Gli Italici

       

Le incisioni rupestri più antiche della val Camonica testimoniano la presenza di una popolazione mesolitica, dalla quale sarebbero discesi i camuni del Neolitico e dell’Età del Bronzo.

 Dopo i primi gruppi di cacciatori africani, in un Italia post glaciale praticamente disabitata arrivano altri cacciatori, accompagnati anche da pastori, si tratta degli scandinavi e degli slavi, appartenenti agli aplogruppi “I1” e “I2” originari dell’India orientale, dopo aver risalito il Danubio al seguito delle mandrie, che forse anche sotto la spinta dei cacciatori si allontanavano dal Mar Nero, le cui acque erano ormai diventate salate, questi cacciatori lasciarono le loro tracce più evidenti nelle grotte della val Camonica, a partile dal 8000 a.C., e che attraversando la quale sarebbero giunti in Val Tellina, da dove poi sarebbero risaliti  verso il passo del Bernina e ridiscesi nell’Engadina, e attraverso il passo del Tonale anche  nel Tirolo, dove hanno avuto accesso alle valli del Reno e dell’Inn e proprio  in Engadina e Tirolo si sarebbe sviluppata la civiltà retica che avrebbe popolato anche la bassa valle del Reno con i Remi, i quali rimanendo isolati in un Europa disabitata hanno continuato ad adorare Camulos, mentre i loro consanguinei padani e alpini si fusero con gli indoeuropei, che giungevano in Italia durante l’età del rame e nelle epoche successive.

Da ipotizzare anche il fatto che i camuni potrebbero essere giunti in Engadina dalla parte opposta, cioè risalendo l’Inn o il Reno, e poi siano scesi in Italia portando con loro il culto di Camulos.

Quando parliamo di camuni, reti e remi, ma anche di altri popoli citiamo etnonimi a loro attribuiti dai romani, i quali ovviamente ignoravano la loro storia e le loro origini, quindi non dobbiamo stupirci se in Belgio, la terra dei galli, fossero presenti popoli portatori di legami genetici con i padani.

Sotto questo aspetto è stato molto intuitivo lo storico greco Polibio, il quale affermava che le popolazioni retiche avevano usi e costumi simili agli etruschi, tanto da sembrare etruschi imbarbariti.

Ci sono voluti più di duemila anni per capire che in realtà erano gli etruschi ad essere reti civilizzati.

In realtà Nelle testimonianze tramandate dalle incisioni rupestri della val Camonica non c’è traccia del culto di Camulos o dei camosci, l’unico animale che appare è il cervo che i celti adoravano come Cernunnos, il dio della fertilità e preda ambita dei cacciatori mesolitici (8000 – 10.000 a.C.).

Comunque, sono certi i contatti tra i padani e i nordici attraverso la val Camonica, l’Engadina e il Tirolo, e quindi esisteva una mescolanza genetica e culturale ancora prima della romanizzazione; quindi, non dobbiamo stupirci se i camuni adoravano una divinità venerata anche dalle popolazioni belgiche.

Ma successivamente in Italia e nell’Europa occidentale inizierà un processo di colonizzazione pacifica da parte di genti originarie della valle dell’Indo e della Persia, che durerà fino all’epoca romana.

Appartenendo tutti alla stessa cultura, questa diventerà caretteristica degli europei, e che oggi viene identificata come cultura “indoeuropea”.

Infatti, già nel V millennio a. C., la valle Padana e l’arco transalpino erano accumunati dalla civiltà delle palafitte, un’usanza totalmente assente nel resto della terra.

È probabile che i palafitticoli fossero una popolazione di origine mesolitica in quanto la posizione e la struttura delle palafitte era tale da evitare le innondazioni e favorire la cattura degli animali per i quali era indispensabile avvicinarsi all’acqua per dissetarsi, quindi già in uso lungo le rive del Mar Nero e poi sommerse con l’innalzamento del livello delle acque.

I nuovi arrivati apparterrebbero alla cultura della Ceramica Cardiale, dei quali si ha traccia a partire     l VI millennio a.C., si trattava di una popolazione originaria della valle dell’Indo, che ha dato inizio a un flusso migratorio che attraversando la Persia, il Caucaso, L’Anatolia, la Grecia e l’Italia, ha colonizzato l’Europa occidentale, portando con se quella che si evolverà nella cultura Indoeuropea.

Si trattava di cacciatori raccoglitori che si distinguevano per l’uso di conchiglie come stampini per decorare la ceramica ma praticavano anche l’agricoltura e l’allevamento, e pur appartenendo a una civiltà evoluta, che sapeva anche navigare, vivevano in grotte artificiali, scavate in devozione alla Grande Madre Terra, dalla quale non volevano separarsi, e a loro si deve la fondazione della città di Matera, famosa proprio per le case scavate nella roccia, il cui toponimo è l’acronimo di “Madre Terra”.

La loro presenza si manifesta In grecia Libano Cipro, Creta, Italia, Dalmazia, Croazia, Francia Meridionale compreso l’arco Transalpino, Spagna Meridionale con tracce in Tunisia, Portogallo Scozia.

Successivamente 4000 a.C., partendo dalla Liguria si sviluppa la cultura dei vasi a bocca quadrata, che non trova riscontri in altre parti d’Europa.

Si tratta sempre di una società contadina, che incomincia a commerciare, e adora una divinità femminile dalla figura molto più aggraziata, rispetto alla Potnia Theron del primo neolitico, mentre sembra apparire la figura del padrone guerriero, tipico della civiltà micenea.

La toponomastica della Padania occidentale e della regione occitana, mi suggerisce un legame con la coeva cultura di Varna, una ricca società pre-micenea che aveva contatti commerciali a vasto raggio.  

Nel terzo millennio tra la val Camonica e la Toscana si diffonde la cultura del vaso campaniforme, alla quale viene attribuita un’origine iberica ma, la più autorevole archeologa, Marija Gimbutas, riteneva che in realtà si trattasse di un’antica cultura indoeuropea proto-celtica originaria dell’Europa centro-orientale, “Vucedol”, Croazia.

Sulla cultura del vaso campaniforme si inseriscono quelle di Remedello (Brescia) e Rinaldone (Viterbo), III millennio a.C.

A supporto delle opinioni della Gimbutas ci sono tre scheletri ritrovati a Remedello che presentano l’aplogruppo patrilineare “I2a1a1”, il lignaggio maschile slavo, presente anche in Germania e Polonia, che assieme al ceppo “I1”, degli scandinavi, identifica le popolazioni pre indoeuropee.

Ma non si può escludere un incrocio di culture, in quanto gli Iberi erano un popolo di antica origine indoeuropea con legami con la precedente cultura della Ceramica Cardiale, dai quali potrebbe essere nata la cultura ligure.

Testimonianza di ciò è l’antica lingua occitana di origine prelatina, parlata in Catalogna, Provenza e Piemonte, con influenze anche nel resto della valle Padana.

All’inizio del secondo millennio la val Camonica era percorsa dai traffici commerciali tra la valle Padana e il nord Europa dei quali se ne sono trovate le tracce nella civiltà di Polada (Brescia), chiamata anche Terramare, diffusa nella pianura padana e sull’Appennino settentrionale,  questa civiltà rientrava nella diffusione della cultura dei Campi di Urne originaria appunto della Germania, che darà poi vita anche alla civiltà Villanoviana, dalla quale grazie ai contatti con i mercanti fenici si svilupperà la cultura etrusca, frutto della civilizzazione di un popolo di cultura retica.

Contemporanea alla cultura Villanoviana è la Civiltà di Canegrate XIII secolo a.C. la quale andrà a fondersi con i leponti (Golasecca), portatori della cultura del ferro, ma anche cercatori d’oro come sembrano dimostrare le aurifodine presenti immediatamente a valle del sito archeologico di Castelletto Ticino (civiltà di Golasecca) nel territorio di Varallo Pombia, un toponimo che con il prefisso var testimonia la presenza di un villaggio fin dall’età del rame.

In val Camonica troviamo tracce del culto di Bormanus con il toponimo Boario, il quale in origine, con ogni probabilità faceva riferimento al torrente Dezzo Decc in dialetto locale.

Boario è un toponimo originato dal teonimo celtico “Bormanus” il dio delle sorgenti e delle guarigioni, con la radice celtica: “Rio” oppure “Rheino”, oppure più propriamente: “Rï”, a indicare l’acqua che scorre, in quanto le acque delle sorgenti confluivano in questo torrente divenuto quindi il “Fiume di Bormanus”.

            Oltre alle quattro sorgenti di Boario, nel rio di Bormanus confluivano anche le acque di una sorgente posta sui primi contrafforti del monte Altissimo in località Gorzone, e le sorgenti delle Terme di Angolo.

            In particolare Gorzone, a sua volta è un toponimo composto da due radici celtiche, “Gora”, sinonimo di sorgente e Zone”, che individuava un recinto, quindi Gorzone come sinonimo di “Sorgente Recintata”, pertanto il toponimo individuava una sorgente sacra a Bormanus, e per questo recintata.

            Ciò è confermato anche dal secondo nome della località: “Sciano”, ormai caduto il disuso, il quale contiene la radice persiana “Scià”, sinonimo di re.

            Infatti un primitivo “Sciàa”, potrebbe essere stato tramandato nella forma dialettale “Scian”, e italianizzato in “Sciano”.

            A conferma della sacralità del monte Altissimo a 900 metri di quota troviamo il piano di Borno con l’omonima località, per tanto possiamo concludere che il nome della montagna Altissimo sia stato un vezzeggiativo rivolto dal popolo al dio, in segno di riconoscenza per l’abbondanza di acqua con la quale li nutriva.

            Da segnalare di fianco al monte Altissimo anche il monte Pora certamente sacro a Retia Pora la grande madre del popolo retico, ai cui piedi giace il Colle Varena, il quale con ogni probabilità simboleggiava Varuna, il figlio primogenito e partenogenetico della dea.

Anche in val Tellina troviamo una testimonianza legata al culto di Bormanus, con le terme di Bormio, tra le quali spicca la sorgente Cepina nel comune di Valdisotto (alta Valtellina) un idronomo che richiama la divinità anatolica delle sorgenti: Kephisos, giunto in Italia con i portatori della cultura del ferro, dal quale prende nome il: “ceppo” lo strato roccioso dal quale sgorgano le acque. Polibio e Plinio il Vecchio indicavano la Calabria con il nome di “Cocynthos

Kokynthos in greco, due toponimi che i linguisti definiscono pre Indoeuropei e non sono in grado di tradurre. In realtà il toponimo Kokynthos sarebbe molto affine a Zakynthos un’isola ionica oggi chiamata Zante, la quale deve il suo nome al mitologico Zakynthos, quindi la radice “kynthos mi fa pensare a un nome tribale risalente all’epoca della Ceramica Cardiale.

Una conferma ci potrebbe arrivare dal toponimo Cosenza, la quale sarebbe stata fondata sopra a un villaggio antico chiamato: Kos, o Kossa, che secondo alcuni diventeranno la base dell’indoeuropeo grotta o caverna, quindi si può pensare anche a un villaggio primitivo, che come Matera era scavato nel tufo, il lemma sarebbe poi corrotto per difetto di pronuncia dall’italico fossa e dal lombardo foss.

