un recente esame al radio carbonio ha stabilito che la loro origine risale al 5500 a.C. e sarebbero quindi la testimonianza della più antica forma di scrittura mai ritrovata. (WWW Tavolette di Tartaria Wikipedia).

A parte le ipotesi avanzate da vari gruppi di studiosi, a mio parere le pietre potrebbero essere amuleti conservati per secoli, oppure realizzate con materiale di recupero, ma quello che conta è il significato delle incisioni, che nessuno è ancora riuscito a decifrare.

In una delle tavolette appare un animale con collo e corna lunghi da sembrare un cervo o un caprone, ed è presente un albero, mentre in basso ci sono piccole incisioni che sembrano raffigurare la crescita dell’erba o dei cereali, mentre alla sinistra di chi guarda, si nota una figura confusa che presenta due linee sinuose, le quali sembrano raffigurare un fiume con un suo affluente.

A mio parere quella tavoletta sembra un omaggio alla dea del fiume che nutre la natura, ma volendo valutare pure le cinque tacche presenti in alto a sinistra, si potrebbe pensare anche alla quinta luna, corrispondente al mese di maggio, la luna durante la quale secondo le tradizioni antiche, la natura si risveglia e il toro feconda la Grande Madre. Altre due tacche appaiono ben distanziate dalle prime e potrebbero raffigurare le lune in cui avviene il raccolto: settembre ed ottobre

Il tema sembra ripetersi anche nella tavoletta più piccola, la quale presenta un foro e un diametro di 6 cm. che la fanno sembrare a un medaglione.

Nel medaglione ritroviamo le cinque tacche, che questa volta sono barrate, come a indicare un ciclo trascorso, mentre appare la lettera “D”, ripetuta 3 volte la quale mi sembra un chiaro riferimento alla dea Danu o Dūn, In oltre, sono presenti altri simboli piuttosto complessi che sembrano raffigurare le lettere “X, H, E, R”. ma che al momento non sono in grado di collegare a tradizioni antiche.

Nella terza tavoletta, praticamente indecifrabile, sembra apparire una figura antropomorfa dal corpo filiforme, vicino al volto di un suino, forse lo sciamano con la sua scrofa?  Ma non si può escludere che l’immagine simboleggi lo spirito del dio che si incarna nel suino.

L’animale appare in un’altra parte della tavoletta in forma miniaturizzata, completo e di profilo, ma il contesto non è riconoscibile. Si potrebbe pensare al cinghiale semilanuto o alla sua femmina, alla quale facevano ricorso i sacerdoti del culto di Varuna (Signore delle Acque) e in seguito anche i druidi celti, per attirare la benevolenza del dio; pertanto le tavolette sarebbero state incise durante l’età del rame o comunque nel più tardo paleolitico, quando il culto di Varuna era già in auge.

La diffusione del cromosoma “Y” ceppo “I” continua in Polonia con i cacciatori della cultura del Maglemosiano, Mullerup in Danimarca, 7.500 a.C., per poi diffondersi nella Germania nell’est Europa in Inghilterra e Scandinavia, cultura di Cangemose 6.000 a.C., alla quale seguirà la cultura di Ertebolle, 5.300 a.C.

Infine dobbiamo citare l’aplogruppo patrilineare “N”, originario dell’indocina 20.000 anni fa si è diffuso in tutto il nord euroasiatico, dalla Siberia alla Finlandia.

Importantissima è la cultura di Varna datata 4600 a.C., la quale oggettivamente è un’evoluzione del Karanovo, ma il toponimo ci dice che spiritualmente il culto di Varuna ha preso il sopravvento su quello della Grande Madre. Questa cultura potrebbe testimoniare l’arrivo sui Balcani dell’aplogruppo patrilineare “R1b”, portatore del culto di Varuna.

Varna è un toponimo originato da un difetto di pronuncia, che ha provocato la caduta della “u” trasformando il teonimo “Varuna”, nel toponimo “Varna”, città sacra a Varuna. A Varna si registra il ritrovamento di 296 tombe a inumazione, molte delle quali erano ricche di sofisticati gioielli in oro.

La ricchezza delle tombe e il riferimento a Varuna mi fanno pensare all’arrivo di un popolo di guerrieri, forse gli antenati dei traci, che hanno assunto il ruolo di casta dominante, riducendo la popolazione autoctona al ruolo di “slavi”, vale a dire servi o schiavi. Dei Traci si hanno notizie a partire dalla tarda età del Bronzo, le quali li indicano come un popolo numeroso e potentissimo, i ritrovamenti archeologici li indicano ricchi ed abilissimi nella lavorazione dell’oro, quindi erano sicuramente continuatori della cultura di Varna.