Da considerare che anche Gravina è un altro etimo pre indoeuropeo, del quale non si conosce il significato antico, ma che oggi indica una fossa all’interno della quale i neolitici hanno scavato le loro case.

Durante l’età del bronzo in Italia giunsero altri popoli, mentre le conoscenze attuali ci portano a considerare gli “enotri”, come il popolo italico più antico, i quali potrebbero anche essere i discendenti dei Kokynthos, ma in ogni caso la loro presenza è attestata solo all’inizio dell’età del ferro, quando dall’Anatolia e dalla Grecia ci fu una migrazione di massa provocata da una carestia e dall’arrivo degli elleni.

Sul significato del toponimo “Enotria”, si può fare riferimento al sanscrito “Eno”, sinonimo di fiume come prefisso, mentre la radice “otri” potrebbe derivare dal latino “Uter”, sinonimo di utero, con riferimento al canale e al mare Adriatico che simboleggiano un utero, oppure dal greco “oythar”, corrispondente a seno o mammella ma soprattutto al sanscrito “aothra”, sinonimo di scarpa, come appare il territorio abitato dagli enotri, quindi dobbiamo supporre che anche loro appartenessero alla cultura indoeuropea.

La mitologia greca cita: Anio, figlio di Apollo e re di Delo, il quale aveva consacrato a Dionisio le tre figlie: Eno, Elaide e Spermo, le quali erano chiamate Oinotrope o le Vignaiole, in quanto Dionisio le dotò del potere di trsformare in vino, olio e grano tutto quello che toccavano, quindi è ipotizzabile che gli enotri si identificassero come figli di Eno, non a caso eno è il prefisso di molti sostantivi che si riferiscono al vino.

Il dubbio che allora ci fossero dei cartografi in grado di disegnare in modo perfetto la forma della nostra penisola, e il prefisso Eno”, mi fa pensare a un significato diverso, forse il toponimo Enotria poteva indicare la “Terra dei Tre Fiumi”, o forse da una pronuncia più arcaica, Eno poteva indicare il “Mare” quindi “Terra dei Tre Mari”.

Si potrebbe considerare anche il messapico “Odra”, sinonimo di acqua, in questo caso si avrebbe “Enodra”, con il significato di: “Fiume di Acqua”, non avrebbe senso, a meno che: uno dei due sostantivi non sia il nome di una divinità delle acque, pertanto andrebbe inteso come “Fiume di Odra” oppure” “Acqua di Eno”.

Eno potrebbe essere anche un sinonimo del greco “Eri”, derivato da “Eris”, quindi tanto Eno che Eri potrebbero essere un riferimento a una divinità delle acque, forsr la figlia di Anio che trasformava l’acqua in vino.

L’Enotria ci porta alla località di Otranto, un toponimo che potrebbe fare riferimento all’otre, è la città più orientale d’italia, la quale si affaccia sull’omonimo canale marino, e che come il resto della Puglia, era abitata dai Messapi, una popolazione pre ellenica proveniente dalla Grecia, e a loro è dovuta l’origine del toponimo Otranto, originato appunto dal messapico “odra” sinonimo di “acqua”, da cui il nome in greco classico “Hydroùs”, e in latino “Hydruntum”, mentre il torrente che divide in due la città, dandogli l’aspetto di due località riunite, era chiamato Hydrus oggi Idro.

Infatti sulla fondazione di Otranto, si può pensare a due insediamenti separati dal fiume, in quanto, al territorio di Otranto oggi appartiene anche “Punta Palascia”, ora Capo d’Otranto, mi sembra evidente che in quel luogo sono sbarcati anche i palaici i quali in seguito porteranno il culto di “Etna” in Sicilia.

Dall’idronimo idro hanno sicuramente origine i nomi della città di Atri nel Molise, Adria nel Polesine e del mare Adriatico.

Infatti il nome Adriatico è composto dalle radici greche Hydrus, e “Attikòs”, che significa appartenente all’Attica, ma anche attiguo, o attilato vale a dire “Mare Stretto”, ma bisogna anche considerare che Atene era la capitale dell’Attica, e pertanto bisogna prendere in considerazione anche la sua divinità principale: “Athena”, quindi: “Acqua di Athena”.

L’idronimo Idro lo troviamo anche in Slovenia, nei pressi di Caporetto, si tratta di un paesino attraversato dall’omonimo fiume, ed anche in provincia di Brescia, con il lago d’Idro, chiamato anche “Eridio”.

Ma tra le divinità adorate dai messapi e dagli eridani andrebbe inserita anche “Eris”, la dea della discordia degli elleni.
Infatti la dea assunse questa entità dopo aver lanciato la mela della discordia, che portò la lite tra: Hera, Athena e Afrodite, una contesa che richiese il giudizio di Paride e causò la guerra di Troia.

Il motivo della provocazione fu il mancato invito della dea al matrimonio di Peleo e Teti (futuri genitori di Achille), al quale parteciparono tutti gli dei dell’Olimpo.
Quindi se al matrimonio di Peleo e Teti parteciparono tutti gli dei dell’Olimpo, significa che Eris era una divinità appartenente a una cultura pre ellenica e probabilmente era stata ripudiata dalla gente.

Infatti il nome di Peleo, ci dice chiaramente che il re della Tessaglia, non era un elleno, ma un pelasgio, il quale sposando Teti figlia di Zeus avrebbe dovuto essere un adoratore del suocero, Ma al tempo di Peleo e della guerra di Troia il mondo greco era dominato dai micenei il cui dio era Poseidone mentre gli elleni Zeus e gli dei dell’Olimpo erano ancora di la da venire, quindi appare evidente il tentativo dei teologi elleni di accomunare una divinità dei pelasgi al culto di Zeus.

Nella mitologia greca, secondo alcuni Eris era la sorella minore di Ares, altri gli attribuiscono origini diverse come figlia di Zeus o Hera, ma concepita come Athena, vale a dire senza accoppiamento.

a Eris viene attribuita anche la maternità della dea del fiume Lete, il fiume dell’oblio.

L’esistenza di una divinità delle acque chiamata Eris è confermata anche dal nome dell’Eritrea, “Eritriyà”, in sanscrito, “Erythros”, in greco antico, che significava “Mar Rosso”, quindi Eris era sicuramente una divinità delle acque.

Ricordiamo che le rive nord occidentali del Mar Rosso sono state colonizzate dai caucasici per ben due volte la prima: novemila anni fa, la seconda nel II millennio a.C. e non a caso, nella lingua egizia “eri”, aveva il significato di inondazione.

In conclusione considerando che come il nome di Danae Eris aveva numerosi significati, sempre relativi all’acqua, si può affermare che Eris era la stessa entità di Danu, alla quale però era stato attribuito un teonimo tribale, o comunque non vedico.

Durante l’età del bronzo, le prime popolazioni ad insediarsi in Italia, provenivano dalla Tessaglia, una regione composta da numerose ed ampie vallate situate a sud della Macedonia e del monte Olimpo, le quali sbucano nel golfo di Salonicco.

Le due popolazioni pre minoiche più antiche, che sembrano originate dalla stessa etnia, la cui presenza in italia è citata nella mitologia greca, sono i lapiti, popolazione estremamente civile, composta da agricoltori e da grandi domatori di cavalli, e i centauri, pastori montanari barbari, i quali entreranno nel mito come uomini metà cavallo, per il fatto che non scendevano mai dal proprio cavallo, nemmeno in combattimento, ed è proprio grazie a questa abilità, che Nesso, nonostante sia ferito mortalmente, riesce a sfuggire alla furia di Ercole, il quale combattendo a piedi non poteva inseguire l’avversario.

Questa abilità nell’allevare i cavalli e di cavalcarli, unite alla posizione geografica della Tessaglia, un territorio interessato dai flussi migratori provenienti dal nord est, mi fanno pensare a popoli provenienti dalla steppa Caucasica, luogo dove i cavalli furono addomesticati prima del secondo millennio a.C.

Nel corso del II millennio a.C., queste popolazioni primitive migrarono dalla Tessaglia a causa dell’arrivo delle prime popolazioni elleniche, che li spinsero verso l’Albania e poi in Italia.

A testimonianza del loro arrivo in Italia sono sopravvissuti toponimi come: Riva dei Tessali, e Castanea, continuazione del nome di un’antica città della Tessaglia, che nel medio evo diventerà: Castellaneta (Taranto).

Secondo Strabone i tessali primitivi fondarono Ravenna, che in seguito avrebbero ceduto agli umbri, per poi scomparire dalla storia, probabilmente assorbiti dai nuovi arrivati; potrebbe trattarsi dei rasna o rasenna, i Villanoviani che si sarebbero associati con i fenici fondando la civiltà etrusca.

Altri toponimi tessali che sembrano continuare la tradizione pre ellenica li troviamo anche nel territorio dei liguri, sono “Angeia” con riferimento ad Angera e: “Antron”, forse la valle Antrona sempre sul lago Maggiore.

L’epoca dell’arrivo in Puglia dei proto tessali, coincide con l’arrivo degli Japigi popolazione di identica origine, così chiamati dagli storici greci perché ritenuti discendenti di Japige figlio di Dedalo.

Gli Japigi, anche loro grandi agricoltori e allevatori di cavalli, si mescolarono con le popolazioni indigene formando varie tribù come i Dauni è i Peucezi, le quali vivevano nelle attuali province di Foggia e Bari, in seguito i romani li chiameranno Apuli e Apulia la terra dove vivevano, forse perché adoratori di Apollo.

Lapiti e Japigi, sono due etnonimi che hanno una forte affinità etimologica, che però non riesco a ricostruire; per i lapiti la radice piti e la loro provabile origine scita, mi fanno pensare ai pitti, in particolare la radice sembra riferirsi al greco “pityron” sinonimo di crusca, termine usato dai greci per indicare la “pitiriasi” una dermopatia che produce arrossamento e successiva desquamazione della pelle, una patologia che colpisce soprattutto le persone dalla carnagione più chiara.

Nel nome degli japigi invece troviamo due radici che hanno lo stesso significato, il greco “ìambos” sinonimo di “battuta”, di spirito o di piede, usata nella metrica musicale.
Da ricordare l’inglese “Jump” (pronuncia giamp), sinonimo di salto.

Il prefisso “ja” se originato da “jambos” sarebbe assimilabile al gallico “jamboo” sinonimo di coscia, continuato ancora oggi dal dialetto lombardo e dalla lingua francese.
Pigi a sua volta è un palese riferimento al verbo pigiare, derivato direttamente dal greco “pigio” “pigis” al plurale, un riferimento alla gamba che pigia, quindi un sinonimo di battuta, forse si trattava di quei lapiti che inizialmente si lasciarono sottomettere dagli elleni, e poi giunti in Italia come lavoratori.

Curiosamente nei pressi di Porto Cesareo, non lontano da riva dei Tessali, c’è una località chiamata Punta Prosciutto, un caso o un retaggio del passato?

Considerando che erano abili cavalieri provenienti dal nord est, si può supporre che gli japigi indossassero le brache in pelle, un indumento molto utile nel cavalcare senza sella, quindi possiamo pensare anche al persiano “päy jamè”, il quale significava: “vestito da gamba”, poi diventato “pigiama”, considerando la grande affinità di usi e costumi, tra i persiani le popolazioni pre elleniche, accomunati da usanze caucasiche, possiamo pensare che gli elleni, essendo di origine siriana e cultura semita, li distinguevano proprio dal fatto che portavano il päy jamè .

Sicuramente gli elleni nel vedere degli uomini che cavalcavano con indosso delle brache di pelle, potevano essere vittime di un effetto ottico, che li portava a vedere un tutt’uno di cavallo e cavaliere, per la fortuna dei cantastorie, i quali trovavano nei centauri ampia materia per il loro sensazionalismo.

Sembra che gli japigi parlassero la stessa lingua e avessero la stessa origine etnica dei messapi, dei calabri e dei salentini, popoli che vivevano più a sud, praticamente nel territorio dove sbarcarono i Lapiti.

A conferma del legame dei messapi dell’età del bronzo con i cavalli, alla periferia di Lecce, si trovano le tracce di una loro importante città chiamata Cavallino, mentre di quel poco che si conosce sulla loro religione, sembra che nei sacrifici cultuali usassero bruciare un cavallo vivo. Ciò trova riscontro nella cultura paleoveneta nella quale è attestato il culto di Nettuno, al quale venivano sacrificati i cavalli, come attestato a Oderzo, un culto celebrato anche ad Altinum, località situata nei pressi della Cavallino veneta.

In particolare voglio citare i calabri, una popolazione che solo in seguito si insediò nella regione che oggi porta il loro nome, in quanto l’etimologia del loro etnonimo è interessante, perchè il loro nome greco “kalabros”, significa: “scendono dai monti”, infatti secondo i linguisti “kala” (scende) sarebbe un verbo di origine italica, poi adottato anche dalla lingua ellenica, mentre “bros”, è originato dal greco “òros”, sinonimo di monte.

In Calabria esisteva un fiume e relativa divinità chiamati appunto Kalabros, dei quali si è persa la memoria, l’unico ricordo è rimasto il nome della sorgente chiamata “Lika”, situata in Lucania, la quale farebbe pensare a una divinità da mettere in relazione con la Lucania stessa, e ai luvi o luky, ma anche a Lykoreia e a likos, sinonimo di lupo o licaone, quindi poteva essere una sorgente sacra ad Apollo.

Si potrebbe anche considerare che nella lingua celtica lika significa “pietra”, e quindi ipotizzare che la sorgente fosse situata sul monte “Petricelle”, sul quale sorge il fiume “Esaro”, il cui idronomo è affine al toponimo Pesaro, la quale è bagnata dal fiume “Foglia”, anticamente chiamato “Isaurus”, dal quale deriva il nome di Pesaro: “Pisaurus”, da considerare anche l’Isarco in alto Adige, “Isarus o Isarcus”, in latino, e il fiume francese “Iserè”, Isara in latino.

Lungo il corso dell’Esaro sono stati ritrovati i resti di un centro termale risalente all’epoca romana, quindi posiamo pensare che anticamente le acque dell’Esaro erano considerate curative, pertanto la sua sorgente era considerata più importante di quella del Crati, il quale pur avendo una portata d’acqua maggiore era considerato un suo affluente, quindi Kalabros era il nome di un fiume che sorgeva sul monte Petricelle allora chiamato Lika (Pietra).

Da considerare che l’idronimo Crati deriva da cratere, il che rispetta l’aspetto della piana di Sibari, un ampio terrazzo tra i monti, che allora poteva essere paludoso, con il fiume Esaro che sfociava direttamente in mare o in una palude.

I linguisti attribuiscono al prefisso “Is”, un’origine primitiva, usato nella formazione di idronimi che indicavano fiumi che scorrono su pendii ripidi.

Anche Vibo Valentia ha un nome antico di origine vitula-bruzia “Hipponion”, un toponimo nel quale troviamo la radice greca “hippo”, sinonimo di cavallo e il celtico “nion” che indica il frassino, albero sacro a Poseidone, dio del mare, ma anche dei cavalli, come la celtica Epona, anzi, etimologicamente Hipponion potrebbe essere la forma greca per indicare un luogo sacro proprio ad Epona, a dimostrazione che la cultura italica era celta.

Ma a questo punto si può anche mettere in discussione il toponimo moderno, in quanto Vibo Valentia fa riferimento a due località distinte, “Vibona”, in riva al mare e Valentia sulla collina. Infatti, constatato la presenza del culto di Epona, la dea dei cavalli, che compie anche la magia di far galleggiare le cose, si può concludere che “Vibona” sia una corruzione di Epona o un epiteto rivolto alla matrona dei celti, conseguentemente anche “Valentia”, non sarebbe un titolo onorifico attribuito dai romani agli abitanti della collina, per

la loro fedeltà durante le guerre puniche, ma un toponimo generato dalla cultura ligure, come le varie: Valenza, Valencia, Valence, Valenciennes, ecc.

Ma non posso escludere che il culto di Epona sia stato introdotto dai coloni romani, i quali avevano adottato la dea celtica come protettrice di cavalli e cavalieri, e bisogna considerare anche i mercenari liguri al servizio dei cartaginesi, i quali dopo la fuga di Annibale, potrebbero essersi insediati sulle alture appenniniche.
A Vibo Valentia, sempre nei pressi del mare troviamo anche la frazione di Bivona, una provabile duplicazione del sito sacro ad Epona.

Bivona è un toponimo che troviamo anche in Sicilia, nella provincia di Agrigento, e che secondo alcuni sarebbe un dubbio riferimento alla città greca di Hipponium, fondata da Gelone tiranno di Siracusa, ma sempre nei pressi di Bivona, si cita anche una località indigena: “Hippana”, situata sulla cima dei monti dei Cavalli.

La presenza di popolazioni pre elleniche in Puglia e Basilicata si può riscontrare anche nella toponomastica del golfo di Taranto a partire da Riva dei Tessali nel comune di Castellaneta Marina, mentre più in alto abbiamo Palagiano e Palagianello che ricordano l’antica presenza dei Palaici.

Taranto con il suo Mare Piccolo sembra simboleggiare la vagina di una dea e il suo nome Messapico “Taras”, sembra derivare dal nome del suo fondatore, un mitico condottiero figlio di Poseidone e di Satyria una ninfa delle acque la quale in origine era una divinità importante, infatti il fiume “Tara”, che sfocia nel Mare Piccolo, con il toponimo Taranto mi fanno pensare all’idronomo gallico di un fiume della Galizia chiamato appunto Tamara, una probabile corruzione di Samara, una divinità delle acque preistorica VI millennio a.C. Quindi Poseidone è la solita sovrapposizione ellenica a una divinità primordiale, in oltre Tara potrebbe essere una corruzione del teonimo Thera, la “Madre Terra”, quindi dobbiamo supporre che il mito tramandato vocalmente sia stato profondamente corrotto.

Da citare la collina irlandese di Tara, un’altura sacra, dove venivano incoronati i re d’Irlanda, sulla quale è conservata la “Pietra del Destino”, il simbolo religioso più importante prima della cristianizzazione.

Da ricordare anche “Tarabara”, il nome di una frazione del comune di Albizzate (Va), dove la presenza di un santuario dedicato alla Madonna della Purificazione, in riva al fiume Arno, e la toponomastica (via delle Cerelle), fanno pensare alla presenza di un altare antico, sul quale si compivano sacrifici in onore di Proserpina la figlia di Cerere, che in primavera ritornarva tra i vivi per far rifiorire la natura e alla fine del raccolto rientrava nel mondo dei morti dal marito Plutone.

Tra i messapi questi sacrifici erano compiuti da una sacerdotessa chiamata “Tabaroas”.

I romani celebravano il “Mundus Cereris”, durante il quale aprivano una buca sacra che collegava il mondo dei vivi con quello dei morti per favorire il ritorno di Proserpina dal marito “Pluto”, e vi gettavano delle offerte destinate al dio dei morti.

Questa tradizione mi fa pensare che esistesse anche la buca sacra per favorire l’arrivo di Proserpina tra i vivi pertanto la via delle Cerelle collegava le due buche sacre, simboleggiando il passaggio della Cerella nel mondo dei vivi.      

Cerella era l’epiteto latino della primavera, con il quale i romani chiamavano Proserpina, in quanto figlia di Cerere.

Taras, potrebbe essere una divinità taurina proveniente dai monti Tauri o dal Kersoneso, (Tauride), come sembrano dimostrare le isole Cheradi, poste di fronte a Taranto e che bloccano l’accesso alla baia.

Infatti il nome greco delle isole era “Choirades”, sinonimo di corna, ma anche “Elektriches”, per la presenza abbondante di ambra (elettro), mentre l’isola più grande: oggi San Pietro, era chiamata “Phoebea”, sinonimo di luminosa, in onore di Artemide, sorella di Apollo “Phoebeo”, si tratta di una prima sovrapposizione a un culto femminile primitivo, al quale seguirà quella cristiana medioevale di santa Palagina una santa siriana del III secolo d. C., il cui nome richiama l’etnonimo dei Palaici, e della quale mancano vere testimonianze sulla sua esistenza, tanto è vero che, in seguito il suo nome fu sostituito con quello molto più attendibile di: san Pietro.

Mi sembra abbastanza plausibile il fatto che dove si adorava una dea madre, si venerasse anche un dio della fertilità.

L’isola più piccola era chiamata “Elettra”, ma essendo l’elettro (ambra) una resina degli abeti, mi sembra più logico pensare a una dea madre, in quanto a quei tempi i gioielli in ambra erano molto più preziosi di quelli in oro, per via del fatto che l’ambra era prodotta dall’albero sacro alla Grande Dea Madre, e sulle isole Choirades di questi gioielli ne sono stati trovati molti.

Le Elettra della mitologia sono due, una è un oceanina figlia di Poseidone, la ninfa dell’acqua che zampilla, mentre la seconda era figlia di “Atlante” un’altra divinità pre ellenica, declassata a “Titano”, e amante di Giove, dal quale concepì Dardano, uno dei mitologici re di Troia, quindi la figlia di Atlante era un altra alter ego di una divinità palaica (Palagina), introdotta nel contesto ellenico, mentre il padre pre ellenico di Dardano sarebbe stato Vindonnus, la massima divinità dei dardani.

Altri toponimi di origine pre ellenica presenti a Taranto, che collegano culturalmente i suoi fondatori con i padani primitivi sono: Punta Pennino e Punta Pizzone.

Dopo queste prime migrazioni che hanno interessato il territorio degli enotri e dell’attuale Albania, una traccia importante di questo evento è il nome di una tribù illirica chiamata Albanoj, la quale era stanziata nell’entroterra di Durazzo, un etnico dal quale deriverà il nome dell’attuale nazione albanese.

Dall’Albania e dall’Enotria il flusso migratorio continuerà seguendo le coste adriatiche dell’Italia e della penisola balcanica, fino alle rive della Manica e del Baltico, dove in seguito i proto albanesi si scontreranno con gli arii che scendevano dal nord, fondendosi con i quali daranno vita all’etnia gallica.

In Italia oltre alle culture già citate, fonderanno la mitica Albalonga, ma una traccia significativa del loro passaggio, la troviamo anche nel nome di Alba Adriatica, infatti il nome della località marina è originato dalla maestosità della “Montagna dei Fiori”, un monte che, specie quando è innevato, a chi arriva dal mare, appare imponente tra le colline che lo circondano.