I traci dell’età del rame proprio perché numerosi migreranno verso nord risalendo il corso di fiumi come il Danubio e il Don, raggiungendo la pianura Padana e la Danimarca.

Da sottolineare che tanto ai fiumi che alle regioni che andranno ad occupare, daranno nomi originati dal teonimo “Danu”,la madre di Varuna e degli asura le prime divinità vediche. Nel rigveda Danu è solamente la personificazione delle acque che viene divorata dal demone serpente “Vrtra” divinità del cielo (costellazione del Serpentario), il quale a sua volta viene ucciso da Indra (pianeta Giove), che diventerà il re degli dei vedici, mentre i suoi attributi dio del tuono del fulmine della pioggia ecc. saranno attribuiti a tutte le divinità preminenti tra i popoli indoeuropei e semiti: Zeus, Giove, Tinia, Taranis.

In realtà Vrtra è Varuna, inizialmente adorato come: “signore del cielo della terra e delle acque”, poi retrocesso a re dei naga (uomini serpente), e tradizionale nemico di Indra. Questo scambio di nomi probabilmente è dovuto al fatto che il culto di Varuna è molto più antico del rigveda e pertanto i suoi estensori possono aver confuso il nome.

La tradizione vedica è una evoluzione delle credenze paleolitiche, secondo le quali: “La Grande Madre dopo essere emersa dal caos, si accoppia con il serpente Ofione (Costellazione del serpentario), e dalle uova che depone scaturisce la vita”, in seguito Ofione sarà ripudiato e sostituito dal Toro.

Nella eterodossia della mitologia greca Varuna diventa Uranos, dio del cielo, figlio e marito di Gea, dea della terra, la Grande Madre, la quale lo avrebbe concepito da sola, in seguito per volontà di Gea sarà spodestato dal figlio Crono (la continuazione della tradizione vedica), il quale regnerà con la moglie e sorella Rea. In seguito anche Crono sarà spodestato dal figlio Zeus, il quale possedeva gli attributi di Indra.

Piuttosto complessa è la presenza alla foce del Danubio del toponimo Histria, in quanto fa riferimento a una città fondata dai milesi, per commerciare con i Traci, e a una regione slava confinante con l’Italia, ma che nella forma maschile: “Histro”, era anche il nome del Danubio.

In realtà Histro e Histria sarebbero originati dal greco “strygos”, il nome della civetta, l’uccello totemico della dea Athena, potentissima divinità pre ellenica, che rimase matrona di Atene anche con l’arrivo dei semiti elleni, la quale era raffigurata con la civetta sulla testa e veniva chiamata anche” Strigòs”, da ciò il tracio e proto padano “Hi Stria”cioe: “ la strega”, da cui anche Stiria e Austria, e anche nel dialetto lombardo trovamo Stria come sinonimo di strega.

Quindi il Danubio era chiamato Histro in onore della dea Athena la matrona dei popoli che succedettero ai Danai lungo le rive del fiume che caratterizza l’Austria, e lungo il suo corso in territorio ungherese troviamo anche la città di Strigonio sede di una fortezza romana dove avrebbe risieduto anche Marco Aurelio.

A conferma del fatto che questi toponimi, facciano riferimento ad Athena Strygòs, troviamo anche il monte “Palla Bianca”, la montagna più alta delle Alpi Venoste la quale era sacra ad “Athena Pallade”, colei che scaglia l’asta, per ciò soprannominata anche “Palla”.

Tra le numerose tribù trace, possiamo citare i Bitini e i Tini due tribù gemelle, le quali con ogni provabilità adoravano Tinia, il re degli dei etruschi, il cui teonimo concorre a formare i nomi di alcuni fiumi situati nel territorio ligure, quindi posso supporre che queste due tribù hanno partecipato alla colonizzazione della Padania e del territorio del Rodano, un altro idronomo che contiene la radice Danu In quanto precedentemente colonizzato dai danai.