Una visione che agli albani ha ricordato certamente le maestose montagne del Caucaso, e non a caso la regione circostante prese il nome di “Abruzzi”, in quanto le montagne abruzzesi essendo le più alte ricordavano agli albani i monti Elburz, ai piedi dei quali avevano vissuto i loro antenati.

Ovviamente considero i due toponimi moderni come derivati da un unico nome primitivo.

Anche il nome della colonia romana “Alba Fucens”, non è altro che la continuazione di un toponimo albano già esistente sull’altipiano del Fucino.

A testimonianza del legame etnico tra gli albensi primitivi e gli illiri si può citare la fondazione di Truentum alla foce del Truentus (Tronto) da parte dei liburni, popolo di marinai illiri, stanziato tra l’Istria e la Dalmazia.

L’idronimo Truentus è una forma latina che indica un fiume sacro a “Druantia”, la regina dei druidi e dea madre, mentre più a nord del Tronto troviamo il torrente Tesino, che i romani chiamavano Tessuinum.

L’idronimo Tessuinum e la presenza dei liburni, mi portano a considerare toponimi come: Teschen, la città divisa in due tra Polonia e Cecoslovacchia, i toponimi altoatesini: “Tesero, Tèsimo (ted. Tisens) e Tesino, valle del torrente oggi chiamato: Grigno, come originati dal nome della divinità caucasica Teshup, alias Taru, Tarhun, e Taranis, conseguentemente, a questi teonimi oltre a quello del Tanaro, va associata anche l’origine dei nomi del Ticino e del Taro.

Ma se il culto di Epona arriva dalla Tessaglia, non si può escludere che il nome del Ticino sia legato a quella regione.

I liburni con gli istri, i dalmati e i carni diedero vita alla civiltà dei castellieri che interessò anche il Veneto, il Friuli e la Julia, in pratica si trattava della continuazione del megalitismo pelasgico o kurgan (L’Altamura dei Messapi), che si manifestava nella fondazione di villaggi fortificati con pietre.

La presenza dei pelasgi o albani nella zona di Alba Adriatica, è testimoniata anche da ritrovamenti archeologici avvenuti nel territorio di Tortoreto, e lungo le rive del fiume Salinello, dove è attestata l’esistenza di villaggi fin dall’età della pietra, in particolare merita di essere citata la cultura di “Ripoli”, IV mila a.C.

Ma Tortoreto esisteva già in epoca romana, con il nome di “Castrum Salini”, quindi un villaggio fortificato la cui origine è collegabile alla cultura dei castellieri.

Il toponimo Castrum Salini deriva dalla presenza alla foce del Salinello, di un villaggio chiamato “Ad Salinas”, per via delle saline presenti lungo le rive del fiume, che anticamente i piceni chiamavano “Helvinus”; sinonimo di giallo o giallastro, o “Serinus” nome di una famiglia di passeriformi dal colore giallo come il canarino o il verzellino.

Premesso che per effetto di fenomeni elettrolitici causati dalle particelle elettriche presenti nell’aria, i depositi salini possono assumere una colorazione gialla o rossastra, bisogna considerare che nel fondare nuove città, gli antichi italici traevano gli auspici dal volo degli uccelli, seguendo una tradizione chiamata “Primavera Sacra”, in base alla quale i figli minori, consacrati guerrieri, formavano nuovi clan, e fondavano nuovi villaggi, nei luoghi dove l’uccello totemico prescelto costruiva il proprio nido.

Con ogni provabilità secondo gli intendimenti umani di allora, gli uccelli con il loro volo si avvicinavano agli dei, e perciò erano in grado di percepire i loro comandi, pertanto gli uomini nel scegliere i luoghi dove fondare nuove città si ispiravano al volo degli uccellini appena svezzati, i quali abbandonavano il nido materno e andavano alla ricerca di un luogo dove costruire il proprio.

Infatti secondo la tradizione, l’etnonimo piceni ha origine da una primavera sacra dei sabini, durante la quale un nuovo clan si insediò lungo il versante Adriatico dell’Italia centrale, traendo l’indicazione dal volo di un giovane picchio verde (Picus viridis), che diede origine all’etnonimo dei piceni e divenne il loro uccello totemico.

In particolare si può ipotizzare anche un possibile collegamento culturale dei piceni con gli abitanti della valle Seriana, che con il suo fiume Serio e il passo del Serio, dalla provincia di Bergamo ci introducono nella terra dei reti, poi divenuti elvezi.

Da aggiungere anche la val Serina, il monte Alben, il fiume Albina, il quale sorge sull’altipiano di Selvino (Helvinus ?), e confluisce nel Serio nella città di Albino.

Quindi sull’origine del toponimo Tortoreto si può ipotizzare anche la presenza di un villaggio fortificato dei reti poi divenuto Castrum Salini con la romanizzazione.

Anche Roma venne fondata in primavera, dopo l’auspicio di un volo di avvoltoi, un volo nefasto, mi verrebbe da dire, che tra l’altro sarebbe stato favorevole a Remo, ma l’interpretazione degli auspici toccava ai sacerdoti, i quali erano ben consapevoli della mediocrità del personaggio; ma nell’iconografia di allora, la lupa che allatta i gemelli sotto al Ficus Ruminalis, veniva sempre ritratta in presenza di un picchio.

Come ho già detto il prefisso var è diffuso in molti toponimi dell’Italia settentrionale e della Francia meridionale, dove durante l’età del rame era diffusa la cultura ligure.  

      Innanzi a tutto possiamo citare la val di Vara con l’omonimo fiume e la sua città più importante, Varese Ligure, si tratta di una valle che risale la montagna fino al passo “Cento croci”, dove si congiunge con la val di Taro (Taranis? Un dio del tuono), che la collega con la pianura Padana, tra Parma e Alessandria, quindi un passaggio obbligato per le merci che andavano o arrivavano dal nord; in val di Vara è da citare anche la località di Cassana, un altro riferimento alla quercia, facente parte del comune di Borghetto Val di Vara, sicuramente un antico villaggio fortificato.

       Oltre alle solite caratteristiche incisioni che facevano riferimento al sole e al toro, la val di Vara è dominata dal monte Penna, dove oggi troviamo un santuario consacrato alla “Madonna della Penna”, una sovrapposizione cristiana a un luogo sacro al dio ligure “Penninus”, il quale assieme al celtico “Albiorix” e all’umbro “Summano”, erano divinità delle vette.

       Successivamente, Summano “colui che sta in alto”, dopo un periodo di transizione, durante il quale veniva considerato come una manifestazione di Giove, venne adottato come dio delle vette anche dai romani.

      Il passo delle Cento Croci è dominato dal monte “Dragnone”, sul quale la costruzione di un tempio Mariano ha cancellato le tracce di un luogo di culto ligure, sempre in val di Vara, sulla cima del monte Zignago, sotto il pavimento di una torre medioevale è stato ritrovato un fondo di capanna senza focolare, il fondo era in argilla battuta, dello spessore di trenta centimetri con al centro un foro di venticinque centimetri di diametro, che scendeva fino a toccare la roccia sottostante, nel foro era inserita un’olla rovesciata databile attorno al VIII secolo a.C., che conteneva ghiande abbrustolite, con tutt’intorno cocci di anfora conficcati verticalmente nel battuto di argilla. (I Liguri e la Liguria B.M. Gianattasio).

         Tra le montagne sacre della Liguria possiamo mettere anche il monte Ceppo, la cui altezza supera i 1600 m. il toponimo è sicuramente originato dal teonimo Kephisos, il dio luvico delle acque, forse giunto in Italia con la cultura del ferro.

      Sulle pendici del Monte Ceppo non si segnalano ritrovamenti archeologici, ma il capoluogo del territorio Bajardo (900 m s.l.m.) è indicato come centro abitato già nel 1000 a.C.  Bajardo potrebbe essere la corruzione di “Bajadera”, nome sanscrito delle danzatrici sacre, le quali si esibivano nei templi in onore degli dei, Essendo il paese situato su di un’altura davanti al monte Ceppo, si può arguire che la bajadera danzasse in onore di Kephisos”, il dio delle sorgenti.      

            Da citare il monte Ebro sicuramente sede di un gurù molto importante, un’ipotesi suggerita dal fatto che la montagna domina la valle “Curona”, il cui nome non è altro che la cristianizzazione di un toponimo ligure, il quale indicava la valle del Gurù.

            Da considerare anche l’omonimia con il fiume iberico Ebro, e l’affinità etimologica con il nome del El’brus la montagna più alta del Caucaso.        

             Un altro luogo sacro della Liguria è Varazze, il cui nome dialettale è “Varase”, non è altro che la continuazione di Varese, situata ai piedi un altipiano dominato dal monte “Beigua”, un’altra montagna sacra, ricca di incisioni rupestri, anche qui abbiamo una valle che risale verso i facili passi collinari, per poi scendere tra Alessandria e Pavia.

Pietra Ligure trae il suo nome principale Pietra dall’indoeuropeo “carn” sinonimo di pietra e dal fatto che la città sorge ai piedi del monte Carmo altro toponimo originato dalla radice carn, si tratta di una montagna che per le sue dimensioni domina un vasto territorio, dalla cima della quale, nelle giornate limpide la visuale arriva fino alla Corsica.

Le sue dimensioni e l’abbondanza di sorgenti che sgorgano dalle sue falde, lo hanno reso sicuramente un monte sacro a una divinità identificata con le pietre come poteva essere il ligure Gramnos adorato dai coti, ma anche Bormanus al quale era sacro il fiume Bormida la cui sorgente del ramo di Millesimo, è posta sulla Rocca Barbena, situata sul versante Nord-est del monte Carmo.

Del gruppo del Carmo fa parte anche il monte Varatella, un altro toponimo con il prefisso Var a indicare l’antica origine vedica, sulla cui cima troneggia l’abazia Benedettina di San Pietro in Varatella, in memoria della presenza dell’apostolo, attiva già in epoca carolingia, ma l’architettura interna fa pensare anche all’epoca romanica.

L’omonima valle ha inizio presso il Giogo di Toirano dove si congiunge con la valle Bormida. La quale scende nella direzione opposta.

Nel territorio circostante sono presenti numerose grotte carsiche che in epoca preistorica costituivano delle vere e proprie cattedrali vediche.

Da ricordare che anche Pietrasanta è un toponimo di chiara origine indoeuropea che fa riferimento a un menhir, dolmen o lica, vale a dire una pietra o parete rocciosa che veniva individuata come monte sacro in quanto sovrastava una sorgente.

Ě il caso della città di Pietrasanta, la quale sorge ai piedi della rocca Sala, un altro toponimo indoeuropeo che indicava la presenza di un tempio.

La rocca fu occupata dai longobardi, per cui è chiamata anche Rocca Longobarda, ed è il nucleo storico della città attuale che nel 1225 venne ampliato con l’insediamento di coloni provenienti dai comuni vicini, ad opera del podestà Guiscardo da Pietrasanta, un nobile milanese dal quale erroneamente viene attribuito l’origine del toponimo.

Savona è dominata dal colle di Cadibona, conosciuto anche con il nome di “Bocchetta di Altare” un toponimo italianizzato, che dovrebbe indicare un luogo sacro al “Bӧ”, con il significato di “Casa del Bue”, ripetuto da una località posta più in basso e da alcune frazioni chiamate direttamente “Ca del Bӧ”.

       Il toponimo Savona sarebbe originato dalla divinità gallica “Souconna”, o Saona, nome di un fiume francese, legato alla tradizione dell’Imbolc, lungo il quale i galli avrebbero inventato il sapone.

         Con ogni provabilità pur mancando un fiume importante come la Saona, a Savona va segnalata la presenza di località come “Bosco delle Ninfe”, e “Fontanassa”, sicuramente luoghi ricchi di sorgenti sacre.

            Alle falde del Beigua c’è il monte Grosso (402 m slm), sulla cima del quale troviamo il santuario di Nostra Signora della Guardia, una sovrapposizione al culto di Rhetia Phora. 

Entrando nell’area piemontese troviamo Vinadio, dove la presenza di una sorgente termale frequentata fin dai tempi dei romani, richiama l’origine del toponimo a una divinità solare anatolica, giunta nella pianura Padana con la cultura del ferro, che gli ittiti chiamavano “Windos”, alter ego del troiano “Ilios” e dell’ellenico Elios, adorato dai liguri romanizzati con il teonimo “Apollo-Vindonnus”, dio del sole e delle guarigioni.

Proseguendo lungo il sentiero che porta al colle della Lombarda (un toponimo fuori luogo, sulla cui origine non riesco a trovare una spiegazione) e successivamente all’omonima cima, si incontra il santuario dedicato ai Santi, Anna e Gioacchino i genitori della vergine, posto a 2000 metri di quota e a poche centinaia di metri da una parete rocciosa, sulla quale e apparsa la Madonna che chiedeva la costruzione del tempio.

È ipotizzabile che sulla parete rocciosa fossero presenti dei graffiti rupestri inneggianti alla Grande Madre della Natura, cancellati dai cristiani.

Mentre sul versante opposto delle Alpi, nella vicina Valle delle Meraviglie dominata dal monte Bego sono state ritrovate oltre 35000 incisioni che risalgono fino al V millennio, sfuggite alle “purghe” cristiane a causa della scarsa accessibilità del luogo.

Nelle vicinanze del monte Bego scorre il fiume Tinee (Tinea), il quale diffonde il teonimo “Tinia” all’interno dell’omonima valle, si tratta di una divinità adorata dagli etruschi, della quale si trovano tracce anche tra liguri, probabile retaggio di un’origine comune.

            Tinia chiamato anche Tunia è considerato dagli studiosi come l’alter ego etrusco di Giove e aveva come moglie “Talna”, la dea del parto, ma in realtà il suo nome è originato dal celtico “Tinne”, il nome dell’agrifoglio, l’albero sacro delle divinità solari.

Sempre nei pressi del monte Bego troviamo anche una continuità vedica nella toponomastica, con il “Col di Vars”, con relativa vallata e fiume, anticamente era chiamato “Varo”, tutte montagne che possiedono le stesse caratteristiche del Campo dei Fiori: roccia calcarea, abbondanti sorgenti e ampia visibilità del territorio circostante.  

      Risalendo le Alpi verso nord incontriamo anche la valle Varaita ed il suo fiume omonimo, che nella lingua occitana è chiamata “Varaha”, sinonimo sanscrito di cinghiale, l’animale totemico dei Varahi, in quanto i pagani credevano che le divinità come Varuna e Lug si incarnassero nel “Varaha”.

            La valle è dominata dal Monte Viso, ma alla sua estremità più alta si biforca, e una delle due biforcazioni si arresta sulle pendici del monte Bellino, quindi è palese che nella valle i liguri adoravano “Bel”, e che il Monte Viso, dietro al quale tramonta il sole, con il suo Pian del Re fosse considerato la dimora del dio.

            Le Alpi Cozie si presentano con il monte Orsiera, le cui pendici franose mi suggeriscono l’origine celtica del toponimo, in quanto farebbe riferimento a una delle tre matrone delle acque, vale a dire “Artios”, l’Orsa che domina la frana e l’alluvione.

            Il Monte Orsera è situato interamente nel comune di Roure, e la sua cima è il punto più alto del comune, mentre il toponimo deriva dal dialetto occitano, che è l’evoluzione della lingua parlata dai liguri primitivi, e significa “Rovere”, l’albero che costituisce lo stemma della località.

            Quindi possiamo supporre che l’Orsera con le sue rocce friabili e franose fosse considerata una manifestazione dell’Orsa Artios, la matrona che domina la frana e l’alluvione, e quindi Roure era un centro spirituale posto in val Chisone a 811 m. S.l.m., dove si svolgevano i riti sacri in onore della dea per scongiurare frane e alluvioni.

La valle Chisone gira attorno al Monte “Albergian”, il cui toponimo contiene la radice celtica “Alb”, sinonimo di alto, mentre “ergian”, sarebbe il sinonimo di “Egyans” o “Egini”, una tribù di cozi, escludendo l’ipotesi Giano in quanto si tratta di una divinità latina, il toponimo indicherebbe la montagna dove vivevano gli Egyans.

Parallela alla valle Chisone, troviamo la valle Susa, con Il colle del Monginevro, che la congiunge alla francese valle Durance.

Monginevro è un toponimo forzato, in quanto deriva da Ginevra un nome femminile, che nella lingua dei celti significava regina, infatti i romani, che avevano molto rispetto delle altre culture lo chiamavano Mons Matrona.

Difficile stabilire chi fosse la matrona essendo il colle posto tra la Téte des Fournèous (Fortuita o Fortuito) e il Sommèt de Chateau Jouan, chiamato anche monte Janus, un chiaro riferimento al dio romano dei passaggi Giano, che in epoca romana avrebbe sostituito una divinità lunare dei cozii, guardiana della porta del cielo e dei passaggi che le popolazioni retiche chiamavano Retia Phora; quindi mi sembra ipotizzabile che prima della romanizzazione il passo fosse chiamato Monginevra.

Un’ipotesi potrebbe essere Brigid la matrona dei brigantes, i quali avevano come capitale Briancon chiamata Brianzone in italiano, situata ai piedi del Monginevro nel versante francese.

Infatti se il prefisso Bri ci porta a Brigid, la radice anzone, avrebbe il significato antico di agnello continuato ancora oggi dal dialetto sardo logudorese, originato dal ligure antico; e non a caso sulle Alpi Cozie troviamo anche il colle dell’Agnello.

Da citare anche Bianzone una località di origine retica situata in val Tellina, dove la coltivazione della vite ha progressivamente sostituito la pastorizia.

Brigid il cui nome significava l’Altissima, forse come riferimento alla luna, era la dea della saggezza, della fertilità, della purezza e della primavera, veniva celebrata con l’Imbolc il 2 di febbraio durante il quale gli venivano presentati gli agnelli nati durante l’inverno, ragion per cui possiamo pensare che l’agnello fosse il suo animale sacro.

Nel 600 a.C., i brigantes partecipano con i cozii, chiamati coti, all’invasione della Britannia e successivamente dell’Irlanda, dove porteranno il culto di Brigid, che per la sua natura sarà molto amata anche dagli indigeni, tanto che nel processo di cristianizzazione degli ariani, gli evangelizzatori non troveranno pretesti teologici che la potessero indicare come una strega, pertanto in Irlanda entrerà a far parte della religione cristiana, come santa Brigida.

Bardonecchia è un toponimo che nella lingua dei celti doveva significare terra del     Barman o Bormanus il dio delle sorgenti, in quanto dal suo nome più antico IX secolo d.C., tutt’ora conosciuto “Bardonisca”, possiamo estrarre il prefisso “Bar” sinonimo di Bormanus, chiamato anche Barman, e la radice “isca”, derivata dal latino “iscla”, che indicava una pianura nei pressi di un torrente, da ciò: “Terra di Bormanus”.  

Infatti la città è situata in una conca nella quale confluiscono 4 valloni e i loro fiumi, che vanno a congiungersi con la Dora di Bardonecchia, affluente a sua volta della Dora Riparia.

Ma non voglio trascurare la radice nicchia con il significato di casa in quanto in quanto le prime case degli umani erano costituite da nicchie o buche scavate nella terra, come appare Bardonecchia circondata dalle montagne, e come dimostrano anche i sassi di Matera, e quindi poteva anche significare: Casa di Bormanus.

Del resto, l’antica frequentazione del luogo è testimoniata dall’idronimo Dora originata dalla radice preindoeuropea “Dura/Duria”, che significava “corso d’acqua”, da citare la Durance che sorge sul versante francese del Monginevro e il Duero terzo fiume più importante di Spagna, il che mi porta a pensare che gli antichi iberi, partiti dal Caucaso nel 9000 a.C., dopo aver colonizzato il nord Africa, la Spagna e la Francia, siano giunti anche in Italia attraversando il Monginevro.

Da sottolineare che attraverso la valle di Susa la cultura dei vasi a bocca quadrata, che nel 6000 a. C. era diffusa solo nella pianura Padana avrebbe sconfinato anche nelle alpi francesi.

La presenza di questa cultura antichissima, e di una montagna chiamata Thabor mi fanno pensare che il toponimo Susa omonimo, di quello della capitale del regno di Elam non sia casuale, ma figlio della migrazione di un popolo mesopotamico.

            Secondo i linguisti il toponimo Susa deriverebbe dal gallico “Sego”, sinonimo di forte, in quanto in epoca celtica “Segusium”, era il nome della sua città più importante, ma il fatto che i galli fossero solo gli ultimi arrivati e che si fossero insediati soprattutto nei bassi piani, mentre la valle Susa era abitata da tempi remoti da una popolazione ben più evoluta di sicura provenienza almeno caucasica mi lascia dubbioso.

Nome primitivo anche Excingomagus indicato come mercato basso, oggi Exsilles toponimo derivato dalla radice celtica “Ixellos” che significa: basso, che in italiano si traduce in Issiglio.

Ma, considerando la posizione strategica che pone il campo nel punto in cui la valle si restringe mi fa pensare a un campo fortificato, come prima linea di difesa dell’alta valle.

Da confrontare anche con Usseaux, originato dal celtico “uxellos” che significa alto, Usseglio in Italiano, infatti Usseaux con il rispettivo lago di Oux è situato dalla parte opposta del gruppo dell’Orsiera che divide La Valle Susa dalla valle Chisone a una quota di 1400 m.

All’imbocco della valle Susa troviamo anche il monte Pirchiriano, sulla vetta del quale troneggia un santuario di origine longobarda, chiamato dagli stessi arimanni “Sagra di San Michele”, il santo guerriero, nel nome del quale si sono convertiti al cristianesimo.

            Si tratta di un toponimo composto da due radici la prima “Pirchi”, oggi la troviamo nella lingua corsa, con il significato di pertica, mentre “riano”, sarebbe una continuazione di ariano.

Trattandosi di un ripido sperone roccioso che si separa dal monte Caprasio può andare bene l’idea di una pertica, quindi Pirchi sarebbe un lemma di antico uso comune, trasmesso tra cozii r corsi, ma trovo più adatto il lombardo “Pic”, o l’indoeuropeo “Pik”, sinonimi di picco, come in genere vengono chiamate questo genere di montagne.

Fa eccezione il leponzio “Puncioo” in dialetto lombardo, originato dalla radice “puncia” sinonimo di punta, italianizzato in “Poncione”, diffuso nell’area lepontina in almeno 6 toponimi, tra i quali spicca il Poncione di Ganna, distinguibile anche da molto lontano.