Gli studi sulla genetica ci dicono che l’aplogruppo ”R1b” apparso 9000 anni fa inizialmente si rivolse verso la valle del Nilo attraverso la quale penetrò l’Africa fino a raggiungere l’attuale Camerun, dove questo ceppo è ancora presente tra la popolazione di pelle nera. Contemporaneamente questo ceppo genetico iniziò una lenta colonizzazione delle coste mediterranee, fino a raggiungere lo stretto di Gibilterra, dove è ancora presente tra le popolazioni berbere, per poi raggiungere la Spagna e il nord Europa.

Erano gli, iberi una popolazione caucasica proveniente dall’attuale Georgia, che come gli albanesi, provenienti dalle attuali Azerbajan e Armenia, appartenenti allo stesso aplogruppo “R1b”, e si potevano definire la coda dell’immigrazione danaide, ai quali poi seguiranno le migrazioni dei semiti.

Gli albanesi che storicamente conosciamo come “danai”, via mare colonizzarono anche l’Italia a partire dalla Puglia dove ancora oggi esistono testimonianze del loro passaggio.

Nel corso del terzo millennio, gli iberi seguendo le tradizioni pastorizie, avrebbero progressivamente colonizzato il nord Africa, mandando avanti nuovi clan formati dai secondogeniti, terzogeniti e figli successivi, i quali con nuove mandrie occupavano nuovi spazi, e considerando l’aridità del Nord Africa, potrebbero aver raggiunto abbastanza rapidamente la Spagna, da dove poi raggiunsero L’Irlanda, L’Inghilterra, la Francia e forse L’Italia.

Questa migrazione è testimoniata dal “Libro delle invasioni”, un testo elaborato nel XI secolo d.C., da uno sconosciuto monaco irlandese, si tratta di un libro che, a parte qualche incongruenza biblica, dovuta al fatto che l’estensore del libro era un monaco cristiano, trova svariate conferme a livello archeologico e genetico.

Infatti l’autore racconta che gli antichi gaelici, partiti dalla Scizia (Il Caucaso), quindi discendenti di Jafet figlio di Noè, arrivarono in Egitto dove il loro re “Galamh”, sposò la principessa Scota figlia del faraone Amenofi, ma quando il faraone annegò nel Mar Rosso, i gaelici (appellativo derivato dal fatto che parlavano il gaelico, la lingua dei celti) dovettero abbandonare l’Egitto, e prima di arrivare in Spagna vagarono per diversi anni lungo le coste africane del Mediterraneo.

A parte l’incongruenza della vicenda del faraone che annega nel mar rosso, considerando che il nome Scota è di chiara origine caucasica, ritengo più plausibile che la principessa fosse una sorella andata in sposa al Faraone.

In proposito Giuseppe Flavio (Antichità Giudaiche libro XIX) cita un Coti, re degli armeni che rende omaggio al re dei giudei Erode Agrippa; ma una testimonianza del passaggio degli iberi lungo le coste africane, sono anche le città di Susah in Cirenaica e Susa in Tunisia, due toponimi di origine caucasica, che fanno riferimento alla regione di Shushi (Sowsi) in Azerbaijan terra di provenienza degli iberi e degli albani che hanno diffuso in nome Susa anche in Italia e in Europa
Un’altra traccia del passaggio dei caucasici nella toponomastica dei luoghi, sono i nomi dell’isola di Alboran e dell’omonimo mare che divide il Marocco dalla Spagna.

Scizia era considerato anche il territorio dell’attuale Georgia, che in epoca storica era diviso tra la mitica Colchide e una regione chiamata Iberia, che erano situate ai piedi del monte più alto del Caucaso, l’El’brus (5642 m s.l.m.), il quale, in considerazione delle più antiche tradizioni indoeuropee, è da ritenere che nell’antichità fosse considerato la dimora di una divinità.

Il monte El’Brus dà il nome anche alla catena montuosa “Elburz”, o “Alburz”, la quale inizia poco più a sud dei monti caucasici, e che separa il mar Caspio dall’altipiano iranico, la sua montagna più alta si chiama “Damavand”, (2671m slm.) un altro vulcano (spento), il cui nome richiama una dea madre “Damatira”, adorata dai messapi in puglia.

Tanto il Damavand che l’El’Brus sono due vulcani spenti, una caratteristica anche del monte Albano, erano considerate la dimora di una divinità.

Ciò mi fa pensare che secondo le credenze popolari più primitive: “ La Grande Madre Terra, avrebbe creato l’universo, attraverso un’eruzione vulcanica scaturita dal Caos”.