La radice riano indicherebbe un insediamento ariano, come erano in origine i longobardi, e i cozii che li hanno preceduti, ciò sembra confermato da un toponimo antico: “Porcariano”, forse dovuto alla presenza di un recinto sacro nel quale erano mantenuti dei cinghiali o anche i maiali, destinati al sacrificio.

Nei sacrifici pagani, il profumo della carne abbrustolita doveva raggiungere gli dei in cielo, per cui le cime dei monti erano le più indicate perché vicine alla casa degli dei.


            A Usseaux bisogna segnalare la frazione di Frassineto, in quanto il frassino era l’albero sacro a Brigid una divinità celtica della fertilità e della primavera, la cui festa era L’Imbolc, che si celebrava in un frassineto sacro il 2 di Febbraio.

Da segnalare anche una città chiamata Frassino situata nella valle Varaita, lungo la statale che sale al colle dell’Agnello, quindi un altro centro spirituale dove i pastori celebravano l’Imbolc prima di salire nei pascoli,

Un’Usseglio la possiamo trovare anche nell’Alta valle di Lanzo, adiacente alla valle di Susa, ma facente parte delle Alpi Graie, e anticamente abitata dai Graioceli una piccola tribù conosciuta solo perché citata da Giulio Cesare nel De Bello Gallico.

Il toponimo Varese lo posiamo identificare anche nella località Verrès situata all’imbocco della valle d’Ayas, lungo la riva sinistra della Dora Baltea.

     La valle d’Ayas è un picolo Tibet ligure, infatti già a partire dal toponimo Ayas, capiamo che ci troviamo nella valle del Ghiaccio, Infatti Champoluc è il centro abitato della valle, situato più in alto, 1600 m. slm., quindi possiamo supporre che al tempo dei liguri, almeno d’inverno, il “Grande Ghiacciaio di Verra”, si allungava fino a ricoprire buona parte della valle.

       Con ogni provabilità nell’immaginario spirituale dei celti il ghiacciaio che si allungava e poi si scioglieva, simboleggiava l’accoppiamento tra le due divinità.

       Il nome del ghiacciaio è un altro riferimento a Lug,in quanto  “Verra”, è il femminile di verro o mocco, epiteti rivolti a Lug, quindi un riferimento alla scrofa che si accoppia con il dio,  probabilmente la divinità immaginata era Epona o la Morrigan, mentre il nome del fiume Evançòn, che sorge dal ghiacciaio, sarebbe una forma celtica che ha prededuto il latino “evacuàre”, quindi: il fiume Evançon simboleggiava la vita trasmessa agli umani per mezzo dell’evaquazione, prodotta dall’accoppiamento divino.

      Da sottolineare che la radice “ançon”, presente nell’idronimo Evançon sarebbe un sinonimo dei celtici “kona”, e “mona”, quest’ultimo continuato ancora oggi dal dialetto veneto, i quali indicavano il “Monte di Venere”.

La presenza del nome Eva come prefisso di molti sostantivi simili ad evacuare, come evadere, evaporare, evanescente, fa pensare all’esistenza fin dal primo neolitico, di una divinità materna indoeuropea, chiamata Eva, nella quale gli estensori della bibbia hanno poi individuato la compagna di Adamo.

Al grande Verra si affianca anche il ghiacciaio del “Lys”, sormontato dalle omonime vette: “Lyskamm Orientale”, e Lyskamm Occidentale”, unite tra loro da un sottile strato di roccia e ghiaccio, ovviamente il ghiacciaio alimenta l’omonimo fiume, che percorre l’altrettanto omonima valle.

Lys è un vocabolo della lingua francese che significa “giglio”, “lily”, in inglese, “lilie”, in tedesco, “lirio” in spagnolo, quindi Lys è un toponimo che fa riferimento a un fiore sacro alle divinità materne, Giunone ed Hera in primis purtroppo non riesco a trovare indizi che mi possano portare verso una ben determinata divinità celtoligure.

  Il nome delle due Lyskamm contiene la radice tedesca “kamm”, che significa “cresta”, ma nell’indoeuropeo centun significa anche curva.

           Un fiume di nome Lys lo troviamo anche in Francia, il quale nasce sulle colline dell’Artois (da Artios l’orsa che domina la frana e l’alluvione), e dopo aver attraversato la regione (Passo di Calais), anticamente abitata dai morini e dagli atrebati, sconfina in Belgio, dove confluisce nella “Schelda”. 

          In liguria ci sono toponimi come Lerici e Leira, una valle e l’omonimo torrente che devono il loro nome al giglio, anche la forma spagnola “lirio” autentica l’origine del nome del fiume Liri, lungo le rive del quale troviamo la località Morino, una Morini si trova anche in provincia di Verona, evidenti tracce delle migrazioni dell’omonimo popolo.

         Il Monte Rosa, anticamente chiamato “Sas Gros”, deve il suo nome attuale alla sua cima più importante, oggi denominata “Cima Dufour”, mentre in precedenza era Monte Rosa, evidentemente preceduto da un primitivo “Mota Rusa”, traccia di un culto materno primordiale, che ha preceduto anche i liguri.

Del gruppo del Monte Rosa fa parte il Breithorn, 4165 m, Corno largo in tedesco, Corno Madre in irlandese, non a caso la montagna si affaccia sulla Mattertal detta anche Nikolaital, due chiari riferimenti alla Grande Madre neolitica e a san Nicola il Grande Padre cristiano.

Di fianco al Breithorn troviamo la Roccia Nera 4075 m, nella quale, secondo la tradizione vedica, Indra tiene prigioniero il serpente Varuna, colpevole di aver divorato la Grande Madre la quale viveva sulla Motta rossa.

            Quando si parla del Monte Rosa si pensa sempre al colore e mai al fiore, ciò è molto importante, perchè la rosa era sacra ad “Afrodite”, la dea greca dell’amore e della bellezza, figlia di Urano, e per questo chiamata anche Urania, regina del firmamento ed adorata anche come dea madre.

            Il sinonimo greco del nome rosa è “Rodon”, mentre “Rodea”, è chiamato lo stelo, i quali sarebbero originati da una radice indoeuropea: “Vardh” o “Vradh”, che significa crescere o ergersi.

            Etimologicamente il greco “Rodon”, chiama in causa il fiume Rodano, il quale prende il nome dal ghiacciaio che lo alimenta che è situato nel Canton “Uri”, un toponimo che sembra fare riferimento al toro, il quale è diventato il simbolo del cantone, ma come sappiamo il toro era una divinità secondaria, il quale doveva la sua importanza al fatto di essere l’amante della grande dea madre, quindi: Uri poteva essere l’etnonimo di un popolo che adorava Urania come grande dea madre.

           Il sospetto sull’esistenza di una divinità primordiale che si chiamava Urania è alimentato anche dal nome antico dell’Olona, “Urona”, il quale raccogliendo le acque che scendevano dalla Motta Rossa, diventava un fiume sacro alla grande dea.

In realtà i nomi del fiume Rodano e del ghiacciaio dal quale sorge, sono originati dal teonimo vedico “Danu” dea personificazione delle acque, per cui l’idronomo è composto dal prefisso “Ro”,(o meglio ancora Rö) sinonimo dell’indoeuropeo “Ri”, che significa scorre, e dalla radice “Danu”, quindi il significato di Rodano diventa acqua che scorre.    

     Nella lingua occitana il Rodano è chiamato “Ròse”, mentre in valdostano con “Rosà”, si indica un luogo ghiacciato, il ghiaccio invece è chiamato “Rouèsa”, mentre nei dialetti di origine leponzia come il varesotto, con Rouèsa si indica il fiore vero e proprio, più propriamente Rosa mentre con Rôsa si indica il colore.

            Si tratta di linguaggi che hanno tutti la stessa origine, la differenza nel significato è dovuta all’abitudine di chiamare rosa tutte le manifestazioni della natura attribuite alla Grande Dea Madre.

             Da citare anche il Platò Rosà sul Cervino, Rosasco (Rosa Nascosta), sulla riva del Sesia, Il comune di Rosà ai piedi del monte Grappa, con la sua frazione di San Pietro, un importante sito archeologico paleoveneto, il cui nome cristiano è una palese copertura di un toponimo antico, che faceva riferimento a una importante divinità vedica.

             Da citare anche la vicina Rossano Veneto, Rossano Calabro, Rosarno sempre in Calabria e Rosate in provincia di Milano. 

A ovest del monte Rosa c’è il Cervino con la sua tipica struttura piramidale che ha sicuramente alimentato la spiritualità degli ariani; si dice che il suo nome sia il frutto di una errata trascrizione da cui l’affinità del toponimo con il cervo.

            Comunque il suo nome in francese è Cervin, che si associa al lombardo Cervìi, mentre i valdostani lo chiamano Gran Becca, ma molto significativo e indiscutibile è il tedesco “Matterhorn”, cioè, il: Corno della Madre, come nella tradizione vedica.

Anche nel bolognese troviamo toponimi di origine vedica, come Vergato, situato lungo la valle del fiume Reno, un altro idronimo indoeuropeo, Vergato caratterizza la propria origine anche dallo stemma, nel quale appare un cinghiale dotato di una fascia attorno al corpo, che pascola nella palude, mentre sullo sfondo sorge una collina fortificata, il tutto adornato con due rami di quercia adornati da ghiande dorate.

Si tratta di un chiaro riferimento a Varuna o a Lug soprannominati anche: “Il Verro”, da cui il toponimo Vergato, che significava il forte di Varuna o del Verro.

Nell’alta valle del Reno troviamo Porretta Terme, un toponimo che sembra riferirsi a Rethia Phora la divinità retica dei passaggi, ma le sue sorgenti termali mi fanno pensare alla corruzione di un toponimo primitivo che faceva riferimento al dio ligure delle sorgenti e delle guarigioni Bormanus, come potrebbe potuto essere Borretta o Gorretta, da gorgogliare o borbogliare, ciò sembra confermato anche dalla confinante Berzantina un altro toponimo che fa riferimento a Bormanus.

Ma lo stemma di Porretta Terme, al di là delle leggende medioevali, propone anche il tema del toro, Infatti il bovino che si abbevera nel laghetto termale con un faggio sulla riva, è un chiaro riferimento al “Jovis Fagutalis”, vale a dire “Giove dei Faggi” al quale sarebbe stata sacra la sorgente.

Da notare che il faggio presente nello stemma ha due rami recisi e uno intero, i quali con ogni probabilità vogliono simboleggiare due culti antichi, Bormanus e Lug, ai quali si è sovrapposta la venerazione di Giove.

La forte romanizzazione del territorio di Porretta Terme è testimoniata anche dalla presenza nei boschi di un santuario sacro alla Madonna dei Faggi, un’altra sovrapposizione cristiana ai culti antichi.

Un’altra testimonianza della forte romanizzazione del territorio è la confinante Castel di Casio il cui toponimo è un riferimento a Cassio e alla quercia, il quale ha come stemma un maiale che pascola nella pianura con sullo sfondo una collina fortificata, quindi molto simile allo stemma di Vergato.

La confinante Camugnano trarrebbe il suo nome dalla famiglia romana Camonius, ma a mio parere bisognerebbe fare i conti con una divinità della guerra, chiamata “Camulus” o “Camulos”, adorato dai Remi, un popolo di origine belga alleato di Cesare, che come premio alla loro fedeltà avrebbero ottenuto delle terre in Italia.