Ciò sembra confermato anche dalle tradizioni Hindu, secondo le quali un antico monte El’Brus, oggi chiamato “Hara” o “Meru”, (6660 m slm.) facente parte della catena dell’Himalaya, dai cui ghiacciai nasce il Gange, sarebbe il polo terrestre del “Axsis Mundi”, l’asse cosmico che collega la terra alla luna, attorno al quale ruota l’universo, ma in questo caso non si tratta di una montagna nera.

Naturalmente le tradizioni induiste sono una eterodossia postuma alle più antiche mitologie vediche, inizialmente penetrate in India nella valle dell’Indo, oggi Pakistan, e successivamente diffuse nel resto del sub continente indiano, probabilmente sotto il controllo di una casta dominante, che le ha dogmatizzate dogmatizzate nel Rig Veda.

Un esempio è la grande sacralità del monte Kailâs, che lo rende inviolabile agli appassionati di alpinismo, sul quale ci sono le sorgenti dell’ Indo, il primo fiume sacro della cultura vedica.

Da notare l’affinità etimologica del toponimo Kailâs con il Kasio siriano.
lo stesso vale per Varuna, che per gli induisti era solamente il re dei naga, gli uomini serpente, mentre per i popoli europei era la massima divinità vedica, perciò tutto va valutato con il beneficio d’inventario.

Valutando che il fiume più importante della Spagna è chiamato Ebro, “Iber”, in gaelico, che i romani chiamavano “Iberius”, dal quale è derivato il toponimo “Iberia” e l’etnico “iberi”, e considerando l’affinità etimologica tra: il nome del monte El’brus, con l’Ebro spagnolo, sulla base delle tradizioni cultuali indoeuropee, si può ipotizzare una relazione religiosa tra le due iberie e quindi anche etnica.

La relazione culturale tra le due iberie è indicata anche dal nome antico del fiume georgiano Kouban, anticamente chiamato “Hypania”, (da cui Espania), il quale sorge proprio sul monte El Brus.

La radice “ebro” la troviamo anche nell’etnonimo “ebreo”, il che apre la strada a migliaia di ipotesi, che andrebbero affrontate in un contesto specifico.

Allo stesso modo dobbiamo considerare l’antichissima città di Ebla, che gli studiosi ritengono che appartenesse ai semiti, quando: oltre all’affinità etimologica del suo nome con l’idronimo Ebro, la sua fondazione risale al 4500 a.C., cioè quando i danai provenienti dalla Persia e dall’Afghanistan attravesavano la Siria per raggiungere il Mediterraneo, quindi possiamo supporre gli iberi provenissero da questa città, successivamente abitata dai semiti, che solo nel 1700 a.c., gli avrebbero cambiato il nome in Mardikh in onore della nuova divinità mesopotamica Mardukh che si stava affermando in quel periodo.

Da valutare anche l’affinità del toponimo El’brus con il nome delle Alpi, dell’isola e del fiume Elba, ma come testimonianza del legame culturale tra i liguri e gli iberi è molto significativa la presenza sullo spartiacque tra la Liguria e la provincia di Alessandria, di una montagna chiamata Ebro (1700 m. slm.), un toponimo che richiama il fiume iberico Ebro e il monte caucasico El’Brus.

Nella preistoria il monte Ebro dell’Appennino era sicuramente una montagna sacra, sede di un guru molto importante, in quanto domina la valle del Curone, un toponimo cristiano che ha sostituito l’indicativo ligure “Valle del Guru”.

Il nome della vicina valle Ossona indica la presenza di gente appartenente alla tribù ligure degli “oxsubii”, provenienti dalla Provenza, quindi sicuramente imparentati con gli iberi.


Contrariamente alle affermazioni del libro delle invasioni, nessun faraone è mai morto annegato nel mar Rosso, mentre l’ultimo Amenofi (Akhenaton), è morto nel suo letto nel 1350 a.C., e la sua morte scatenò un periodo di persecuzioni, in quanto Akhenaton era il faraone monoteista che abolì tutti gli dei, imponendo il culto di Aton.
Alla sua morte, la reazione violenta dei sacerdoti di Ammon e della nobiltà, provocò l’abbandono di Akhetaton, (La città di Aton), oggi chiamata Amarna, conosciuta dagli archeologi come la città abbandonata, una vicenda archeologicamente attestata, che potrebbe aver ispirato la leggenda dell’esodo biblico, quindi gli sciti, se fossero stati amici di Akhenaton, per non essere coinvolti nelle vendette dei sacerdoti di Amon avrebbero preferito allontanarsi dall’Egitto.

Ma il passaggio degli iberi potrebbe essere avvenuto due secoli prima, al tempo della cacciata degli hyksos, quando il faraone Seqenenra Ta’o (antenato degli Amenofi), fu ucciso in battaglia, (1555 a.C.). Alla morte di Seqenenra Ta’o, e del primogenito ancora bambino Kamose, salì al trono il fratello Ahmose, padre di Amenofi I, il quale ci offre due spunti per collegare gli hyksos al libro delle invasioni ed anche alla bibbia, in quanto l’unico figlio maschio di Amenofi “Amenemhat” muore ancora bambino, mentre nella tomba del faraone è stato ritrovato un vaso con un’iscrizione della principessa “Herit” sorella del faraone degli Hyksos “Ipepi”, una circostanza che fa supporre il matrimonio di Herit con qualche antenato di Amenofi, mentre nella necropoli romana di “Almuñecar in Spagna, è stato ritrovato un altro vaso di fattura egizia, recante un’iscrizione che cita un fantomatico re, chiamato Aauserra figlio di Ra, e una sorella del re Ipepi chiamata “Tjarudjet, ma in questo caso non i può escludere che Aauserra fosse un hyksos.

Hyksos è il nome attribuito dagli egizi agli invasori del delta del Nilo e considerando le differenze linguistiche tra i due popoli, non si può escludere che si tratti della corruzione egizia di un etnico gaelico, derivato dalla radice “iber”.

Per gli studiosi, gli hyksos sono un popolo sconosciuto, ma si sa che il faraone Seqenenra Ta’o li definiva asiatici, i quali nel XVIII secolo a.C., si erano impadroniti del delta del Nilo, fondando un proprio regno, ed esigevano tributi dal faraone di Tebe.

Si sa che gli hyksos adoravano Teshup, il dio del cielo urrita, il quale era adorato dagli hatti con di Taru, Tarhun per gli ittiti e Taranis per i celto liguri; ma in Egitto gli hyksos adorarono anche Seth il dio delle tempeste, in quanto era alleato di Ra (il sole) nella lotta contro il serpente Apopi, ciò dovrebbe indicare che nutrivano anche un particolare affetto verso il sole, come nella tradizione ligure.

Da notare che dal teonimo Teshup, che in origine significava solo Dio, etimologicamente derivano altri teonimi che si riferiscono a divinità sincretiche di Teshup, come Taru Tarhun e Taranis, per i popoli di lingua proto europea, mentre nelle lingue semite possiamo identificare Zeus e Yeshua.

Il fatto che gli egizi nutrivano una particolare avversione verso le persone dai capelli rossi, in quanto considerati figli di Seth, il dio cancellato dal panteon divino egizio perché adorato dagli hyksos, può far pensare che gli hyksos avevano i capelli rossi.

Recentemente è stato accertato che Ramsete II (nato nel 1303 a.C.), i cui bisavoli erano contadini di Avaris (la città capitale del regno hyksos), aveva la carnagione bianca e i capelli rossi, che tingeva, e anche sul volto della sua statua, sono evidenti i lineamenti caratteristici degli eurasiatici.

In oltre i genetisti hanno accertato che anche il cromosoma “Y” dei faraoni della XVIII dinastia vale a dire Tutankhamon, Amenofi, Ahmose, ecc., apparteneva all’aplogruppo “R1b” originario dell’Iberia caucasica e oggi diffuso in tutta Europa, conseguentemente il capostipite della XVIII dinastia Ahmose essendo un discendente della XVII dinastia ci dimostra che anche questi ultimi avevano origini iberiche, ciò coincide anche con le affermazioni dello storico egiziano Manetone il quale sosteneva che: alcuni faraoni della XVII dinastia erano hyksos.

Manetone pur essendo nato 1300 anni dopo l’epoca degli hyksos, aveva a disposizione notizie più attendibili di quanto ne abbiano oggi gli archeologi, pertanto è da prende in considerazione più di tutti, perché quello della XVII dinastia, fu un periodo politicamente molto instabile, tanto che oggi gli studiosi faticano a identificare i veri componenti di quella stirpe e delle precedenti, pertanto le affermazioni di Manetone, con il DNA di Ahmose (R1b1a2 SNP R-M269) , attribuiscono una notevole credibilità alla leggenda di “Galambh”, che sposa la figlia di un faraone, e come dice il DNA diventa re dei tebani, forse non sarà stato “Galambh”, in persona, ma un suo discendente, ma indubbiamente gli hyksos erano caucasici, e uno di loro è diventato faraone di Tebe.