Ma non si può escludere un insediamento di gente proveniente dalla val Camonica dove si adorava la stessa divinità, comunque Camonius poteva essere il nome di un celta romanizzato, oppure il nome pagano della località.

Tutto ciò è confermato dall’assetto urbanistico di Camugnano, il cui territorio ha conservato l’aspetto di un omphalos sacro a una divinità pagana.

Infatti, la chiesa sacra a san Martino sorge al vertice di un’altura che domina il territorio circostante e conserva attorno a sé uno spazio verde che la separa dal centro abitato, caratteristica dominante nelle tradizioni celtiche.

Anche la dedica a san Martino ci porta alla conclusione che il luogo era riservato ai culti religiosi già fin dai tempi remoti, e che in epoca longobarda, nel corso del processo di cristianizzazione hanno sostituito i nomi delle divinità pagane con quelli dei santi guerrieri cristiani; quindi, possiamo affermare con certezza che durante l’età del ferro l’altura sulla quale sorge Camugnano era un omphalos sacro a Camulus.

Da segnalare anche la frazione Verzuno, situata lungo la riva del torrente Limentra, il cui toponimo deriverebbe dall’antica presenza di un recinto sacro al Verro, in quanto nel nome del luogo è presente la radice “Zona”, che nell’antichità indicava un luogo recintato.

Sempre nella provincia di Bologna dobbiamo considerare la presenza del fiume Santerno, un affluente del Reno che scorre nell’omonima valle.

            Il suffisso “erno”, che compone l’idronomo Santerno come abbiamo già visto per la località Erno nel triangolo lariano e per l’alto Vergante, richiama il nome gallico dell’ontano, “Ernos”, l’albero che cresce sulle rive dei fiumi, sacro a “Bran” il dio che resuscitava i guerrieri morti in battaglia, chiamato anche il Corvo.

            Ernos era sacro anche alla Morrigan Nera, che si manifestava nella forma di corvo come annunciatrice di morte; per tale motivo nella lingua dei celti Erno doveva significare inferno o indicare il mondo dei morti.

            In proposito bisogna citare la Gallisterna, una collina posta alla periferia di Imola, il cui toponimo significherebbe appunto Inferno dei galli.

            Che la valle del Santerno fosse considerata l’inferno, trova conferma nella natura gessosa del territorio attraversato dal fiume, il quale è il prodotto della reazione chimica del calcare con l’acido solforico presente nelle acque e nei vapori delle solfatare, fenomeno caratteristico nell’inferno dantesco nell’Averno latino e nell’Ade ellenica, un fenomeno che in passato avrebbe impedito la fondazione di insediamenti umani.

I proto veneti che storicamente sono indicati come appartenenti alla stessa etnia degli albani, hanno lasciato una traccia del loro passaggio nel nome dei colli Berici, un toponimo che dal punto di vista etimologico è affine all’etnico “iberi, quindi è da supporre la presenza nel territorio di una tribù di etnia iberica, che vedeva in quelle colline il ricordo della lontana Iberia Caucasica.

Una testimonianza del legame della cultura iberica con i caucasici migrati in Italia, ci viene data anche dall’esistenza di numerosi toponimi che contengono la radice “serra”, la quale sarebbe la continuazione dell’iberico “sierra”, sinonimo di altipiano.

Un esempio è Serralunga d’Alba in provincia di Cuneo, situata in un territorio dove il toponimo Alba si spreca, una Serra Lunga la troviamo anche sull’altipiano del Fucino, si tratta un altipiano che dà il nome a una catena montuosa della quale fa parte, e che divide la Vallelonga dalla valle Roveto; in Calabria si può citare l’altipiano Le Serre; e poi le numerose Serravalle sparse in tutta Italia.

La radice indoeuropea “alb” la troviamo anche tra i colli Euganei nel toponimo “Abano Terme”, dove in epoca romana le sorgenti termali erano sacre ad “Aponus”, del quale esisteva un tempio e un oracolo molto importante, che veniva consultato anche dai romani.

Con ogni provabilità Aponus era una forma latinizzata di un teonimo, con il quale i romani tentarono di assimilare il dio Albiorix, con il loro Apollo.

Da considerare anche il dio solare “Windo”, che i romani chiamavano “Apollo Windonus”.

Dal teonimo romano Aponus avrebbe origine il toponimo Abano, mentre nelle sue vicinanze troviamo “Albignasego”, il cui nome ci indica chiaramente che si trattava di una città fortificata sacra ad “Albiorix”, in quanto il toponimo oltre ad avere come riferimento Albiorix, contiene la radice indoeuropea “sego”, sinonimo di forte, da cui: “Forte di Albiorix”, quindi si tratta di un retaggio del legame allora esistente tra la popolazione veneta e la cultura illirica dei castellieri, i quali altri non erano che una tribù di albani
Nel gergo volgare, il femminile di sego è ancora usato per indicare una persona debole o incapace.

La mancanza di riferimenti storici e la tarda fondazione del villaggio, mi fanno pensare che il toponimo Battaglia Terme sia da mettere in relazione a una tradizione antica legata al colle sant’Elena e alla sua grotta termale.
Infatti il nome Battaglia potrebbe essere un riferimento a “Bran”, il dio celtico che resuscitava gli eroi morti in battaglia, immergendoli nel suo calderone, come poteva essere la grotta termale che troviamo sul colle sant’Elena.

L’uccello totemico di Bran era il corvo, ma valevano anche le cornacchie e tutti gli uccelli neri, tanto che il loro appellativo era “scurbat”, sinonimo di “uccello scuro”, usato anche per indicare il dio.

Scurbat è ancora in uso nel dialetto lombardo per indicare le cornacchie, mentre a conferma della tradizione, nella lingua inglese moderna, “bat”, è sinonimo di pipistrello.

L’attuale nome cristiano del colle è chiaramente la sovrapposizione a un toponimo che faceva riferimento a una divinità vedica; e lo stesso si può dire dello stemma di Battaglia Terme, nel quale un’insolita aquila bianca su fascio romano, potrebbe essere una sovrapposizione a un: “Scurbat”, sempre che non sia un riferimento a Windonnus, il dio bianco.

Da citare anche la vicina Pernumia, un toponimo precristiano che sembra indicare la vicinanza di un luogo sacro, come potrebbe essere anche il Monselice, che come suggerisce la toponomastica locale, era un monte sacro al sole, dal quale è illuminato per tutto l’arco della giornata. Ma non si può escludere il significato di “Monte del Salice”, l’albero della saggezza.

A nord di Padova troviamo Trebaseleghe, il cui toponimo è da mettere in relazione all’incrocio di tre strade storiche, l’antica via Castellana, oggi strada regionale 245, che collega Venezia con la val Sugana, passando da Castelfranco Veneto, e la provinciale 44, via Treviso, la quale, secondo la tradizione romana era una via spina, che collegava la Castellana con la strada che da Venezia portava a Treviso. Infatti la “Chiesa della Natività della Beata Vergine Maria”, sorge all’interno di un trivio, sui ruderi di una basilica del VIII secolo d.C., traccia sicura dell’antica presenza di un tempio pagano.

Etimologicamente, il toponimo Trebaseleghe è composto da due radici, precedute dal prefisso “Tre”, la prima radice “Base” è originata dal latino “Basis”, sinonimo appunto di “Base”, intesa come punto di arrivo o di partenza, mentre “leghe” è il plurale della radice “Lega”, originata dal latino “Leuca”, il quale era l’unità di misura delle distanze, che corrispondente a 2,22 km, i mille passi romani, i quali prendevano anche il nome di miglio romano, misura utilizzata dai romani.

La lega era un’unità di misura di origine gallica, chiamata appunto “leuga gallica”, che si differenziava dalla leuca romana per la lunghezza del passo.

Quindi il toponimo romano di Trebaseleghe era: “Tri Basis Leucarum” indicava che in quel punto era situato il primo cippo miliare di tre strade.

Nell’antichità la presenza del primo cippo miliare implicava anche la presenza di un tempio, sacro a una divinità protettrice dei viaggiatori; in genere si trattava di Mercurio, ma essendo il luogo situato all’interno di un trivio, e considerando la natura paludosa del territorio circostante, il sito era sicuramente sacro ad Ecate, la dea dai tre volti, una divinità originaria della steppa ucraina e presente nella cultura greco-romana, che solitamente era indicata come protettrice dei trivi e dei posti frequentati dagli spiriti maligni.

Ecate, anche se indicata come protettrice dei viandanti, in origine era una dea della natura, il cui simbolo era il Triscele, e con i suoi tre volti: “Bambina, Donna, Vecchia”, rappresentava le tre stagioni: “Semina, Raccolta, Rigenerazione”, come anche le tre Empuse, le quali si alternavano sulla terra come la loro personificazione, Il suo culto sarebbe stato abbandonato dopo l’introduzione della quarta stagione, e sostituito dalle classiche: Anna Perenna, Demetra, Arianna e Samara.

La natura paludosa del territorio di Trebaseleghe, con le sue nebbie e i fuochi fatui provocati dalla decomposizione dei corpi animali, favoriva le leggende sulla presenza di spiriti maligni, che nella tradizione greco-romana erano le “Empuse”, le tre figlie di Ecate, le quali si divertivano a spaventare i viandantiforse per vendicarsi del fatto che la madre fosse stata ripudiata dai fedeli, e pertanto Ecate ontinuò ad essere omaggiata per placare l’ira delle figlie.

Nelle tradizioni celtiche la divinità regina della palude era la: “Morrigan Nera”, annunciatrice di morte, la quale si manifestava nelle ombre confuse dalla nebbia.

Per il toponimo Oderzo, vale lo stesso discorso di Trebaseleghe, in epoca romana era un trivio, cioè un luogo di congiunzione tra l’antica via Postumia, con una “Via Spina”, che ancora oggi si può identificare con la via “Spinè”, attualmente provinciale 54, si tratta di un unico asse stradale che procedendo per linea retta attraversa il comune di Cessalto, dove si sovrappone alla provinciale 53, per poi raggiungere la località di Ceggia, dove si innesta sulla statale 14, la quale non non fa altro che sostituire l’antica via “Annia”, che in epoca romana collegava Padova con Fiume, passando proprio da Ceggia.

Un toponimo che potrebbe confermare la presenza del culto di Ecate, sarebbe la località “Tre Piere”, che in dialetto veneto potrebbe anche indicare le tre pietre miliari poste all’inizio delle tre strade.

A favore della dea dei tre volti, c’è anche il il toponimo “Magera”, un ampia area campestre che fa pensare a un campo sacro al culto pagano di una divinità femminile, poi identificata dai cristiani come una megera.

Ma il toponimo Magera potrebbe anche derivare dalle tradizioni pre latine, e riferirsi a una divinità della terra, che veniva festeggiata al primo maggio, il giorno del risveglio della natura, da cui il nome Magera, “Portatrice di Frutti”, che poteva essere identificata con “Maia”, una delle divinità pre elleniche della fecondità e del risveglio della natura. Maia era anche la madre di Mercurio il dio dei viaggiatori, pertanto è ipotizzabile la presenza di un tempio sacro a entrambe le divinità.

Ma il toponimo romano di Oderzo: “Opitergio”, potrebbe anche essere stato originato dal teonimo Opis, come pure il nome paleoveneto “Obterg”, infatti come Magera si potrebbe ipotizzare la sabina “Ops “, che gli scrittori romani preferivano chiamare “Opis”, una divinità della terra e dei raccolti adorata dagli italici pre latini.