Un altro punto a favore dell’origine indoeuropea degli hyksos, è il carro da guerra trainato dai cavalli, del quale i caucasici della steppa erano gli inventori, un’arma allora sconosciuta agli egizi e ai semiti, la quale fu determinante nella conquista dellla Siria, del Retenu da parte dei Mitanni e quindi avrebbero conquistato anche il delta del Nilo.

Tanto che gli egizi, per riconquistarloil delta dovettero a loro volta dotarsi del carro da guerra, e se per gli hyksos era stata una scelta di ordine pratico, per gli egizi fu una soluzione di alta ingegneria, in quanto con un sapiente posizionamento dell’asse delle ruote, riuscirono a ottenere una maggiore velocità del mezzo.

Il legame degli hyksos con i cavalli, mi fa pensare che sia all’origine del loro etnonimo, infatti alcuni lemmi greci che sono radici anche di parole italiane come Ippico ed equestre, presentano un’affinità etimologica dell’etnonimo Hiksos con con gli aggettivi e i sostantivi che fanno riferimento al mondo dei cavalli come per esempio lo ionico “ikkos”, e l’eolico “ikfos”, oppure il sanscrito “akuas”, o “akvas”, da cui il greco “okù-s”, sinonimi di veloce, un riferimento alla velocità dei cavalli, ai quali possiamo  aggiungere anche il latino “equus”, e il celtico “epos”, sinonimi di cavallo, e a ciò bisogna associare anche il suffisso “os” caratteristico delle lingue indoeuropee pre elleniche

Tecnologia a parte, i caucasici prima di arrivare in Egitto si insediarono in Siria e nel Retenu (Cananea o Palestina), regioni allora popolate dai semiti, i quali com’era nelle loro tradizioni si lasciavano integrare dalle civiltà superiori.

Come succedeva a tutti i popoli, a migrare erano sempre le nuove generazioni, tranne i primogeniti, i quali rimanevano con gli anziani, perpetuando la loro cultura attraverso i figli e i loro discendenti, i quali a loro volta potevano integrarsi con altri popoli.
Una testimonianza di ciò cono i filistei, nome ebraico di un popolo che gli egizi chiamavano Peleset, sinonimo di pelasgi, mentre i fenici sono stati un esempio di integrazione tra semiti e pelasgi.

Milesi sta per “ Figli di Mil Espàina” cioè “figli del soldato Espàina”(Galamh), al quale Mosè avrebbe profetizzato la conquista della penisola iberica, da parte dei suoi discendenti, che in suo onore chiameranno Spagna.

In proposito va ricordato che a Scone (Perth) in Scozia, è conservata la “Pietra del Destino”, un parallelepipedo di arenaria rossa, sul quale, secondo la tradizione cristiana, Giacobbe avrebbe avuto una visione divina, mentre la frattura che la contraddistingue, le sarebbe stata causata da Mosè, mentre tentava di trasformarla in un contenitore di acqua.

Questi Figli di Mil sono gli stessi iberi che avrebbero vissuto in Spagna indisturbati per almeno mille anni, fino all’arrivo dei cartaginesi, dei romani e dei galli, conseguentemente a ciò, la loro lingua rimase per molti secoli senza subire influenze di lingue aliene, tanto che ancora oggi, la lingua spagnola, anche se latinizzata, risente in modo evidente il retaggio di una lingua affine al greco, dotata del caratteristico suffisso “os” comune anche alla lingua greca antica e moderna.

Da considerare anche l’affinità etimologica tra “Iberia” e il nome celtico dell’Irlanda “weri”, dal quale deriva l’attuale Eire; “Hibernia”, per greci e romani.

In realtà Mill e milesi sono una forzatura latina di un termine gaelico, che oggi si può trovare nel nome di persona gaelico scozzese “Maoilios”, che significa “servo di Gesù, dove il prefisso “Maoil”, significa: “Discepolo”, “Devoto”, o “Servo”, mentre mi sembra evidente che il suffisso ios voglia indicare un dio o specificatamente Wilios, quindi in origine Maoilios indicava un servo o un guerriero al servizio di dio, se non direttamente lo stesso “Wilios, poi diventato Gesù con il cristianesimo.

Un esempio ce lo possono offrire gli Ittiti, un popolo coevo e culturalmente affine agli iberici dell’età del bronzo, i quali avevano l’abitudine di adottare le divinità dei popoli conquistati, pertanto nelle loro preghiere li citavano con la frase: “I Mille Dei”, un esempio è la città di Mileto, che nel XIII secolo chiamavano “Millawanda”, sinonimo di mille regine”.

Bisogna considerare che Milesi sono anche i cittadini di Mileto, città fondata nel X secolo a.C. in Anatolia in riva all’Egeo, ma esistono documenti ittiti del XIII secolo a.C., che citano una città della Caria, chiamata “Millawanda”.

Considerando che durante l’età del ferro Mileto ha fondato numerose colonie, è possibile che i milesi siano arrivati in Irlanda solo IV secolo a.C., con i danai e i liguri.
Sull’origine del Toponimo Mileto, la leggenda vuole che sia quello del suo fondatore, un figlio di Apollo, e forse siamo vicini alla realtà in quanto essendo Mileto in Anatolia,  il dio sarebbe  Windos , per cui potrebbe chiamarsi  Mil o Milios mentre per assonanza si può fare riferimento al monte Micale, situato di fronte alla città, indicato come sacro a Poseidone dio del mare, e dei cavalli, ma Poseidone non era una divinità Anatolica quindi Micale doveva essere il nome del fondatore di Mileto o il suo nome primitivo, precedente alla colonizzazione ellenica.

Ma nel territorio circostante a Milazzo, una colonia di Mileto risalente all’età del bronzo, dove tra la Valle del Niceto e il fiume Crati, troviamo la pianura più fertile di Sicilia, dove abbondano i toponimi con il prefisso Mil, quindi bisogna anche considerare che in epoca pre ellenica mil era il nome del miglio, uno dei primi cereali ad essere coltivato, da ricordare anche una varietà di frumento chiamata: Tritum Militinae, pertanto Mil poteva essere il nome di una divinità del miglio, poi sostituita da Cerere la dea dei cereali.

A fronte di quanto ho quì sopra disquisito, devo rilevare che l’aggettivo “Kòti”, nella lingua bengalese (lingua di origine indo ariana), indica un’unità del sistema di numerazione indiano, che corrisponde a dieci milioni, e non a caso si traduce in inglese e francese nella forma di “million”, “millionen”, in tedesco, ” mhilliùn”, in irlandese, “millean”, in scozzese, “miliwin”, in gallese, fa eccezione l’italiano, nel quale kòti si traduce in “crore”, un aggettivo che comunque mostra una affinità etimologica con il greco coti uno degli etnonimi che i greci hanno attribuito alle varie popolazioni di origine caucasica.
Pertanto si può concludere che i gaelici si definivano “Milesi” come figli di una divinità dei cereali chiamata Mil, i danai come figli di Danu mentre “coti”, “danai”, “albani”, “liguri” “achei”, “iberi”, ecc., fanno riferimento a divinità tutt’ora sconosciute.

Invece gli appartenenti all’aplogruppo “R1a”, che i greci chiamavano Sciti, sarmati o alani, si diffondevano lungo il bacino del Volga e l’India.

. Di questo ramo indoeuropeo, ci rimane solo una forte testimonianza nella civiltà di Samara, una città risalente al 6500 a.C., situata alla confluenza dell’omonimo fiume nel Volga, da dove parti la IV ondata kurgan cioè i Galli, che risalirono il bacino del Volga fino a raggiungere il Baltico, e da li si espansero, spingendo i danai verso la Francia, e gli scandinavi sempre più a nord,  andando a formare con gli scandinavi, gli slavi e i danai rimasti nel territorio, quello che diventerà il popolo dei germani vale a dire dei fratelli.

In tema di genetica, bisogna fare i conti anche con le madri, infatti, l’Europa possiede una linea genetica materna esclusiva, che si identifica con l’aplogruppo mitocondriale “H”, ancora oggi presente nella popolazione dei vari stati europei in una percentuale che varia tra il “40 e il 50 %”; nel Galles si arriva anche al 60% della popolazione, Sardegna 50 e Italia 40. Si tratta di un gruppo antico originatosi anch’esso durante l’era glaciale, quindi come gli scandinavi e gli alpini fortemente acclimatato al freddo.

Rino Sommaruga

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23 risposte a “I Caucasici”

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