Ma tre erano anche le matrone dell’acqua dei celti: “Sulevia”, la dea che disseta e guarisce, “Artios”, l’Orsa che domina la frana e l’alluvione, ed infine “Epona” la dea che compie la magia di far galleggiare le cose, e protegge cavalli e cavalieri, poi adottata dalla cavalleria romana.

Quindi le tre matrone avrebbero potuto essere identificate con i tre fiumi che attraversano Oderzo, Monticano, Lia e Piavon, e per questo il villaggio poteva essere stato indicato come la città dei tre fiumi, da cui il toponimo paleoveneto “Obterg”.

Interessante è il nome del fiume Lia, un nome biblico di origine accadica, che significava matrona, mentre nella lingua dei caldei, l’aramaico, era sinonimo di “Signora”, un nome giunto in Europa a causa della promiscuità, nella quale vivevano in Siria e Palestina gli indoeuropei e i semiti; infatti i caldei e molti aramei, pur essendo di stirpe semita adoravano divinità vediche come Mitra per esempio, o Ba’al, poi divenuto il Beleno degli indoeuropei.

Per il toponimo Oderzo bisogna considerare anche il messapico “Odra”, sinonimo di acqua, dal quale si è originato il greco classico “Idra”. I teologi elleni vedevano nell’Idra un diabolico serpente marino ucciso da Ercole; più o meno la descrizione della Grande Madre Paleolitica, che si trasformò in serpente per accoppiarsi con il Serpentario.

Odra potrebbe essere il nome di una divinità pre ellenica dalla quale ha preso il nome anche l’omonimo fiume che attraversa: Cecoslovacchia, Polonia e Germania, chiamato “Oder”, in tedesco, quindi Obterg poteva essere il sinonimo di “Tre Odra”.

Interessante è la frazione di Colfrancui dominata dalla “Mutera”, una collina artificiale di origine paleoveneta.

Il nome stesso della collina di ci dice che si trattava di un mucchio di terra, vale a dire una “Moots Hill” (Collina della discussione), che nella tradizione britannica dell’Età del Bronzo, costituiva “l’Omphalos “ (ombelico), vale a dire: “il centro del culto”, come la Mota Rusa dei liguri, in pratica L’Aruna Chala della tradizione vedica.

Queste colline artificiali sono la testimonianza della parentela culturale tra gli europei dell’età del Bronzo, dovuta alla primitiva migrazione del popolo della Ceramica Cardiale, è poi continuata dai danai.

Sulla Mutera di Oderzo è stato ritrovato lo scheletro di un cavallo e i frammenti di un vaso rituale, il quale con ogni probabilità conteneva gli organi del cavallo considerati sacri, ma molto più provabilmente più che un sacrificio come è stato ipotizzato, poteva trattarsi della sepoltura di una cavalla totemica consacrata a una divinità marina protettrice anche dei cavalli, che come sembrano dimostrare i ritrovamenti avvenuti nella vicina a Patavium  si tratterebbe di Neptunus, l’alter ego italico di Poseidone la cui presenza è attestata ancvhe nella vicina Quarto D’Altino; coincidenza vuole che i resti dell’antica Altinae sono state ritrovate in una località chiamata Fornaci.

In seguito a rilevazioni magnetiche anche al centro della mutera di Oderzo è stato scoperta una fornace di origine romana, quindi dobbiamo dedurre che in epocra cristiana i romani smantellarono molte mutere per fabbricare mattoni.

 Come è successo anche alla Mutera del vicino comune di Fontanelle, sulla quale i romani avevano insediato un accampamento, la quale sarebbe stata spianata in epoche recenti, proprio per recuperare l’argilla.

Quindi Altnoi non poteva essere un nome locale di Nettuno, infatti la considerazione che il territorio di Quarto D’Altino è completamente piatto, mi porta a considerare l’ipotesi che Altnoi fosse un’altura artificiale eretta a scopo religioso, quindi una Moots Hill o Mutera sacra a Neptunus, anzi, Altnoi era il sinonimo paleoveneto di “altare”.

Quindi il nome stesso di Quarto D’Altino deriva dalla presenza di un altare sacro a Neptunus e non dal suo teonimo.

A Oderzo va citata anche la frazione Faè, anticamente chiamata Faedo, un toponimo dovuto alla presenza di un faggeto sacro.

Tracce della cultura vedica le troviamo anche nel toponimo Treviso, Plinio il Vecchio, citava i “monti Tarvisanis”, infatti la Treviso primitiva sorgeva su tre alture, in seguito fu citata come “Tarvisius”, “Trabision”, “Tribicium”, e la forma più accreditata “Tarvisium” alla quale, come per l’omonima cittadina friulana, possiamo attribuire il significato di: “Taurus Weso”, sinonimo di: “Dimora del Toro”.

Considerando che la Treviso celtica è sorta su tre alture circondate da paludi, non si può escludere un plurale celtico di “Triweso”, sinonimo di “Tre Dimore”.

Lo stesso possiamo dire del fiume Sile, le cui sorgenti sarebbero state sacre a “Sulevia”, la dea che disseta, adorata in Inghilterra dai soldati romani con il nome di “Sulis Minerva”.

Anche il toponimo Susegana avrebbe potuto riferirsi alla dea fluviale “Sequana”, ma come la val Sugana ripropone i temi “Susa” e “gana”. Susa era il nome di un re mitologico dei persiani, il quale primo tra i persiani sarebbe sceso con il suo popolo dai monti Zagros, fondando il regno di Elam per dedicarsi all’agricoltura.

Però La città di Susa (Shush in siriaco, Cusà in antico persiano), divenne capitale dell’Elam solo in un secondo momento.

Ma l’esistenza nel Caucaso di una regione oggi chiamata “Sowsi”, traslitterato in “Shushi”, che dà il nome alla capitale “Şuşa”, fondata nel XVII secolo d.C., pertanto la grande diffusione del toponimo Susa, mi fa pensare che in realtà Susa era il nome di una popolazione caucasica migrata in varie direzioni, infatti il toponimo Susa lo troviamo anche in Tunisia, e in Cirenaica, luogo dove sono transitati gli iberi che hanno raggiunto la Spagna, mentre la Susa che scopriamo in Danimarca, è la conferma della migrazione dei caucasici fino alle rive del baltico, quindi una colonia di danai o di liguri, dalla quale dopo tre millenni i loro discendenti partiranno per il nuovo mondo, dove fonderanno una nuova Susa anche in Canada.

Invece il suffisso “gana”, aggettivo tramandato dai sumeri, ma come abbiamo già visto per la val Ganna (www.cassano magnago e gli insubri.it), è di provabile origine persiana, e aveva il significato di “demanio”, con riferimento alla dea, quindi un demanio pubblico, pertanto si può dedurre che “Susegana” e “Sugana” indicavano la: “Terra dei Susiani”.

Contrariamente all’ipotesi “Bellona”, un epiteto rivolto a Venere e Afrodite, le quali erano identificate con il pianeta Venere, Belluno è un toponimo che trae origine da una divinità lunare come potevano essere la romana Diana o la celtica Belisama, sorella di Bel, così come la divinità lunare greca, Artemide, era la sorella del dio solare Apollo.

Da considerare che Belluno e valle Belluna potrebbero avere avuto il significato di luna splendente ed essere un sinonimo di Belisama. Ma in realtà nel bellunese preistorico si adorava sia la luna che il sole, infatti il prefisso “Bel”, oltre a significare “Splendente” non è altro che il nome preistorico del sole, e a conferma di ciò, a nord ovest di Belluno, troviamo i “Monti del Sole”, la cui cima più alta il Piz di “Mezzodì”, il quale essendo la cima più a nord della catena, è allineata con il sole di mezzogiorno, quindi anticamente era usata come orologio astronomico. A conferma dell’origine vedica del toponimo, sui Monti del Sole troviamo un alpeggio chiamato “Pra de Luni”, e a sud un Piz Vedana, da citare anche una Certosa di Vedana, un monastero esistente già nel XI secolo d.C., e quindi da considerare una sovrapposizione a un tempio pagano.

Da prendere in esame anche la presenza a Belluno di un quartiere chiamato Sala, dove è presente una chiesa medioevale consacrata a san Matteo, quindi considerato che anticamente sala era un sostantivo che indicava la casa, o un ambiente grande e coperto, possiamo supporre che nella località ci fosse il primo tempio del territorio, naturalmente sovrapposto a un campo sacro.

Nel basso bellunese, troviamo un’altra località di nome Luni, e altri luoghi dai toponimi spiccatamente carni come Cargnach, il quale accomuna quella popolazione agli antichi bretoni francesi. A fronte delle ipotesi secondo le quali il toponimo Montebelluna deriverebbe dall’antica dipendenza dell’abitato dalla citta di Belluno, bisogna considerare che Montebelluna è un comune sparso formato da varie frazioni mentre il nome fa riferimento a una collina sulla cima della quale sorge l’abitato di santa Maria in Colle, quindi una evidente sovrapposizione cristiana a un toponimo vedico. Ovviamente anche qui l’ipotesi del culto lunare è prevalente.

Anche per il nome della val di Sole in Trentino, esistono contraddizioni, in quanto gli studiosi ritengono che per via delle sorgenti termali il toponimo faccia riferimento alla dea celtica Sulis, che i romani equipararono a Minerva. In realtà Sulis era Sulevia, l’acqua che da sollievo, una delle tre matrone celtiche dell’acqua, mentre gli attributi curativi andavano anche alle divinità solari come Vindonnus e Apollo, da ricordare che Asclepio per i greci o Osculapio per i romani, era un dio della medicina figlio di Apollo.

Alla Dea Sulis veniva attribuita la capacità di diffondere malattie, Come Apollo a Troia, quindi più che a Sulevia dobbiamo pensare ad Artemide sorella di Apollo. I romani identificarono Vindonnus con Apollo, tanto che a Chatillon-sur-Seine (Francia), nei pressi di una sorgente è stata ritrovata un’iscrizione dedicata ad Apollo Vindonnus.

Dopo la Polonia, la Germania, e la Danimarca, la migrazione dei Caucasici arriverà anche in Francia, dove sulle coste della Manica Giulio Cesare incontrerà un’altra tribù di veneti, mentre Liguri e Danai avevano già invaso l’Inghilterra (IV secolo a.C.), come abbiamo già visto nel primo capitolo, e se nella lingua gaelica la Scozia è chiamata Alba e l’Inghilterra Albione non sarà proprio un caso.

Rino Sommaruga

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    — Купажированный. Распространённый вид. Виски получают путём смешивания солодового и зернового виски разной крепости, насыщенности и выдержки.

    — Бурбон и Теннесси. Американские, изготавливаемые из кукурузы. Выдерживаются в дубовых бочках, обожжённых изнутри.

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    Котлы центрального отопления, обычно называемые плитами, – это устройства, предназначенные для нагрева теплоносителя (обычно воды), циркулирующего в системе центрального отопления. Современные котлы позволительно разделить по типу сжигаемого топлива, т.е. для твердого топлива, такого чистый уголь, уголь в виде эко-гороха, пеллеты, щепа и т.д., для газообразного топлива, т.е. разговорно одно- либо двухфункциональные газовые котлы

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